Questo
articolo è tratto dalla rivista Reset
Democrazia e Medio Oriente. Un rapporto difficile.
Due consultazioni politiche confermano la ‘problematicità’
di questo rapporto nell’attuale congiuntura storica:
in Egitto, i Fratelli Musulmani si sono confermati come
la forza politica di opposizione più rilevante;
nei Territori palestinesi, Hamas, il movimento integralista
islamico palestinese, ha conquistato la maggioranza
assoluta dei voti e dei seggi del Consiglio legislativo,
spazzando via l’influenza politica di Al Fatah,
il movimento che era di Yasser Arafat. Perché
appena i cittadini del Medio Oriente votano, sono i
partiti e i movimenti islamisti a conquistare la maggioranza?
Come possiamo aiutare il dialogo interculturale, così
indispensabile, come possiamo favorire istituzioni pluraliste
nella regione? Reset, in collaborazione con RadioRadicale,
ha affrontato questi temi partendo dal paese arabo chiave,
l’Egitto, con due interlocutori importanti, Emma
Bonino e Sergio Romano.
Reset: Affrontiamo subito il problema
di fondo: è possibile «domare» il
radicalismo islamista? L’Egitto è il paese
chiave del Medio Oriente. I Fratelli Musulmani hanno
vinto le recenti elezioni. Iniziamo da qui.
Emma Bonino: La mia lettura è
precisa: in Egitto, con grande fatica, si stava cercando
di costruire organizzazioni politiche filo-occidentali
o comunque più laiche e più moderne (penso
in particolare al partito Wafd). Quel tentativo è
stato soffocato sul nascere. Il Wafd ha impiegato molti
mesi per farsi legalizzare e c’è riuscito
solo dopo aver vinto in sede penale, e a quel punto
il suo leader è stato immediatamente incarcerato
con la motivazione di aver falsificato duemila firme.
Nel partito al potere di Hosni Mubarak si era creata
una tendenza innovatrice, più giovane, un po’
tecnocrate, che faceva perno sul figlio di Mubarak.
Queste due forze, il Wafd e la nuova guardia del Partito
nazionaldemocratico, non sono state messe in condizione
di fare una campagna elettorale: il Wafd è stato
infiltrato, il suo leader è stato in carcere
per molto tempo, e poi messo in libertà provvisoria,
però sempre sotto accusa e quindi nell’impossibilità
totale di organizzare alcunché. La nuova guardia
del partito di Mubarak è stata mandata letteralmente
allo sbaraglio. Sono state usate tutte le tecniche possibili
e immaginabili per non dare chance a nessuno: come sapete
si è votato in tre settimane diverse. Per Il
Cairo, dove si votava il 9 novembre, i candidati di
tutti i partiti sono stati ufficializzati il 29 ottobre.
Morale: solo coloro che avevano reti legate al potere
o coloro che avevano reti tradizionalmente collegate
ai Fratelli Musulmani avevano qualche chance di riuscire.
Questo meccanismo ha di fatto costretto molti amici
che io conosco personalmente a non tentare neppure la
candidatura. Il risultato di tutto questo è stato
ovvio: è andato a votare il 20 per cento della
popolazione e di questo 20 per cento, il 4 per cento
è andato ai Fratelli Musulmani. I quali, peraltro,
godono di uno status politico per lo meno bizzarro:
dopo gli attentati di Luxor, sono illegali come organizzazione
politica però gli esponenti del movimento possono
essere candidati formalmente indipendenti. Già
nella scorsa legislatura, in una situazione nella quale
erano totalmente banditi, erano riusciti ad avere 17
rappresentanti eletti come indipendenti. Tutta questa
vicenda, quindi, va letta in modo un po’ più
approfondito; oltretutto le elezioni si sono svolte
con brogli, le liste elettorali non sono state aggiornate,
e, tanto per fare un ultimo esempio, in uno dei distretti
del Cairo risultavano iscritti alle liste elettorali
20.000 persone con residenza nello stesso appartamento
oppure, poiché la legge prevedeva che si poteva
dare come recapito il posto di lavoro, ce ne erano altre
migliaia che risultavano lavorare al Ministero del Sudan
che, come è noto, è stato abolito.
