301 - 16.06.06


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Se crolla la fiducia del popolo del calcio

David Bidussa



Tratto da Il Secolo XIX

Dopo le parole del Presidente del Comitato per i mondiali Franz Beckenbauer, la crisi del calcio italiano assume i connotati di una crisi generale.
Il problema non è Luciano Moggi o la decisione “volontaria” di Marcello Lippi di tornare a casa. Gli atti simbolici saranno necessari, ma non saranno sufficienti.
Come in altre occasioni la questione dell’illecito (in questo caso sportivo) diviene la spia indiziaria del carattere di noi italiani.

Questo stesso profilo è tornato mote volte nella storia italiana, anche in quella recente. Consideriamo Tangentopoli. Che cos’era quella crisi, se non la reazione a un crollo di fiducia tra contraenti, tra politici e “loro” pubblico? Forse le monetine contro Bettino Craxi dicevano di una solitudine del leader politico e della fine del rispetto nei suoi.
Ma quella scena, all’interno di quella crisi, individuava un limite. Ovvero il fatto che, al di là del caso personale, una crisi non è mai risolta da un atto emotivo e che quel gesto nel tempo successivo pesa non come viatico alla uscita dalla crisi, ma come suo handicap. Difficilmente sul capro espiatorio si costruiscono nuovi inizi capaci di superare le cause che hanno prodotto la crisi. Anche nel calcio, come altrove, del resto, la degenerazione di un sistema, non allude mai solo a una questione di persone, ma richiede la riscrittura di regole in grado di esprimere un nuovo e ritrovato rapporto con un pubblico.

La crisi del mondo del calcio presenta una doppia fisionomia. Da una parte stanno i comportamenti intorno al campionato di calcio, le pressioni, gli accordi, il blocco di potere; dall’altra la capacità contrattuale di fiducia che il calcio ha rispetto al suo pubblico. E’ questo secondo modulo a segnare nel profondo la crisi attuale del calcio, una crisi di sconcerto del suo “popolo”.

Nella crisi di queste settimane la condizione del “popolo del calcio” richiama per molti aspetti quella stessa del “popolo comunista” in Italia nel corso del 1956: la rivelazione del rapporto segreto Kruscev in fondo diceva cose e raccontava particolari che erano già noti a molti, ma aveva l’effetto di scatenare una crisi di abbandono perché ciò che veniva abbattuto era un sistema di certezze, di investimenti emotivi e di immaginario che avevano popolato a lungo i sentimenti, le passioni e le ragioni dei militanti.
Se ne uscì da una parte con profonde lacerazioni, con fughe verso altri partiti e spesso con il ritiro dalla politica. A chi rimase “in casa” spettò il compito non di negare, ma di provare a costruire con lentezza e con cautela un diverso scenario su cui riversare passioni e ragioni.

Riconsideriamo allora la fisionomia della crisi adottando questo angolo prospettico. Preliminarmente essa è percezione di incongruenza tra passione e discussione pubblica, tra coinvolgimento emotivo e analisi del giorno dopo. In questa crisi ciò che si colloca al centro non è l’alterazione del “gioco giocato” (un aspetto che molte volte c’è stato nella storia del calcio italiano, ma che non ha mai prodotto fenomeni di “fuga dal calcio”), bensì è il calcio visto e giudicato il giorno dopo.

Dove sta dunque la crisi? Nel fatto che un intero popolo del calcio che vive o che si riscatta il lunedì perché percepisce il peso della sua parola, scopre che anche nell’occhio tecnico cui erano affidate le possibilità del giudizio equanime c’era un trucco. Che niente era vero, e che niente era più ingannevole di ciò che si presentava come vero.
La vera crisi del calcio non è la corruzione sul campo, ma quella “fuori dal campo”. E’ la moviola – “l’occhio oggettivo” - il suo uso e il suo controllo, un aspetto appena intravisto e poi scomparso dalla discussione pubblica ma destinato a segnare profondamente la crisi attuale, a segnare forse la natura di una crisi che si distingue dalle precedenti e in cui sono investiti e coinvolti sentimenti, competenze, passioni.

Per questo non basterà modificare gli assetti dirigenti o punire i colpevoli. Il danno reale riguarda il venir meno di un patto di fiducia. Più che il giustizialismo, in questo caso si dovrà tentare di rispondere alla sfiducia, al senso di “presa in giro”, al fatto di aver creduto di assistere a delle regole del gioco e alla possibilità di farle valere laddove violate o non rispettate, e scoprire invece di essere stati giocati, un’altra volta.




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