Partecipare
fa la differenza. Se le decisioni della politica vengono
vissute dalle persone come “un mondo alieno che
cade sulla loro testa”, se la scelta di un candidato
dipende più dalla sua “celebrità
e dalla sua fama mediatica che dalle sue idee”,
se avvertiamo nell’opinione pubblica un pervadente
“senso di sfiducia verso la classe politica”
e il voto elettorale si limita ad una scelta senza entusiasmo,
allora proviamo a inventare e sperimentare “delle
forme di partecipazione democratica che sappiano creare
e mantenere un collegamento fluido tra i cittadini e
gli amministratori e sappiano dare alle persone la sensazione
e l’opportunità di essere parte attiva
delle nostre democrazie”.
Hilary Wainwright, direttrice della rivista inglese
“Red Pepper” e giornalista del “Guardian”,
guarda a queste “invenzioni” e ne raccoglie
alcune nel libro Sulla strada della partecipazione
(Ediesse), un viaggio tra realtà sperimentate
di democrazia partecipativa in giro per il mondo. Come
Porto Alegre in Brasile, o le inglesi Manchester e New
Castle. E come Grottammare,
in provincia di Ascoli Piceno, dove l’amministrazione
comunale ha da tempo dato vita a iniziative di bilancio
partecipativo che iniziano ad estendersi verso forme
di partecipazione a livello provinciale. A Grottammare
abbiamo incontrato Hilary Wainwright, prima di un incontro
pubblico in cui si sono confrontate esperienze di bilancio
partecipativo europee e dell’America Latina quali
la peruviana città di Ilo, e le ecuadoregne Cotacachi
e Quito.
Una frase attribuita a Oscar Wilde recita:
“Il socialismo è una gran cosa ma ha un
grave problema: impegna troppe serate”. Democrazia
partecipativa significa impegno, uscire di casa la sera
per andare a incontri e discussioni. Possiamo chiedere
alle persone di spendere tanto tempo ed essere sicuri
che non preferiscano, invece, delegare le decisioni
pubbliche a persone di cui si fidano e che hanno scelto
alle elezioni?
La democrazia partecipativa non prevede che ciascuno
sia coinvolto in assemblee e riunioni ogni volta che
c’è da decidere qualcosa, ma prevede anche
un importante elemento di delega. L’idea della
partecipazione si fonda sulla necessità di rendere
la democrazia più profonda, radicata nella vita
dei cittadini, di quanto non lo siano le esistenti forme
di democrazia rappresentativa. Queste ultime vivono
un problema di fiducia: la gente non si fida dei rappresentati,
tant’è vero che in molte realtà
(come la Gran Bretagna) le affluenze al voto sono molto
basse, le persone smettono di andare a votare o, se
ci vanno, votano “turandosi il naso”.
Questo però non significa che coloro
che non votano sarebbero stimolati a partecipare ad
incontri pubblici dopo una giornata di lavoro.
Democrazia vuol dire che i cittadini hanno il controllo
sulla vita politica. Al momento la sensazione di avere
questo controllo non c’è. Al contrario,
mi pare che la gente viva la politica come una specie
di alieno che decide dall’alto. Perfino quando
i cittadini si esprimono con il voto, la loro scelta
è diretta più dalla celebrità e
dalla fama del candidato che non dalle sue idee di governo.
Credo che dobbiamo fare qualcosa per riformare gli attuali
modelli di democrazia. Da una parte vediamo sotto i
nostri occhi che le opinioni tendono sempre più
a ritirarsi in una sfera privata e le istituzioni pubbliche
sono sempre più svuotate di pubblico interesse,
appaiono lontane dalla gente; dall’altra parte,
se vogliamo rifiutare questa sorta di privatizzazione
perché crediamo che le decisioni pubbliche riguardino
la vita di tutti i giorni di ciascuno di noi, e vediamo
allo stesso tempo che queste decisioni sfuggono sempre
più al nostro controllo, allora cerchiamo di
sviluppare modelli di democrazia che avvicinino la quotidianità
dei cittadini e la dimensione dei decisori. Nel momento
in cui la distanza tra queste due dimensioni è
così grande che gli uni si ripiegano nella loro
sfera privata e gli altri badano alla gestione degli
affari pubblici, è allora che la partecipazione
diventa un sinonimo di perdita di tempo.
Ha accennato al fatto che anche la democrazia
partecipativa prevede un meccanismo di delega. A cosa
si riferisce?
