Tratto
da Il
Secolo XIX
La decisione di Piero Fassino di non entrare al governo
e di dedicarsi alla costruzione del partito democratico
ha un valore politico rilevante. Dare vita a un nuovo
soggetto politico richiederà impegno, decisione
e coraggio, comunque non sarà il risultato di
un’evoluzione naturale e indolore.
Si riapre la discussione che in Italia, almeno dal 1989,
nel panorama della sinistra e del centro sinistra, siamo
tornati a rivivere varie volte: la disputa tra coloro
che dicono che il partito democratico sarà un
progetto ineluttabile e chi sostiene, al contrario,
che non ce n’è bisogno e che la politica
sta bene così com’è e che al massimo
necessita di modifiche di dettaglio. Come sempre questa
disputa riguarda preliminarmente le singole componenti
dei Ds tra riformisti e sinistra interna.
Il partito democratico in costruzione dunque avrà
di fronte preliminarmente un confronto tra le anime
interne dei Ds. Non sarà un confronto accademico,
ma si fisserà su alcuni temi e parole d’ordine
simboliche e strutturali. Quel confronto, per esempio,
riguarderà la propria identità primaria:
ovvero se l’area di riferimento sarà definita
dall’appartenenza alla socialdemocrazia europea,
o meno.
Poi si tratterà di definire la propria cultura
economica, ovvero se ancora si salvaguarderanno gli
assetti del welfare o si lavorerà per una sua
radicale trasformazione. Questa opzione non sarà
un dettaglio. Infatti in mezzo si colloca la questione
della legge Biagi, ovvero di un’idea del mercato
del lavoro che include fare i conti con un segmento
rilevante (se non numericamente certo culturalmente)
dell’attuale coalizione di governo guidata da
Romano Prodi.
Lungo questo percorso altri aspetti indicheranno delle
scelte di fondo: saranno quelli relativi alla questione
della scuola, delle strutture di formazione di eccellenza,
della capacità dispensare un diverso assetto
di politiche regionali tra Nord e Sud. In discussione
all’interno della costruzione del partito democratico
sta dunque il problema del rapporto tra Stato e società,
degli assetti protettivi, delle regole di intervento,
delle politiche di tutela.
La costruzione del partito democratico, tuttavia, non
sarà solo un laboratorio teorico. I partiti non
nascono come prolungamento di una teoria politica. Sono
il risultato di una visione del futuro e delle politiche
generali che discendono da un’idea di sviluppo,
dalle risorse sociali, umane, e culturali per realizzarlo
e dalla capacità di suscitare passioni, di coagulare
interessi e di creare un linguaggio condiviso (non solo
un gergo preso a prestito dall’economista o dal
sociologo di prestigio del momento).
Perché si produca un partito non occorre né
una convocazione in qualche anfiteatro dove a parlare
è uno solo, né una sorta di convegnistica
tra addetti ai lavori. I partiti nascono e si sostengono
sulla pratica della doppia velocità: da una parte
sulla mobilitazione sociale; dall’altra sul coinvolgimento
di uomini e donne nella società per le competenze
e le esperienze che hanno. Soprattutto un partito politico
non è il risultato di compromessi tra singole
parti che stabiliscono una mediazione per tutelare rendite
di posizione consolidate che niente hanno a che vedere
con lo sviluppo del paese.
Non che non ci siano partiti di questo tipo nel panorama
politico italiano. La Margherita, per esempio, è
in gran parte il risultato di una mediazione di questo
tipo. Il Partito democratico – che implicherà
preliminarmente un processo di disgregazione sia dei
Ds che della Margherita – se vorrà camminare
dovrà evitare la mediazione tra gruppi dati come
gruppi di interesse. In caso contrario il risultato
sarà l’ennesima ripetizione della “Cosa”
dove il problema essenziale è stabilire e concordare
chi mettere dove. E tanti saluti al rinnovamento politico.
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