300 - 02.06.06


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Partito democratico.
Radici, non mediazioni

David Bidussa



Tratto da Il Secolo XIX

La decisione di Piero Fassino di non entrare al governo e di dedicarsi alla costruzione del partito democratico ha un valore politico rilevante. Dare vita a un nuovo soggetto politico richiederà impegno, decisione e coraggio, comunque non sarà il risultato di un’evoluzione naturale e indolore.
Si riapre la discussione che in Italia, almeno dal 1989, nel panorama della sinistra e del centro sinistra, siamo tornati a rivivere varie volte: la disputa tra coloro che dicono che il partito democratico sarà un progetto ineluttabile e chi sostiene, al contrario, che non ce n’è bisogno e che la politica sta bene così com’è e che al massimo necessita di modifiche di dettaglio. Come sempre questa disputa riguarda preliminarmente le singole componenti dei Ds tra riformisti e sinistra interna.

Il partito democratico in costruzione dunque avrà di fronte preliminarmente un confronto tra le anime interne dei Ds. Non sarà un confronto accademico, ma si fisserà su alcuni temi e parole d’ordine simboliche e strutturali. Quel confronto, per esempio, riguarderà la propria identità primaria: ovvero se l’area di riferimento sarà definita dall’appartenenza alla socialdemocrazia europea, o meno.

Poi si tratterà di definire la propria cultura economica, ovvero se ancora si salvaguarderanno gli assetti del welfare o si lavorerà per una sua radicale trasformazione. Questa opzione non sarà un dettaglio. Infatti in mezzo si colloca la questione della legge Biagi, ovvero di un’idea del mercato del lavoro che include fare i conti con un segmento rilevante (se non numericamente certo culturalmente) dell’attuale coalizione di governo guidata da Romano Prodi.

Lungo questo percorso altri aspetti indicheranno delle scelte di fondo: saranno quelli relativi alla questione della scuola, delle strutture di formazione di eccellenza, della capacità dispensare un diverso assetto di politiche regionali tra Nord e Sud. In discussione all’interno della costruzione del partito democratico sta dunque il problema del rapporto tra Stato e società, degli assetti protettivi, delle regole di intervento, delle politiche di tutela.

La costruzione del partito democratico, tuttavia, non sarà solo un laboratorio teorico. I partiti non nascono come prolungamento di una teoria politica. Sono il risultato di una visione del futuro e delle politiche generali che discendono da un’idea di sviluppo, dalle risorse sociali, umane, e culturali per realizzarlo e dalla capacità di suscitare passioni, di coagulare interessi e di creare un linguaggio condiviso (non solo un gergo preso a prestito dall’economista o dal sociologo di prestigio del momento).

Perché si produca un partito non occorre né una convocazione in qualche anfiteatro dove a parlare è uno solo, né una sorta di convegnistica tra addetti ai lavori. I partiti nascono e si sostengono sulla pratica della doppia velocità: da una parte sulla mobilitazione sociale; dall’altra sul coinvolgimento di uomini e donne nella società per le competenze e le esperienze che hanno. Soprattutto un partito politico non è il risultato di compromessi tra singole parti che stabiliscono una mediazione per tutelare rendite di posizione consolidate che niente hanno a che vedere con lo sviluppo del paese.
Non che non ci siano partiti di questo tipo nel panorama politico italiano. La Margherita, per esempio, è in gran parte il risultato di una mediazione di questo tipo. Il Partito democratico – che implicherà preliminarmente un processo di disgregazione sia dei Ds che della Margherita – se vorrà camminare dovrà evitare la mediazione tra gruppi dati come gruppi di interesse. In caso contrario il risultato sarà l’ennesima ripetizione della “Cosa” dove il problema essenziale è stabilire e concordare chi mettere dove. E tanti saluti al rinnovamento politico.



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