Questo
articolo è apparso sul quotidiano Europa
il 26 aprile 2006
La ripresa di un dibattito sulla ‘questione del
Nord’ è utile: serve a interrogarsi sul
perché nel Nord il centro sinistra è riuscito
meno che altrove a ‘sfondare’ o a ‘scongelare’
il blocco sociale di sostegno al centro destra. Alcune
risposte emerse dal dibattito sono pertinenti ma vanno
approfondite: sarà importante a tal fine la decisione
della Margherita di farne oggetto di analisi specifica
anche in sede di assemblea nazionale.
In premessa è bene mettere in guardia da due
rischi. Anzitutto quello di credere che le criticità
rilevate nella politica del centro sinistra siano esclusive
o peculiari del nord: sarebbe un vizio di ‘particolarismo’
o ‘provincialismo’ ricorrente in questi
discorsi che porterebbe a diagnosi parziali o errate.
Il fatto è che quasi tutte queste criticità
riguardano la politica nazionale del centro sinistra
e in generale della classe dirigente del Paese; comprese
le associazioni di categoria che risultano ‘spiazzate’
rispetto alle istanze di base, anche al di la delle
provocazioni del presidente del Consiglio a Vicenza.
Le sfide della globalizzazione e della modernizzazione
hanno messo in crisi gli assetti produttivi e sociali
dell’intero Paese; e le nostre risposte sono state
finora meno pronte di quelle di altri paesi anche vicini.
Il Nord risente di questi chock esogeni più direttamente
di altre aree italiane perché il suo modello
economico, fortemente individualistico è insieme
più consolidato e più fragile, quindi
sollecitato ad adattarsi più duramente di altri,
persino di certe aree del centro nord già fortemente
terziarizzate (si veda il successo del modello Roma).
Il disagio e la preoccupazione sono più forti
che altrove per la crisi di questo modello, mentre la
ricchezza ancora diffusa delle imprese e dei cittadini
può renderli più esitanti a cambiare,
anche in politica.
La seconda avvertenza è di evitare diagnosi
depressive o catastrofiche; al di là della retorica
elettorale o di parte, non credo alle tesi sul declino
irreversibile né a quelle su un blocco sociale
chiuso in un corporativismo miope, per vocazione evasore
e dedito al protezionismo, che avrebbe la sua roccaforte
al Nord. Né penso che le nostre diagnosi, siano
inconsapevoli delle trasformazioni in corso, della loro
complessità, che mescola nelle medesime aree
e spesso negli stessi gruppi resistenze conservative
con spinte realmente modernizzatrici. Dire, come sento,
che ‘non abbiamo capito niente’ può
essere un facile esorcismo, ma non serve a individuare
le vere criticità.
Oltretutto il centro destra non è esente da
difficoltà sul piano politico e propositivo.
Non solo ha perso le elezioni, nonostante la potenza
di fuoco mediatico e i nostri errori in campagna elettorale;
ma al nord le sue due forze trainanti sono risultate
appannate o perdenti: Fi ha perso il 6% rispetto al
2001, la Lega ha appena mantenuto il suo, ma è
ben lontana dai successi del 1996. Paradossalmente,
come rileva Diamanti, la tenuta del centro destra al
nord dipende da partiti considerati meridionali: An
(+2%) e Udc (praticamente raddoppiata). Molti dei loro
elettori hanno votato più per ‘diffidenza’
verso il centro sinistra che per amore e fiducia nella
compagine di destra.
Con queste premesse resta vero che le criticità
delle nostre politiche esistono, e non sono episodiche
nè solo mediatiche, ma ‘strutturali’
. Una riflessione seria va fatta su almeno tre piani.
Anzitutto su come superare la diffidenza di questo elettorato
e diventare credibili. La diffidenza verso la sinistra
è particolarmente forte nel nord: non solo per
motivi storici e ideologici, come si afferma in modo
semplicistico, ma perché si radica nel vissuto
e nei valori di larga parte dei cittadini del nord,
non solo dei ricchi ma dei piccoli imprenditori, sugli
artigiani e degli stessi operai che ‘fanno il
tifo’ per le imprese e ne condividono spesso gli
obiettivi.
Mi riferisco a esperienze e valori noti: la capacità
imprenditoriale diffusa, e in generale, la voglia di
autoaffermazione (anche molto individualistica), un’etica
del lavoro e dell’impresa di intonazione ‘protestante’,
come dice Tomat, il Presidente degli industriali di
Treviso, una insofferenza agli ostacoli burocratici,
talora anche alle regole tout court e al costo dello
Stato.
Anche chi non teme i ‘comunisti’ avverte
che queste esperienze e valori sono poco apprezzati,
snobbati o addirittura messi in dubbio dalla sinistra.