Reset: I Liberali egiziani, al di
là di queste manovre, avevano davvero qualche
chance?
Emma Bonino: Ce l’avevano e
non a caso sono stati messi in condizione di non fare
campagna elettorale. In primo luogo, piaccia o non piaccia,
in Egitto esiste una borghesia professionale, anche
se piccola e legata al potere. In secondo luogo, è
bene sempre ricordare che l’80 per cento non è
andato a votare. Il fatto è che il regime voleva,
a mio parere, dimostrare la solita tesi: senza di me,
ha voluto dire, l’unica alternativa è quella
dei Fratelli Musulmani: o me o il caos, o me o gli islamisti.
Io invece vedo per l’Egitto un altro tipo di potenzialità.
Reset: Quale è la sua opinione,
ambasciatore?
Sergio Romano: Non c’è
dubbio che le elezioni egiziane siano state manipolate:
ad esempio, i deputati dell’assemblea del popolo
sono 444, ai Fratelli Musulmani è stato permesso
di presentare le proprie candidature in 140-150 seggi
e quando poi si è capito che il risultato al
secondo turno sarebbe stato loro molto favorevole, le
forze di polizia sono intervenute per impedire che il
successo superasse gli 86 seggi. Quindi il tasso di
manipolazioni è stato fortissimo. Do quindi una
lettura diversa rispetto a quella di Emma Bonino: non
dobbiamo dimenticare che l’Egitto è sempre
stato, insieme alla Turchia, il termometro di quella
regione, o se si preferisce, il laboratorio delle innovazioni.
Non per nulla in Egitto è nato il nasserismo,
ovvero il movimento che è stato per molto tempo
il punto di riferimento del socialismo nazionale del
mondo arabo musulmano dopo la decolonizzazione. Nasser
è sempre stato il grande modello per il cambiamento
della regione. L’Egitto fu il luogo in cui questo
avveniva. Quindi, se ora noi vediamo emergere proprio
in Egitto una forza politica nuova dobbiamo chiederci
se per caso il laboratorio non stia producendo novità
diverse da quelle che avevamo immaginato e diverse da
quelle che i liberaldemocratici europei desidererebbero.
In Egitto c’è una nuova forza politica
– manipolazione o non manipolazione – e
i Fratelli Musulmani rappresentano un fenomeno molto
diverso da quello che c’eravamo aspettati. Un
fenomeno che probabilmente abbiamo sottovalutato. Hanno
conquistato le moschee; hanno creato attorno luoghi
di incontro e luoghi di assistenza sociale; hanno conquistato
i sindacati di mestiere e le cooperazioni professionali.
È forse paradossale ma è pur sempre fortemente
indicativo il fatto che il grande sindacato dei medici
abbia alla sua testa proprio i Fratelli Musulmani e
che costoro siano riusciti a conquistare queste organizzazioni
dall’interno attraverso il voto.
Anche se c’è stato un momento in cui hanno
avuto una presenza violenta nella società, in
questa particolare fase, la Fratellanza ha ripudiato
la violenza. Se vediamo apparire questa forza politica
nell’Egitto, vecchio laboratorio di cambiamenti
per il mondo arabo musulmano, allora dovremo pur chiederci
se tutto questo non faccia parte di un movimento che
va capito, che va indirizzato e che va anche accettato.
Da questo punto di vista il ruolo della Fratellanza
Musulmana andrebbe attentamente seguito anche, e soprattutto,
per l’influenza che avrà in altri paesi
arabi. Non dimentichiamo che i Fratelli Musulmani sono
stati al potere in Giordania, che hanno un rapporto
molto stretto con Hamas e che sono dopo tutto il punto
di riferimento anche di intellettuali della diaspora
come Tariq Ramadan in Svizzera. Insomma, siamo di fronte
a un fenomeno importante. Temo che Emma Bonino stia
misurando questo fenomeno con gli schemi classici dell’intellighenzia
liberaldemocratica europea. Purtroppo le cose non vanno
sempre come vorremmo.
