Il filosofo
Carlo Galli è, ormai da tempo, uno degli intellettuali
più citati e presenti nel dibattito culturale
italiano. Professore ordinario di Storia delle dottrine
politiche presso la facoltà di Lettere e filosofia
dell’università di Bologna, editorialista
di vari quotidiani e per la Rai, autore del più
importante e monumentale studio attualmente disponibile
sul giurista tedesco Carl Schmitt (Genealogia della
politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico
moderno, uscito nel ’96 per il Mulino e costatogli
un quinquennio di intenso lavoro), ha curato recentemente,
sempre per la stessa casa editrice, il libro Multiculturalismo.
Ideologie e sfide (con saggi di Francesca Rigotti,
Alessandro Dal Lago, Maria Laura Lanzillo, Marcello
Ostinelli, Patrizia Catellani, Augusto Palmonari, Stefano
Ceccanti e Susanna Mancini).
Prof. Galli, cosa sono oggi le identità?
Direi che l’identità è, al momento,
un’arma da guerra, come il concetto, ad essa vicinissimo,
di valore. Sono strutture mentali e politiche da cui
non si può prescindere, soprattutto in determinati
momenti, di cui bisogna però riconoscere attentamente
la fortissima carica polemica. Mi viene da dire che
“felice è il paese che può fare
a meno di identità”, naturalmente intese
non quali forme di autocoscienza o espressioni e stili
di vita generati da convincimenti (che sono ben altra
cosa), ma come affermazioni polemiche di sé contro
l’Altro. Se noi assecondiamo troppo la deriva
necessariamente polemica insita nella categoria di identità,
non riusciremo mai a venire a capo delle questioni poste
dal multiculturalismo. Il multiculturalismo è
un problema oggettivo, non inventato dagli intellettuali.
Dentro le strutture universali (pretese tali, nella
realtà e di fatto solamente omogenee, e di un’omogeneità
spesso costruita in modo sbrigativo), ma particolari
della politica moderna, sono entrate oggi quantità
assai notevoli di persone per le quali ciò che
non è un problema per noi (per fare un esempio,
il crocefisso sui muri, perché eravamo tutti
cristiani, anche se non praticanti), costituisce invece
un problema. Si tratta di capire se ciò che costituisce
un problema rappresenta parte essenziale della nostra
identità, oppure no. Ecco il punto: improvvisamente
qualcuno ha scoperto che la liberaldemocrazia non è
quello che essa pretende di essere, cioè il discorso
universale sul rapporto individuazione/identificazione
(l’idea razionalistica, una delle tre grandi narrazioni
classiche in materia, insieme a quella dialettica e
a quella nichilistica). Ciò che vi è di
essenziale nelle democrazie liberali è quanto
hanno fatto nella storia, e non quanto è stato
scritto su di esse nei libri. La liberaldemocrazia,
dunque, è particolare, e nient’affatto
universale. Oggi che la sua particolarità, vale
a dire il suo essere radicata all’interno di contesti
determinati, viene sfidata dall’ingresso di altre
culture, qualcuno invece di porsi la questione del superamento
della determinazione – tanto nostra che degli
altri – reagisce dicendo: “Ebbene sì,
ciò che era universale, è invece particolare
e la sua forza sta proprio lì. Dunque, va difeso
e affermato: guerra aperta a coloro che non si adeguano
proprio a tale particolarismo!”. Il cristianesimo
come essenza dell’Occidente, per intenderci. Se
il laico “tradisce” le radici cristiane,
diventa opportuno in questa visione, che naturalmente
non condivido affatto, fare politica in modo apertamente
militante. È inutile che faccia nomi e cognomi,
perché tutti capiranno a chi mi riferisco…
In che modo il multiculturalismo ha messo in
crisi l’idea illuministica?
Dunque, qui c’è una scommessa. E cioè
che il multiculturalismo non metta affatto in crisi
il progetto illuministico, e risulti davvero possibile
transitare al cosmopolitismo nei fatti e non a parole,
oggi che il globo insiste tutto su un punto e su ogni
punto insiste tutto il globo. Insomma, adesso che il
cosmopolitismo è una necessità, viene
da dire: prendiamo sul serio l’illuminismo, valutando
seriamente i suoi limiti, ovvero il nascere all’interno
di una cultura, quella della secolarizzazione del cristianesimo.