E quindi diffida. L’onere della prova contraria
spetta a noi. Le dichiarazioni programmatiche sono importanti;
il programma del centro sinistra ne contiene alcune
significative anche se talora tiepide nel sostegno di
questi valori: la Margherita non a caso li ha fatti
oggetto di specifica sottolineatura nei suoi nove punti
prioritari. In ogni caso le dichiarazioni di intento
non bastano. Tanto più che quelle scritte nel
programma sono state contraddette da esternazioni reiterate
della ‘base’ di sinistra fatte apposta per
aggravare la diffidenza (storica): e queste sono relative
sia a materie economiche (si pensi all’insistenza
sull’abrogazione’ della legge Biagi, dei
Cpt, della legge Moratti, in contrasto con le posizioni
sottoscritte dai leader della coalizione), sia a temi
etici come le polemiche sui Pacs e l’offensiva
laicista della Rosa nel pugno che ha allarmato molti
cattolici non solo moderati, ma fortemente sensibili
e impegnati nel sociale. La credibilità del centro
sinistra è dunque comprensibilmente bassa: non
solo negli ambienti moderati e conservatori ma anche
fra quelli aperti al nuovo e moderni.
La prova contraria dovrà essere data dalla pratica
di governo e prima ancora dalla composizione della compagine
ministeriale. Non perché sia decisiva la presenza
di ministri del nord, ma affinché l’equilibrio
della coalizione non avalli la paura di uno spostamento
delle politiche nelle direzioni temute dello statalismo,
dell’ideologia e del laicismo.
Un secondo piano di riflessione riguarda il metodo
e la gestione della politica. Nel nord più che
mai non serve ‘una politica di sorvolo’,
ma di accompagnamento: quindi molto vicina al territorio,
specie nelle elezioni politiche. Il che non si è
verificato a sufficienza nonostante i tentativi della
Margherita. Ciò a causa dei meccanismi alienanti
della legge elettorale aggravata dalla scarsa attenzione
per i candidati presenti nella realtà territoriale
dalla rinuncia a utilizzare le liste civiche. Con la
conseguenza che si è allargato lo iato tendenziale
fra l’attrattività del centro sinistra
nelle elezioni amministrative e la valutazione di scarsa
affidabilità nelle politiche. Per la stessa ragione
è risultato difficile utilizzare a pieno nella
campagna di ‘persuasione’ gli amministratori
locali premiati dagli elettori nelle tornate elettorali
amministrative. Si tratta di debolezze rappresentative
che si sono cumulate fra loro e che richiamano la fragilità
delle strutture e della classe dirigente dei nostri
partiti in queste zone. E’ una fragilità
risalente nel tempo e riconducibile ai motivi sopra
ricordati: cioè alla scarsa adesione degli apparati
tradizionali dei partiti specie della sinistra storica,
con i vissuti e con i valori del popolo del nord e dello
scarso rinnovo degli stessi apparati (nei Ds più
che nella Margherita). La distanza è meno avvertita
nel Mezzogiorno, perché le condizioni di contesto
sono relativamente più omogenee; ma anche qui
i segnali di scollamento hanno cominciato a manifestarsi
con varia gravità (vedi il caso della Campania).
I recuperi su questo fronte non si improvvisano; ma
richiedono che si prenda sul serio l’obiettivo
della struttura federale del Partito: questo è
stato messo in agenda dalla Margherita, non a caso la
più sensibile a questo tema, ma è difficilmente
perseguibile in isolamento o in antitesi rispetto alle
prassi diverse dei Ds.
La formula del partito democratico può essere
decisiva anche sotto questo profilo; a condizione che
faciliti l’innovazione su entrambe le questioni
richiamate: sia il rinnovamento e il potenziamento delle
dirigenze locali del partito, sia il rafforzamento della
loro affidabilità riformista nelle materie cruciali
per il progresso economico e sociale.
E qui viene il terzo livello di riflessione attinente
ai contenuti delle nostre politiche e in generale al
messaggio che esse devono trasmettere.
Anche qui è poco produttivo, e in parte ingiusto,
denunciare l’inadeguatezza delle linee programmatiche
emerse dal faticoso compromesso fra I partiti della
coalizione
Queste contengono non pochi elementi innovativi consoni
alle aspettative dei ceti produttivi e dei cittadini
‘operosi’, a cominciare dalla insistenza
sulla priorità delle politiche di sviluppo e
dell’offerta, e dalle indicazioni in tema di liberalizzazione,
è una vera rottura con la tradizione della sinistra,
non a caso apprezzata dalle imprese e dalle loro associazioni.
Si tratta di vedere come questi elementi si tradurranno
nella pratica di governo; se manterranno una centralità
capace di orientare il senso complessivo dell’azione
politica o se invece verranno annacquate in ulteriori
compromessi di governo. Confermando la diffidenza e
la percezione di un governo ancora legato alle tradizioni
della sinistra e insensibile ai valori espressi dalle
forze vitali del territorio. Il recupero di credibilità
su questi terreni dipenderà dall’orientamento
generale e dai messaggi trasmessi, ma anche dalle applicazioni
effettive delle generali indicazioni programmatiche.
Molti interventi nel dibattito sulla questione nord
hanno sottolineato la necessità di articolare
meglio le politiche, con più pragmatismo e meno
amore per le geometrie ideologiche. Condivido il rilievo,
a condizione che non implichi una territorializzazione
schematica delle politiche, una nuova specialità
per il nord, simmetrica a quella per il sud.