Emma Bonino: Voglio sottolineare tre
cose. La prima: io concordo che l’Egitto sia un
laboratorio e quindi quello che succede è molto
importante per i riflessi che può avere nella
regione. La seconda: certamente i Fratelli Musulmani
sono saliti dal basso. Ritengo però anche che
l’Egitto poteva essere un laboratorio altro e
diverso e che non lo è stato per una repressione
sistematica (molto dura specie negli ultimi mesi e in
particolare dopo l’elezione presidenziale) da
parte del regime nei confronti di qualunque forza «liberale»
o «riformatrice». Credo che si sia voluta
imporre o comunque «favorire» una schematizzazione
tra la vecchia guardia del regime e i Fratelli Musulmani:
penso che questo schema non sia rappresentativo della
realtà egiziana, tant’è che l’80
per cento degli egiziani non è andato a votare.
Questa schematizzazione rappresenta una scelta ben precisa
compiuta da Mubarak perché per il regime è
più facile avere a che fare coi Fratelli Musulmani
piuttosto che lasciare fiorire una forza innovatrice,
perfino se questa forza innovatrice si manifesta all’interno
dello stesso Partito nazionaldemocratico del presidente.
Reset: L’impressione è
che sia in corso un tentativo di «metabolizzazione»
dei Fratelli Musulmani.
Sergio Romano: Una precisazione: dobbiamo
ricordare che il numero degli elettori non è
la totalità di quelli che hanno raggiunto l’età
elettorale. In Egitto vige una regola della registrazione
al voto che ha notevolmente contenuto le dimensioni
del corpo elettorale, quindi quando si dice che vota
una percentuale modesta di un corpo elettorale modesto
bisogna stare attenti, perché il corpo elettorale
è volutamente modesto. Se poi vogliamo andare
avanti con l’analisi, dobbiamo arrivare a un tema
fondamentale che non è stato ancora menzionato:
la corruzione macroscopica che pervade l’Egitto.
Emma Bonino: Quasi endemica.
Sergio Romano: Certamente. In Egitto
non si fa nulla che non sia ricompensato, magari in
modo modesto. Questa corruzione macroscopica è
un fenomeno spaventosamente inquinante: i Fratelli Musulmani
sono emersi come una forza dell’onestà.
Io stesso, in Egitto, ho sentito gente, ho parlato con
persone, ho discusso con donne di grande intelligenza
e di grande autonomia che mi hanno detto: «Io
mi metto il velo se questo può servire a mettere
un freno a questa enorme corruzione».
Reset: Anche in Palestina, l’«issue
corruzione» è stata decisiva per la vittoria
di Hamas.
Sergio Romano: Certamente, ma l’Egitto
è, se possibile, un caso ancora più grave.
È un paese di 70 milioni di abitanti, ha bene
o male commercio e industrie: detto in altre parole,
è un aereo in pista e potrebbe anche decollare
in determinate circostanze e con determinate condizioni.
La corruzione è la spaventosa zavorra che lo
tiene bloccato alla pista, e questo è sostanzialmente
il grande fattore del successo dei Fratelli Musulmani
e del resto è stato anche il grande fattore di
successo di Hamas in Palestina. Secondo me, tutto questo
non viene totalmente compreso da chi si ostina a pensare
che gli egiziani avrebbero dovuto percorrere una strada
liberaldemocratica all’europea. Assumere un atteggiamento
pregiudizialmente negativo nei confronti dei Fratelli
Musulmani significa infilarsi in un labirinto da cui
è difficile uscire: tra parentesi, questo, secondo
me, è il caso degli Stati Uniti i quali si ostinano
a non capire ciò che è Hamas.
Reset: I Fratelli Musulmani sono una
forza che potrebbe essere diciamo così «potabile»
dal punto di vista democratico o no?
Emma Bonino: C’è una
spinta in questo senso da parte di alcuni esponenti
dei Fratelli e da parte di numerosi intellettuali. Costoro
sostengono la tesi di una democrazia cristiana-musulmana.
