Tratto da
Il
Secolo XIX
Dopo le parole del Presidente del Comitato per i mondiali
Franz Beckenbauer, la crisi del calcio italiano assume
i connotati di una crisi generale.
Il problema non è Luciano Moggi o la decisione
“volontaria” di Marcello Lippi di tornare
a casa. Gli atti simbolici saranno necessari, ma non
saranno sufficienti.
Come in altre occasioni la questione dell’illecito
(in questo caso sportivo) diviene la spia indiziaria
del carattere di noi italiani.
Questo stesso profilo è tornato mote volte nella
storia italiana, anche in quella recente. Consideriamo
Tangentopoli. Che cos’era quella crisi, se non
la reazione a un crollo di fiducia tra contraenti, tra
politici e “loro” pubblico? Forse le monetine
contro Bettino Craxi dicevano di una solitudine del
leader politico e della fine del rispetto nei suoi.
Ma quella scena, all’interno di quella crisi,
individuava un limite. Ovvero il fatto che, al di là
del caso personale, una crisi non è mai risolta
da un atto emotivo e che quel gesto nel tempo successivo
pesa non come viatico alla uscita dalla crisi, ma come
suo handicap. Difficilmente sul capro espiatorio si
costruiscono nuovi inizi capaci di superare le cause
che hanno prodotto la crisi. Anche nel calcio, come
altrove, del resto, la degenerazione di un sistema,
non allude mai solo a una questione di persone, ma richiede
la riscrittura di regole in grado di esprimere un nuovo
e ritrovato rapporto con un pubblico.
La crisi del mondo del calcio presenta una doppia fisionomia.
Da una parte stanno i comportamenti intorno al campionato
di calcio, le pressioni, gli accordi, il blocco di potere;
dall’altra la capacità contrattuale di
fiducia che il calcio ha rispetto al suo pubblico. E’
questo secondo modulo a segnare nel profondo la crisi
attuale del calcio, una crisi di sconcerto del suo “popolo”.
Nella crisi di queste settimane la condizione del “popolo
del calcio” richiama per molti aspetti quella
stessa del “popolo comunista” in Italia
nel corso del 1956: la rivelazione del rapporto segreto
Kruscev in fondo diceva cose e raccontava particolari
che erano già noti a molti, ma aveva l’effetto
di scatenare una crisi di abbandono perché ciò
che veniva abbattuto era un sistema di certezze, di
investimenti emotivi e di immaginario che avevano popolato
a lungo i sentimenti, le passioni e le ragioni dei militanti.
Se ne uscì da una parte con profonde lacerazioni,
con fughe verso altri partiti e spesso con il ritiro
dalla politica. A chi rimase “in casa” spettò
il compito non di negare, ma di provare a costruire
con lentezza e con cautela un diverso scenario su cui
riversare passioni e ragioni.
Riconsideriamo allora la fisionomia della crisi adottando
questo angolo prospettico. Preliminarmente essa è
percezione di incongruenza tra passione e discussione
pubblica, tra coinvolgimento emotivo e analisi del giorno
dopo. In questa crisi ciò che si colloca al centro
non è l’alterazione del “gioco giocato”
(un aspetto che molte volte c’è stato nella
storia del calcio italiano, ma che non ha mai prodotto
fenomeni di “fuga dal calcio”), bensì
è il calcio visto e giudicato il giorno dopo.
Dove sta dunque la crisi? Nel fatto che un intero popolo
del calcio che vive o che si riscatta il lunedì
perché percepisce il peso della sua parola, scopre
che anche nell’occhio tecnico cui erano affidate
le possibilità del giudizio equanime c’era
un trucco. Che niente era vero, e che niente era più
ingannevole di ciò che si presentava come vero.
La vera crisi del calcio non è la corruzione
sul campo, ma quella “fuori dal campo”.
E’ la moviola – “l’occhio oggettivo”
- il suo uso e il suo controllo, un aspetto appena intravisto
e poi scomparso dalla discussione pubblica ma destinato
a segnare profondamente la crisi attuale, a segnare
forse la natura di una crisi che si distingue dalle
precedenti e in cui sono investiti e coinvolti sentimenti,
competenze, passioni.
Per questo non basterà modificare gli assetti
dirigenti o punire i colpevoli. Il danno reale riguarda
il venir meno di un patto di fiducia. Più che
il giustizialismo, in questo caso si dovrà tentare
di rispondere alla sfiducia, al senso di “presa
in giro”, al fatto di aver creduto di assistere
a delle regole del gioco e alla possibilità di
farle valere laddove violate o non rispettate, e scoprire
invece di essere stati giocati, un’altra volta.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|