Su questo piano c’è invece da dar seguito
al disegno federale, dopo aver abrogato la riforma costituzionale
del centro destra; occorre correggere gli eccessi e
le confusioni proprie della nostra versione del Titolo
V, recuperare il controllo su alcune politiche strategiche
essenziali e comuni per tutto il paese, disboscare le
duplicazioni di enti istituzioni che rischiano di far
naufragare il federalismo in sommatorie burocratiche,
sprechi tipici di un socialismo municipale; attuare
con coraggio il federalismo fiscale. Sono tutte indicazioni
contenute nel programma e sottolineate specie dalla
Margherita, ma scomparse nella campagna elettorale,
così da apparire poco convincenti anche agli
elettori più simpatetici.
Inoltre se i grandi orientamenti devono essere comuni,
le politiche specifiche vanno declinate con più
aderenza ai bisogni differenziati dei vari gruppi sociali
e ai loro interessi reali, presenti ovunque, ma particolarmente
nel nord.
Questa scarsa articolazione può portare a vere
e proprie crisi di credibilità della nostra azione.
Faccio qualche esempio. Mentre si è insistito
giustamente sulla necessità di combattere la
precarietà del lavoro, specie giovanile, non
si è considerato che la precarietà colpisce
anche le piccole e piccolissime imprese e i govani professionisti,
coinvolgendo in questo operai e ‘padroncini’:
una tipica sindrome fordista. Tale precarietà
va corretta con protezioni adeguate: verso la concorrenza
sleale dell’est, con ammortizzatori adatti e con
una diversa politica del credito.
La stessa nostra proposta di ridurre il cuneo fiscale,
pure importante, va integrata con altre per incontrare
bisogni veri. Essa non interessa alla grande maggioranza
di artigiani, commercianti e anche piccoli professionisti,
che non hanno dipendenti. A questi, come ha ricordato
Giuseppe Bortolussi (articolo su del 13/4/2006), calcoli
alla mano, interessa di più vedere adattata l’Irap,
e più in generale ridotto il costo dei servizi:
dai pedaggi autostradali, al costo del credito, dell’energia,
della giustizia, al costo dell’Iva (con un posticipo
del pagamento all’incasso). Sono gli stessi interessi
che accomunano concretamente imprese e cittadini consumatori;
per soddisfare I quali sarà decisiva la attuazione
di liberalizzazioni mirate.
Analoga articolazione si richiede per la politica fiscale.
Le tasse non sono una ’livella’, ma vanno
finalizzate, come si indica dalla Margherita, con un
fisco a premi, diretto a sostenere comportamenti virtuosi:
non solo la grande ricerca ma l’aggregazione fra
le piccole imprese, per farle accedere a servizi utili,
di commercializzazione, internazionalizzazione, etc.
Così le nostre proposte sulla tassazione delle
rendite finanziarie e sulle successioni, già
difficili da comunicare in qualsiasi campagna elettorale,
hanno avuto un impatto devastante, a causa della mancanza
di una articolazione minimamente credibile; per cui
si sono sentiti colpiti milioni di piccoli risparmiatori:
l’85% di italiani proprietari di case. Un fisco
più intelligente e più credibile ci permetterebbe,
se accompagnato da verifiche sulle sue ricadute pratiche,
di essere più credibili nella difficile opera
di rieducazione necessaria anche in materia fiscale,
per combattere l’evasione.
Risposte credibili agli interessi di produttori e cittadini
richiedono infine non solo e non tanto grandi riforme
legislative ma azioni pazienti di riorganizzazione,
semplificazione ed efficienza operativa, costruzione
del consenso pratico (si pensi alle necessarie opere
di infrastrutturazioni). Il che è spesso trascurato
per un altro tipico pregiudizio della nostra politica.
Lo ha ricordato su Europa Luca Romano, osservando come
solo una deformazione ideologica (che lui imputa alla
sinistra) può spiegare l’eccitazione diffusa
per il Caimano o per la satira anti Berlusconi, e lo
scarso interesse e nessuna ‘cosa di sinistra’
detta a proposito della innovazione nella sanità,
sul funzionamento della Pubblica Amministrazione, della
giustizia e della scuola, sull’importanza della
valutazione e dei meriti per la concreta operatività
delle organizzazioni private e pubbliche. Questi temi
sono tanto ignorati e persino assenti nel linguaggio
di molti nostri politici, quanto significativi per chi
rappresentano.
Questo riformismo pratico è un ingrediente fondamentale
per rendere credibili le nostre azioni ai ceti produttivi
e ai cittadini operosi; per far crescere fra questi
il consenso e l’educazione alle grandi riforme.
Può servire a intercettare interessi reali senza
essere di destra, e dimostrare che lo stato non è
un costo insopportabile che si deve evitare: una sindrome
diffusa al nord (ma anche al sud). A questo riformismo
la Margherita è particolarmente sensibile ed
è attrezzata per diffonderlo nella pratica comune
del futuro partito democratico.
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