Per questo motivo c’è grande interesse
circa l’esempio turco del partito di Erdogan o
del partito islamista marocchino di opposizione, che
da quando è stato legalizzato sta giocando le
carte del gioco democratico. Io ho sempre visto un grande
interesse a capire la Democrazia Cristiana italiana
e la Cdu tedesca. Nella leadership della Fratellanza
ci sono esponenti estremisti, ma ci sono altri esponenti,
ad esempio Hassan Alban, che si interessano al modello
Dc. Credo che queste voci andrebbero ascoltate, garantendo
spazi legittimi di azione politica. Oltretutto, ciò
forse può produrre una spaccatura al loro interno,
che può essere però sana. Invece qui rischiamo
di avere 80 fratelli musulmani eletti con una organizzazione
politica non riconosciuta e quindi senza regole effettive.
Darsi delle regole sarebbe importante per i Fratelli
Musulmani e implicherebbe un importante processo analogo
anche per il Partito nazionaldemocratico di Mubarak.
Reset: Ricordiamo che in Turchia c’è
un partito, quello di Erdogan, che in qualche modo cerca
di giocare una partita da Democrazia Cristiana del mondo
musulmano. Ricordiamo anche che c’è una
differenza importante tra l’Egitto e la Turchia,
perché quest’ultima è stata modernizzata
dalle riforme di Ataturk che in Egitto non sono mai
avvenute. Ma ritorniamo alla questione corruzione, che
ci sembra essenziale per capire il successo degli integralisti
in Egitto e in Palestina.
Sergio Romano: Sì, infatti,
quasi contemporaneamente alle elezioni in Egitto ci
sono state le elezioni in Palestina e anche qui ha vinto
Hamas: il tema della lotta alla corruzione è
stato centrale più della shari’a o
delle questioni di carattere direttamente confessionale.
A questo punto la comunità internazionale, in
particolare le democrazie occidentali, hanno un bel
problema che non è di medio periodo, ma immediato:
che fare con Hamas?
Emma Bonino: Hamas, secondo me, è
sempre stato più nazionalista che fondamentalista
ed ora ha vinto le elezioni su una piattaforma di «riforme»
piuttosto che di «vendetta»; ha vinto anche
per il discredito totale di Al Fatah e di una autorità
palestinese molto legata alla corruzione. Oltretutto,
diversamente dall’Egitto, le elezioni in Palestina
sono state molto meno violente, manipolate o truccate.
Penso che Hamas sia riconosciuto se è stato eletto,
ma il problema è decidere quale dovrà
essere il nostro atteggiamento al riguardo. I primi
passi dell’Europa – sostegno economico senza
richieste e senza contropartite – mi sembrano
nella direzione sbagliata: io penso che sarebbe importante
dire che l’Europa non intende comportarsi con
Hamas come si era comportata con Arafat e Al Fatah.
Temo che l’Europa sia – come dire? –
sotto il «ricatto» che alcuni di Hamas hanno
fatto trapelare sulla stampa andando a Bruxelles: o
ci finanzia l’Europa o andremo a battere cassa
a Teheran. Io credo che non è né saggio
né prudente accettare questo ricatto. Penso che
sia assolutamente possibile un’azione di spiegazione
pubblica ai cittadini e ai palestinesi e non solo nel
chiuso della delegazione di Hamas che stava a Bruxelles.
Purtroppo credo che l’Europa invece continuerà
con il sostegno a pioggia.
Sergio Romano: È giusto fare
un parallelo tra la Fratellanza Musulmana e Hamas, fra
il ruolo dei Fratelli Musulmani in Egitto e quello di
Hamas in Palestina. I Fratelli Musulmani sono ritornati
alla superficie nel momento in cui Sadat li utilizzò
contro i socialisti nasseriani. Hamas, da parte sua,
è nato nel 1987 quando gli israeliani incoraggiarono
un movimento che ritenevano potesse essere utile per
meglio combattere Arafat con il risultato che poi sappiamo.
Perché Hamas ha avuto questo successo? Prima
di tutto c’è, lo abbiamo già ricordato,
la grande corruzione del sistema di Al Fatah (e qui
siamo su un piano simile a quello egiziano); poi c’è,
e non lo possiamo dimenticare, il fatto che l’operazione
politica del presidente dell’ANP è fallita.
