La stanza
affollata sembra una sauna, effetto naturale del sole
ardente che colpisce il tetto di lamiera e della mancanza
di un ventilatore o di un condizionatore che mitighino
il caldo desertico. Tutti parlano della “rotta
del vino”, un nome benevolo, quasi idilliaco,
per un sinistro piano di suddivisione territoriale che
il governo israeliano sta mettendo in atto.
“È arrivato il momento di organizzarsi”
dice uno. “Non c’è modo per contrastarlo”
risponde un altro. Questa discussione, schietta, va
avanti per parecchi minuti finché la gente inizia
a prendere posto sui tappeti e sui cuscini che ornano
il pavimento di cemento.
L’organizzatore dell’incontro, un coordinatore
del Negev Coexistence Forum for Civil Equality, chiede
ai nostri ospiti di parlare. Uno dopo l’altro,
i beduini si alzano per raccontare le proprie storie
personali. Tutti parlano dell’abuso perpetrato
contro la loro comunità con l’approvazione
dello Stato. Ingiustizia dopo ingiustizia a creare una
storia impietosa di espulsione, violenza, repressione
e inganno.
Ali Abu Sheita racconta di come i suoi genitori siano
stati strappati al territorio della loro tribù
e trasferiti in una regione desolata dove per anni hanno
dovuto camminare per quindici chilometri con i loro
cammelli e i loro asini solo per portare l’acqua
al villaggio. Nel vicino villaggio ebreo, continua Abu
Sheita, le condutture portano l’acqua direttamente
a ogni lavandino. Halil Al Aseiby indica i pali dell’elettricità
ad alto voltaggio appena fuori della baracca, enfatizzando
la crudele regolamentazione che vieta ai “beduini
non riconosciuti” di collegare le proprie abitazioni
alla rete elettrica. “Non vengono fatte eccezioni
nemmeno per le persone che hanno bisogno di conservare
i propri medicinali al fresco per mantenersi in vita”,
dice. Un altro uomo sventola un ordine di demolizione
che è stato affisso sulla sua capanna “illegale”
il 25 aprile. “Un qualsiasi giorno di questi –
dice – potrebbero arrivare i bulldozer”.
Questi beduini-arabi sono cittadini israeliani proprio
come lo sono io; il loro unico crimine consiste nel
non essere ebrei. Eppure, i beduini sono la popolazione
indigena dell’arido deserto israeliano, il Negev.
Prima dell’istituzione dello Stato di Israele,
circa 60mila beduini vivevano nell’area ma, in
seguito alla guerra del 1948, ne rimasero solo undici
mila o poco più; il resto fuggì o venne
espulso in Giordania e in Egitto. Sotto le direttive
del primo premier israeliano David Ben-Gurion, coloro
che rimasero in Israele vennero sradicati dalle terre
che avevano abitato e vennero convogliati nella parte
nord-orientale del Negev, un’area perlopiù
desolata nota come la “zona di chiusura”,
mentre l’area occidentale del Negev, più
fertile, veniva riservata alle colonie ebraiche.
Nel corso degli anni ’50 e fino alla metà
degli anni ’60, una porzione considerevole delle
loro terre ancestrali venne confiscata e registrata
come territorio statale. Negli anni ’70, quasi
la metà della popolazione beduina venne trasferita
ancora dal governo israeliano, questa volta in sette
aree territoriali. L’idea era di concentrare la
popolazione beduina all’interno di una zona ristretta
che comprendesse solo una percentuale molto limitata
delle terre originarie delle loro tribù, terre
dalle quali la popolazione beduina era stata espulsa.
I beduini dovettero rinunciare a qualsiasi rivendicazione
della loro terra ancestrale per poter ottenere il dubbio
privilegio di vivere in questi territori sovraffollati.
La restante metà della popolazione beduina, che
comprende oggi circa 75mila persone, non fu disposta
a rinunciare ai propri diritti di proprietà ed
è ora sparsa in quarantacinque villaggi disseminati
nel Negev che non sono mai stati riconosciuti dallo
Stato.
Abbiamo visitato uno di questi villaggi lo scorso fine
settimana assieme al Negev Coexistence Forum. A non
più di 25 minuti dal mio piccolo ma gradevole
appartamento con aria condizionata, c’è
una serie di baraccopoli beduine. Nessuna delle abitazioni
presenti in questi villaggi non riconosciuti è
collegata alla rete elettrica, all’acqua corrente,
al sistema fognario o alla rete telefonica. Non ci sono
strade asfaltate che portano ai villaggi e, di conseguenza,
i servizi di emergenza non possono raggiungerli velocemente,
mentre l’accesso ad altri servizi fondamentali
– salute, istruzione e welfare – è
difficile e limitato.
