Anche i riformisti
iraniani fanno sentire la loro voce. Il 16 maggio, 132
esponenti dell’opposizione hanno aggiunto con
coraggio il proprio nome alla lista di quanti, nel mondo,
chiedono la scarcerazione di Ramin Jahanbegloo, il filosofo
iraniano arrestato senza motivo, il 28 aprile scorso,
dalle autorità di Teheran. Tra loro l’ex
vicepresidente Mohammad Ali Abtahi, il leader del partito
riformista Mohammad Reza Khatami e l’ideologo
del gruppo, Saeed Hajjarian. Ma ci sono anche, come
segnala la francese Afp, il professore universitario
Hashem Aghajari, condannato a morte per apostasia e
poi rilasciato l’anno scorso, e il leader nazionalista
Ebrahim Yazdi. Tutti concordano che l’arresto
di Jahanbegloo, membro del comitato scientifico di Reset
Dialogues on Civilizations, è “contro le
legali procedure e contrario alla Dichiarazione dei
Diritti dell’Uomo”: “Chiediamo agli
ufficiali giudiziari iraniani di annunciare ufficialmente
la lista delle accuse portate contro di lui –
aggiungono – e di concedergli libero accesso alla
rappresentanza legale”. L’arresto è
stato comunicato ufficialmente dalle autorità
soltanto il 3 maggio. Da allora Jahanbegloo ha potuto
prendere contatto solo occasionalmente con la famiglia,
che rimane all’oscuro dei particolari della vicenda.
Il ministro dell’Intelligence Mohseni Ejeie ha
dichiarato che il filosofo è stato arrestato
per non precisate relazioni con stranieri, mentre il
quotidiano di destra Jomhouri Eslami, legato all’Ayatollah
Ali Khamenei, sostiene che egli sia legato ai servizi
segreti americani e israeliani, e asserisce addirittura
che il pacifico Ramin sia un uomo-chiave del complotto
con cui l’America intende far cadere il regime
(partendo dalla recente richiesta di stanziamento di
75 milioni di dollari, avanzata al Congresso dal segretario
di Stato Condoleezza Rice per favorire la democrazia
a Teheran). Il giornale Keyhan, vicino ai servizi segreti,
lo ha invece accusato di essere «un agente straniero
legato ai monarchici». Le notizie rimangono volutamente
vaghe, circondate da un tradizionale sospetto che genera
ancora più angoscia. Si dice che Jahanbegloo
sia stato trasferito in ospedale, alla corsia 209 del
carcere di Evin, a nord della capitale. Secondo il sito
internet Farda, vicino alla destra, avrebbe già
fornito decine di pagine di confessioni. A questo proposito,
Human Rights Watch fa notare come questo tipo di “confessioni”
fasulle di prigionieri iraniani sia regolarmente estorto
tramite tortura, soprattutto nella prigione di Evin.
Solo pochi mesi fa, la stessa organizzazione umanitaria
aveva accusato il ministro Ejeie di aver ripetutamente
violato i diritti umani.
Il governo del Canada, paese del quale Jahanbegloo
possiede la cittadinanza (ha vissuto a insegnato, al
Trinity College dell’Università di Toronto),
si è già mosso diplomaticamente. Ma il
ministro degli Esteri di Toronto, Peter MacKay, ha già
ammesso le difficoltà, anche perché c’è
il terribile precedente di Zahra Kazemi, la fotoreporter
iraniana con passaporto canadese uccisa nel 2003 proprio
nella prigione di Evin. Ai funzionari canadesi non è
stato permesso di vedere il prigioniero. L’agenzia
di notizie Fars, citando fonti interne al mondo giudiziario
di Teheran, ha scritto che il filosofo sarebbe accusato
di avere un contratto con il governo degli Stati Uniti.
Tesi completamente priva di qualunque plausibile fondamento.
La ragione sta, molto più probabilmente, nell’atteggiamento
serenamente e pacificamente critico di Jahanbegloo verso
il regime di Ahmadinejad, nel suo impegno per la democrazia
e la libertà che lo ha reso noto all’estero,
anche grazie agli articoli scritti per il quotidiano
spagnolo El Paìs (in uno di questi criticava
il suo presidente per aver negato l’Olocausto).
La situazione è grave, e i familiari del filosofo
hanno scelto di mostrare cautela. La moglie preferisce
non parlare con i giornalisti, per evitare di irritare
il regime. La madre, direttrice di una Ong per le donne
senzatetto, è stata ricoverata il 14 maggio all’ospedale
della capitale. In una democrazia liberale ogni tipo
di oppositore, anche il più violento, avrebbe
diritto di cittadinanza. Il regime di Teheran non tollera
e ha paura persino di un riformista moderato come Ramin
Jahanbegloo, con la fama di non-violento gandhiano persino
negli anni in cui da giovane, alla Sorbona, era circondato
da rivoluzionari marxisti. Della sua sorte si stanno
occupando i principali media internazionali, dalla Bbc
alla Cnn, da Die Zeit a OpenDemocracy. Le associazioni
per i diritti umani hanno lanciato l’allarme,
e tra queste si è fatta sentire anche l’organizzazione
diretta dal premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi. Hanno
condannato l’arresto, in una lettera aperta a
Khamenei, i centri di ricerca internazionali Middle
East Studies Association of North America (MESA) e International
Society for Iranian Studies (ISIS).
Sono già due gli appelli internazionali che
hanno chiesto la sua scarcerazione. Uno lanciato dalla
rivista italiana Reset, diretta da Giancarlo Bosetti.
E l’altro dalla rivista francese Esprit, diretta
da Olivier Mongin, in collaborazione con il network
Eurozine. Vi aderiscono nomi come Giuliano Amato, Michael
Walzer, Umberto Eco, Richard Rorty, Edgar Morin, Anthony
Giddens, Michael Ignatieff, Olivier Roy, Timothy Garton
Ash, Otto Schily, Emma Bonino, Daniel Cohn-Bendit, Fred
Dallmayr, Krzysztof Michalski, Nasr Abu-Zayd, Abdullahi
An-Na’im, Seyla Benhabib, Mohamed Salmawi, Bassam
Tibi, Navid Kermani, George Steiner, Toni Negri, Bernard
Cassen, Claude Lefort e Driss El Yazami.
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