Se vogliamo mettere in piedi qualche forma di partecipazione
che possa costruire un collegamento tra l’amministrazione
pubblica e la gente, possiamo, ad esempio, contare in
una sorta di delega intima, possiamo delegare i nostri
vicini a partecipare al nostro posto negli incontri
partecipativi; ci sono esperienze che dimostrano che
questo sistema funziona, come a Porto Alegre e in molte
realtà italiane fra cui Grottammare, in cui i
cittadini possono delegare la propria partecipazione
agli incontri alle persone di cui si fidano. I meccanismi
di delega funzionano meglio se si basano su una rete
di rapporti sociali che si ispira alla mutua fiducia
e così si possono costruire forme di partecipazione
che non limitano i cittadini a scegliere il nome di
un candidato una volta ogni cinque anni, ma li tengono
nel vivo dei processi decisionali.
Eppure sappiamo che il nostro mondo sociale
è fatto di persone molto diverse, tra queste
ci sono coloro che, per carattere e per natura, sono
più attivi e dinamici verso la partecipazione,
persone che più volentieri agiscono e fanno sentire
la propria voce. Da questo punto di vista non crede
che la democrazia partecipativa corra il rischio di
portare, parafrasando quella che Tocqueville chiamava
“dittatura della maggioranza”, a una specie
di dittatura dei volontari, o dei più attivi,
o dei più motivati?
Questo può essere un rischio. Ma la scarsa motivazione
a partecipare deriva dalla scarsa fiducia in se stessi
e nel sistema politico come rappresentante di interessi
pubblici. A volte le persone dimostrano scarso interesse
alla partecipazione perché non hanno tempo o
perché non ci sono abituate. È chiaro
che il successo dei processi partecipativi non è
affatto automatico, ma ha bisogno che alcune condizioni
siano soddisfatte. Da una parte abbiamo bisogno di una
educazione alla partecipazione, di una motivazione a
manifestare la propria opinione e confrontarla con quella
degli altri. D’altra parte abbiamo anche bisogno
di ripensare il nostro tempo e il suo rapporto con l’economia.
Viviamo in un mondo in cui le giornate lasciano pochi
spazi per la cittadinanza, quindi promuovere una democrazia
partecipativa significa anche ripensare le nostre giornate,
il nostro rapporto con il tempo e con il lavoro. Ma,
in società in cui le persone sono generalmente
abituate ad essere passive, a comportarsi in modo passivo
e a vivere delle decisioni di una stretta minoranza
di individui, credo molto nella necessità di
un sistema di educazione che voglia mettere l’accento
sull’importanza della partecipazione e fare in
modo che gli individui si rendano conto di quanto questa
possa incidere nella nostra vita migliorandola.
Se chiamiamo le persone a partecipare a decisioni
su temi di pubblico interesse, però, non possiamo
non parlare di quanto e come queste persone debbano
essere informate, prima di contribuire a una decisione.
Senza un’opinione pubblica consapevole e informata,
la partecipazione può facilmente trasformarsi
in una forma di populismo.
Credo che un’informazione migliore sia necessaria,
ma credo anche che lo sviluppo di una opinione pubblica
informata sia direttamente connesso alla crescita di
una realtà in cui il potere sia condiviso tra
decisori e sfera pubblica.
Se la gente avverte di non aver alcun potere sulle decisioni
pubbliche, la sua curiosità e il suo interesse
sarà sempre più diretto verso la sfera
privata, lasciando così la dimensione pubblica
a decisioni prese da altri. Se invece si inizia ad avere
la consapevolezza che le informazioni che si acquisiscono
dai media possono essere utili in modo concreto, allora
crescerà la curiosità, la voglia di conoscere
e sapere al servizio di un accresciuto impegno civico.
Lei scrive nel suo libro della necessità
di ripensare la rappresentanza politica. Qual è
il ruolo della mediazione politica e dei politici nella
sua visione?
I cittadini delegano oggi ai politici ogni decisione
pubblica, c’è un solo giorno in cinque
anni in cui le persone compiono una scelta attiva ed
è il momento in cui mettono una croce per scegliere
i propri candidati. In questa situazione la rappresentanza
diventa un simbolo, come se tutti gli elettori fossero
in qualche modo incarnati nei loro rappresentanti. Io
penso che questo modo di vedere sia limitativo, e che,
tra eletti ed elettori, ci sia bisogno di collegamenti
più concreti e fluidi del solo appuntamento elettorale.
La democrazia partecipativa è proprio questo.
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