Tratto da
Reset
n.95
I nuovi media avanzano. Satellite, fibra, digitale terrestre,
IpTv (Internet Protocol Tv, la televisione via internet
nelle sue varie forme), DVB-H (Digital Video Broadcasting
Handheld, la televisione sul cellulare), crescono rapidamente
o si apprestano a farlo. Già oggi ad esempio
i ricavi della pay Tv, circa 1700 milioni di euro (per
il 90% via satellite) hanno superato quello del canone
Rai, 1450 milioni di Euro.
Con l’avvento del digitale, sia satellitare che
terrestre, il numero dei canali a disposizione per una
grande varietà di programmi è cresciuto
a dismisura,
anche se l’abbondanza di oggi sarà soggetta
a sostanziale diminuzione man mano che si diffonderanno
le offerte di programmi della Tv ad alta definizione,
oramai fuori dalla fase sperimentale. In particolare
il digitale terrestre, che potendo essere ricevuto senza
bisogno di una parabola, ma attraverso decoder a basso
prezzo, si appresta a sostituire la tradizionale
televisione analogica.
C’è chi pensa che ci siano oramai tutte
le condizioni perché il
duopolio di Rai e Mediaset, in molti suoi aspetti definibile
collusivo, si stia avviando alla fine da solo, senza
bisogno di interventi dall’esterno per scioglierlo.
Vi sono tuttavia buoni motivi per ritenere che esista
un serio rischio che gli operatori oggi dominanti riescano
a riprodurre anche per il futuro la stessa
situazione di pesante controllo del mercato oggi esistente.
Questo per diverse ragioni: primo, i tempi del passaggio
completo dall’analogico al digitale per la televisione
offerta in broadcating, lo switch off, saranno nettamente
più lunghi di quelli inizialmente previsti (non
più il 2006 come nei progetti iniziali ma forse
2008 e assai più probabilmente 2010);
secondo perché la rivoluzione digitale comunque
vedrà convivere tipologie di
prodotti tra loro sostanzialmente diverse nel modo di
essere fruite.
Non tutti i modi di diffondere Tv sono adatti allo
stesso prodotto. Sia la televisione su internet che
quella sui telefoni mobili hanno modalità di
fruizione sostanzialmente diverse da quella della Tv
tradizionale ed è quindi è sbagliato parlare
di un unico mercato. Vi saranno sempre programmazioni
in broadcasting, sia di tipo generalista che tematico,
accanto a possibilità di scelte personalizzate,
sia a pagamento che non, più o meno interattive.
Vi saranno perciò offerte per chi sta in poltrona
davanti ad uno schermo sempre più grande e a
definizione sempre maggiore o offerte probabilmente
più selettive ed interattive per chi al lavoro
o a casa cerca su internet notiziari o eventi di suo
interesse.
La IpTv, tra l’altro, funziona bene se in tanti
chiedono di vedere programmi diversi, ma non altrettanto
bene per grandi eventi dove tutti vogliono vedere nello
stesso momento la stessa cosa.
Vi saranno infine offerte sostanzialmente diverse per
chi usa il suo palmare o il telefonino per guardare,
quando è in movimento o lontano da casa, programmi
in formati adatti al piccolo schermo e ad una attenzione
di breve durata.
Altro punto della questione: la pubblicità continua
ad affollarsi sulla tradizionale televisione analogica
di tipo generalista, dominata da Rai e Mediaset. Su
un totale di circa 4500 milioni di euro, la prima ne
prende il 30 per cento e la seconda il 60 per cento.
A tutti gli altri operatori tocca meno del 10 per cento.
Solo per alcuni mercati di nicchia l’utilizzo
dei canali digitali comincia ad incidere in modo visibile.
Sia il diritto degli utenti al pluralismo, sia la nascita
di un mercato aperto ed equilibrato, che dia reali possibilità
di sviluppo di nuovi operatori nel settore, sono a rischio
perché se non si interviene per impedirlo è
quasi certo che le posizioni dominanti si trasferiranno
dalla Tv analogica di oggi a quella digitale di domani.
Due sono le cause di questa situazione: la prima è
l’impossibilità di Rai di esercitare una
reale concorrenza a Mediaset sul mercato pubblicitario,
e ciò
è decisamente responsabile dei problemi gravi
generati dal duopolio nel passato e peggiorati negli
ultimi cinque anni. La seconda è la naturale
estensione, da parte sia di Rai che di Mediaset, del
controllo del mercato
anche alle nuove forme di Tv digitale grazie alla loro
natura di operatori integrati verticalmente, dalla produzione
di programmi alla raccolta pubblicitaria fino al controllo
delle reti di trasmissione e diffusione.
È ragionando su queste due cause che emerge la
necessità di alcune misure urgenti che tocchino
il problema nei suoi vari aspetti.