L’universalismo illuministico non sarà
immediatamente assecondabile da parte di coloro che
sono stati educati e abituati a ragionare in un contesto
religioso poco facilmente secolarizzabile, anche se
non necessariamente non secolarizzabile, quale, per
esempio, l’Islam. In ogni caso, perché
non provare a conseguire l’obiettivo, che fu anche
illuministico, del cosmopolitismo? Con una precisazione:
l’illuminismo non fu totalmente cosmopolitico,
ma con una componente nazionale molto forte, cosa che
aveva una valenza all’epoca progressista.
Quale strada si potrebbe percorrere verso questo
obiettivo?
Una via potrebbe consistere nel praticare forme di
convivenza sociale che portino a depotenziare la nozione
di identità, e a toglierle ogni elemento polemico.
In modo, così, che tutte le costruzioni volte
alla neutralizzazione dei conflitti, le quali probabilmente
hanno fatto il loro tempo, non debbano necessariamente
essere riproposte come l’unica soluzione a tali
questioni, semplicemente e banalmente con uno spostamento
di livello. Così come lo Stato moderno nasceva
per neutralizzare il conflitto tra gruppi, oggi che
il suo fine è stato raggiunto, e si è
creata un’omogeneità e standardizzazione
al suo interno, ora esso dovrebbe neutralizzare i conflitti
tra blocchi culturali; una sorta di tregua d’armi
e di contratto sociale rinnovato. Si tratta di una soluzione,
certamente con molti problemi: innanzitutto, perché
le costituzioni e gli Stati contemporanei non dispongono
più della forza per attuare tale neutralizzazione.
La sfera politica e le nostre democrazie come
possono contribuire a neutralizzare i conflitti tra
culture?
Sganciare le culture dalle identità: questo,
a mio giudizio, è invece il vero progetto da
perseguire. Il multiculturalismo, infatti, porta ad
accettare la realtà delle culture e il loro rilievo
politico, compresa la circostanza che, nonostante i
propri sforzi universalistici (a volte persino in buona
fede) anche la democrazia occidentale non può
non essere espressione di una cultura; porta però
anche a non restare paralizzati da questa contraddizione
fra particolare e universale e invita a lavorare per
eliminare quanto c’è di inutilmente intollerante
e di etnocentrico nella stessa democrazia, offrendo
e chiedendo percorsi analoghi alle altre culture. Ciò
significa pensare sia una cittadinanza democratica generale,
che prescinde dall’appartenenza culturale, sia
sedi e forme di riconoscimento di identità culturali,
secondo la logica delle appartenenze e delle cittadinanze
plurime.
Questo approccio evidenzia che le tesi alla Huntington
sullo scontro di civiltà sono nient’altro
che proiezioni interessate del peggio che può
succedere; prevedere sempre il peggio, del resto, è
in genere il modo per farlo capitare. Abbiamo bisogno
di una politica che vada oltre le logiche di affermazione
e di radicamento del sé e del noi, e promuova
le soggettività (individuali e collettive) nomadi,
contaminate, complesse che sono le sole a collocarsi
all’altezza del mondo globale e le sole a potere
praticare (forse) la convivenza fuori dalla stigmatizzazione
dell’Altro.
Professore, cosa pensa degli studi postcoloniali?
Sono una delle avventure intellettuali più ambiziose
della fine del Novecento, con la finalità di
individuare un punto di vista critico rispetto alle
dinamiche politiche e culturali dell’Occidente,
dopo che l’altro punto di vista critico –
quello dialettico – ha dimostrato per ora la propria
inefficacia. Gli studi postcoloniali sono l’occasione
per verificare processi e dinamiche dell’Occidente
a partire dal punto di vista dei loro esiti, così
come il socialismo era la critica del liberalismo e
del capitalismo insieme a partire dal loro esito (come
costituzione del proletariato). Alla luce della capacità
del Logos occidentale di espandersi e di portare dentro
di sé larghe fette del pianeta, generando risultati
che consistono nella costruzione di forme di esclusione
e di disuguaglianza sistematiche, gli studi postcoloniali
ricercano il suo superamento. L’ambizione, in
sostanza, è quella altissima di costituire la
nuova forma della critica. Più ci rifletto, e
maggiormente mi convinco della loro sfida epocale. Quanto
più i postcolonial studies verranno
praticati da intellettuali di formazione europeo-continentale,
sensibili alle complessità, e tanto maggiormente
capaci di confrontarsi con quegli studiosi provenienti
dalle altre aree del pianeta che ne hanno fatto l’oggetto
fondamentale della loro ricerca e un motivo di vita,
tanto meglio sarà per la loro ricchezza di analisi
e per la loro forza esplicativa.
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