Il presidente palestinese non ha avuto nulla da portare
di fronte ai cittadini palestinesi al momento delle
elezioni; gli israeliani non gli hanno permesso di vantarsi
di nulla e anzi hanno perseguito una politica unilaterale
che mirava apparentemente alla creazione di uno Stato
palestinese, ma che in realtà si proponeva la
creazione di una casa disgiunta in cui collocare 5 milioni
di palestinesi: al cui proprietario, però, non
sarebbe mai stata concessa la chiave della porta di
casa. Questo era il grande disegno di Sharon ed è
abbastanza paradossale che suo il disegno sia stato
considerato positivo in Occidente. Sharon aveva semplicemente
un problema demografico di 5 milioni di israeliani contro
4-5 milioni di palestinesi. Possono tenerseli a casa?
Possono perpetuare una situazione in cui 4 milioni di
palestinesi rappresentano una responsabilità
diretta del governo di Gerusalemme? No, non è
immaginabile ed allora l’ipotesi era quella di
creare una casa per i palestinesi in cui sistemarli.
Ma questa casa non ha un cielo, perché lo spazio
aereo non lo possono controllare, non ha un mare perché
lo spazio marittimo non è loro, non ha frontiere
loro perché sono controllate dagli israeliani;
persino la Cisgiordania presenta caratteristiche di
Stato condominiale nel senso che vi saranno pur sempre
dei grandi raggruppamenti di colonie israeliane. In
questa situazione la strategia del presidente palestinese
è fallita perché, come dicevo, non portava
assolutamente a nulla. Sul fallimento della strategia
del presidente è nato il voto per Hamas.
Reset: Abbiamo cominciato parlando
di Egitto, finiamo parlando di Israele e Palestina.
Il nesso ovviamente c’è ma la domanda è
questa: è possibile che l’evoluzione che
auspichiamo in direzione di una modernizzazione dei
paesi musulmani arabi possa avvenire addestrandosi a
convivere con l’irrisolta questione di Israele
e Palestina?
Emma Bonino: Il conflitto fra Israele
e Palestina è un problema grave, ma non può
essere usato come alibi per tutto quello che succede
in quella regione. Devo dire che questa è una
sensazione anche di molti paesi, i paesi del Golfo,
il Marocco o la Tunisia, i quali in sedi ormai ufficiali
cominciano a dire che la crisi fra Israele e Palestina
non è e non può essere un alibi per quello
che succede nella regione. Voglio solo dire all’ambasciatore
Romano che io non sono affatto convinta che il problema
sia tutto dalla parte di Israele.
Sergio Romano: Io credo che non ci
sia soltanto la questione palestinese: c’è
uno stato di disagio del mondo arabo musulmano dovuto
a molte altre ragioni. Per esempio dovuto alle grandi
modernizzazioni fallite degli anni Settanta e Ottanta.
Noi dobbiamo lavorare perché si crei una democrazia
islamica senza far dipendere tutto questo dalla soluzione
del problema palestinese, anche se credo che esso fornisca
per così dire munizioni alla santa barbara del
nazionalismo islamico frustrato che potrà far
leva sulla politica israeliana per poter giustificare
cose che non dovrebbero essere giustificate. Mi consenta
una ultimissima osservazione: noi dobbiamo lavorare
per la democrazia musulmana, ma senza pensare che essa
debba essere necessariamente quella che è attecchita
da noi. La nostra democrazia è il risultato di
un processo storico dalle libere città del medioevo
fino alla nascita del concetto di cittadinanza con la
Rivoluzione francese. In Medio Oriente non possono importare
un modello preconfezionato senza avere percorso quelle
tappe o avendone percorse altre. Ricordo solo che le
elezioni irachene sono state sostanzialmente un censimento
perché nessuno ha votato come cittadino ma come
membro di una comunità. Qualche cosa del genere
accade in quasi tutte le società musulmane mediorientali
dove il concetto di famiglia allargata o di clan o addirittura
di tribù è ancora un pilastro fondamentale.
(a cura di Claudio Landi)
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