Questi beduini sono attualmente rappresentati da un
Consiglio regionale non riconosciuto dei villaggi
non riconosciuti (poiché i villaggi
non sono stati riconosciuti dal governo israeliano,
questo non è stato neanche disposto a riconoscerne
il consiglio elettivo). Durante la nostra visita, il
capo del consiglio Hsein Al Refaya ha sottolineato che
la popolazione soffre di un tasso di disoccupazione
molto elevato: approssimativamente il 60% degli uomini
e l’85% delle donne. La popolazione è caratterizzata
da una povertà lacerante, da un alto tasso di
mortalità infantile, da pochi lavoratori specializzati
e da un elevato tasso di criminalità. Inoltre,
il 40% circa dei bambini beduini abbandonano la scuola.
Per anni questi beduini hanno lottato per il proprio
diritto fondamentale a essere riconosciuti e a godere
degli stessi servizi di cui gode ogni altro cittadino
israeliano in virtù della propria cittadinanza.
I loro rappresentanti hanno incontrato un mucchio di
funzionari governativi, testimoniato davanti a numerose
commissioni e sottoposto alle corti israeliane una quantità
apparentemente infinita di petizioni. Spesso hanno riscontrato
simpatia, me non hanno mai incontrato giustizia.
È qui che entra in gioco “la Rotta del
Vino”. Invece di cercare di risolvere la difficile
situazione in cui versa questa gente in maniera morale,
il governo israeliano sta mettendo in atto un progetto
ambiguo che viola ulteriormente i diritti territoriali
dei beduini e intensifica la loro alienazione dalla
società israeliana. Il piano “Rotta del
Vino” autorizza la costruzione di 20 fattorie
private che dovrebbero soddisfare i turisti israeliani.
Alcune di queste fattorie sono già state costruite
e si trovano sullo stesso territorio che i beduini considerano
proprio; tutte le fattorie – costruite e progettate
– riceveranno i servizi che sono stati negati
ai beduini per molti decenni: acqua corrente, elettricità
e strade asfaltate.
Il piano svela la menzogna che ha informato il trattamento
dei beduini non riconosciuti da parte di Israele. Per
anni, i funzionari israeliani hanno sottolineato la
necessità di concentrare i 75.000 beduini in
cittadine ampie, affermando che i loro 45 villaggi erano
troppo piccoli e dispersi in un’area troppo ampia
che rendeva così molto difficile la possibilità
di dotarli di infrastrutture. Ciò serviva a giustificare
la politica di non riconoscimento. Eppure ora, gli stessi
funzionari stanno distribuendo permessi a un mucchio
di fattorie disseminate tra migliaia di dune, e che
ospitano una sola famiglia ciascuna.
Ma “la Rotta del Vino” non svela solo la
menzogna di Israele. Le fattorie – spiega Ariel
Dloomy del Negev Coexistence Forum – sono utilizzate
per assicurarsi che solamente cittadini ebrei abbiano
accesso ad ampi segmenti del Negev e, in questo modo,
insidiano il tentativo dei beduini di rivendicare la
propria terra ancestrale. Come afferma chiaramente un
documento governativo: “La ragione per avviare
(queste fattorie) è proteggere il territorio
statale… e offrire soluzioni alle problematiche
demografiche”. Fra l’altro, aggiunge Dloomy,
una fattoria è stata data a un beduino come foglia
di fico a coprire l’impudente discriminazione
israeliana.
“Come ci aiuterete a contrastare questa iniziativa?”
chiede Abu Sheita ai membri del Negev Coexistence Forum.
“I nostri amici non hanno accesso alle stanze
del potere, e non possiamo aspettarci che mettano fine
alla lunga discriminazione di tutti i passati governi
israeliani” risponde immediatamente la persona
al suo fianco.
“Forse no, – continua Abu Sheita –
ma possiamo pretendere che ci provino”. E dopo
un breve silenzio aggiunge: “La discriminazione
contro i beduini è come un grande macigno; un
piccone non potrà mai romperlo in un solo colpo,
ma se si continuerà a colpirlo per molti anni,
alla fine andrà in frantumi”.
Traduzione di Martina Toti
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