Si tratta in sostanza di creare condizioni di concorrenza
reale tra Rai e Mediaset e contemporaneamente aprire
l’accesso sia alle risorse economiche che alle
nuove possibilità di diffusione a nuovi editori.
A grandi linee bisogna operare su cinque fronti.
Primo: va risolto in Rai l’intreccio
tra l’offerta di servizio pubblico e quella tipicamente
commerciale. La prima finanziata sostanzialmente solo
dal canone e la seconda solo dalla pubblicità,
elevando ovviamente a questo punto l’attuale tetto
alla raccolta che limita la Rai. I due gruppi di attività
dovranno essere esercitati da due società diverse
facenti capo alla holding Rai ed entrambe possedute
al 100 per cento. La seconda tuttavia potrà essere
aperta in futuro a soci privati finanziari o editoriali.
Una Tv commerciale
a tutti gli effetti.
Cosa si intenda per servizio pubblico e quali le regole
di governo della società dedicata ad offrirlo
sono definizioni delicate e rilevanti ma non oggetto
di questa breve analisi. La separazione in due società
diverse delle due missioni
rende tuttavia certamente meno complesso separare il
ruolo delle scelte “politiche” da quelle
gestionali.
Secondo: nel nuovo contesto della
convergenza digitale va garantito a tutti i soggetti,
esistenti e nuovi, la possibilità di diffusione
dei programmi a condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie.
Bisogna cioè ridurre gli effetti negativi della
integrazione verticale degli attuali operatori dominanti
arrivando ad una separazione efficace tra operatori
di rete e fornitori di contenuti. Vi sono varie opzioni
possibili in materia, a partire da quelle più
drastiche ma sinceramente impraticabili della ridistribuzione
delle frequenze o della creazione di una società
pubblica delle reti.
La via più praticabile potrebbe essere quella
della separazione societaria accompagnata da regole
chiare sull’utilizzo in proprio della capacità
trasmissiva e sulle modalità di cessione a terzi
della capacità in eccesso nelle quote previste
dalla legge.
Terzo: va accelerata la transizione
al digitale terrestre correggendo gli errori della politica
fino a qui seguita che lo ha di fatto identificato con
una “pay Tv a basso costo”.
La via giusta è quella seguita dalla Bbc che
con una programmazione dedicata e di qualità,
gratuita, ha già superato i dieci milioni di
decoder utilizzati.
L’accelerazione della transizione è cruciale
per l’apertura di tutto il sistema televisivo
a nuovi protagonisti e la si può avviare con
una politica Rai di investimento in programmi dedicati
esclusivamente al digitale e con incentivi sul fronte
dei tetti pubblicitari a chi porterà, solo sul
digitale, una delle reti oggi distribuite sull’analogico.
In queste nuove condizioni tutto il sistema
acquisterebbe dinamismo. Decoder semplici possono essere
prodotti in grande quantità a basso costo stimolando
una domanda non con l’incentivo all’acquisto
di apparati finalizzati alla Tv a pagamento, ma con
il richiamo di una offerta di programmi esclusivi gratuiti.
Se quanto speso per sussidiare l’acquisto di decoder
più costosi fosse stato destinato alla produzione
e all’offerta di questo tipo di canali, tanto
per cominciare, dalla Rai, è quasi certo che
sarebbe stata la domanda spontanea
a far crescere bene la diffusione del nuovo sistema.
Bbc ha fatto vedere che si
può. Anziché procedere alla transizione
gradualmente per regioni, come oggi previsto, lo si
farebbe gradualmente per reti.
Una diversa politica dell’offerta Rai via satellite
può pure essere finalizzata all’offerta
di qualità sul digitale terrestre.
Con la diffusione crescerebbe anche la convenienza per
nuovi editori ad investire in offerta televisiva ed
i tempi per arrivare allo switch off potrebbero accorciarsi
molto.
Quarto: si deve intervenire in funzione
antitrust anche sulla rottura della integrazione verticale
con le concessionarie di pubblicità e, quinto,va
radicalmente rivista anche la misurazione della audience
che deve essere estesa alle rilevazioni multipiattaforma
ed essere quindi valida per i contenuti audiovisivi
su tutti i mezzi.
I cinque punti qui sommariamente indicati non sono
ovviamente che una traccia per il cammino da seguire,
e non vengono qui toccati temi rilevanti quali il rapporto
con gli operatori telefonici, il rafforzamento del ruolo
dell’Autorità, le competenze delle regioni,
le Tv locali e le nuove disposizioni
sulla pubblicità.
Un cammino complesso, ma necessario per impedire che
la grande opportunità di pluralismo e di libertà
offerta dalla rivoluzione digitale non svanisca nella
naturale e per questo molto insidiosa tensione alla
sopravvivenza del nostro storico duopolio collusivo.
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