L’estenuante
battaglia a colpi di parole messa in atto sugli schermi
televisivi in questa campagna elettorale – da
parte di alcuni, una vera e propria scimmiottatura della
guerra civile – è la spia di un uso anomalo
e preordinato dell’informazione pubblica e privata,
voluto da chi negli ultimi anni ha diretto politicamente
il paese. Non a caso il generale Carlo Jean, parlando
nel 1991 ai dirigenti di Mediaset, ricordava che nel
mondo della comunicazione di massa il controllo della
televisione ha acquistato “da un punto di vista
politico-strategico” un’importanza analoga
alla “forza militare”. Giovanni Sartori,
in una recente raccolta di saggi (Mala Costituzione
e altri malanni, Laterza, Bari 2006), alludendo al caso
italiano ha usato esplicitamente il termine “dispotismo”.
Lo stato che ha in mente l’attuale maggioranza,
ha scritto il politologo fiorentino, è “il
frutto di un dispotismo elettivo pilotato dalla dittatura
del premier”. Dodici anni fa, dalle colonne della
“Stampa”, anche Norberto Bobbio aveva avvertito
che la “tendenza all’unificazione del potere
politico col potere economico e col potere culturale
attraverso il potentissimo strumento della televisione
[…] ha un nome ben noto nella teoria politica.
Si chiama, come la chiamava Montesquieu, dispotismo”.
Questo è il dato di fatto ignorato dai più
e su cui occorre riflettere. Il regime dispotico evoca
antichi scenari, ma anche fenomeni legati alla modernità.
Lo si può definire come una forma di governo
caratterizzata dall’assolutezza del comando e
da un esercizio del potere nell’esclusivo interesse
di chi lo detiene. Dominio “senza legge e senza
regola”, il dispotismo è concepito da Montesquieu
come la perdita del punto di equilibrio sia delle monarchie
sia delle repubbliche, e dunque come una possibile forma
di corruzione di ogni governo legittimo. Chi detiene
il potere dispotico sommuove e riplasma la stessa società
civile. Un regime fondato sull’obbedienza dei
sudditi esige infatti individui incolti, vaghe leggi,
funzionari governativi con vasti poteri discrezionali,
giudici asserviti all’esecutivo e un notevole
rafforzamento del potere ecclesiastico, perché
la religione, in un contesto siffatto, “è
una paura aggiunta alla paura”. In altri termini:
il dispotismo sta alla democrazia come il “governo
degli uomini” sta al “governo delle leggi”.
Alla vigilia della Rivoluzione francese, la riflessione
sul regime dispotico registra una novità sostanziale.
Il comando di un uomo solo, avverte Condorcet, “è
soltanto un’astrazione”. In tutti i paesi
in cui ha prevalso un despota si è sempre avuta
“una classe di uomini o di più corpi che
hanno diviso con lui il potere”. L’ultimo
dei philosophes ha intuito che la società moderna
è un organismo complesso e ramificato, ma che
può essere governata dispoticamente sia in forma
“diretta” che “indiretta”, perché
tanto le forze tradizionali (come l’aristocrazia,
il clero e l’esercito) quanto i gruppi interessati
ad un’economia di mercato (come gli industriali,
i banchieri e gli uomini della finanza) esigono un esecutivo
forte e tendono comunque a condizionare pesantemente
quello esistente.
Un ulteriore elemento va sottolineato: la nascita in
epoca contemporanea della “mentalità totalitaria”,
intesa come mobilitazione delle energie e delle coscienze
per fini di potere. Essa non solo ha preceduto –
come ha ricordato a suo tempo Hannah Arendt –
l’avvento dei “regimi totalitari”.
E’ anche sopravvissuta alla loro disfatta, favorendo
all’interno di alcune democrazie la tendenza a
concentrare e a confondere i poteri pubblici con quelli
privati. Perché la mentalità totalitaria
e le forme dispotiche di potere hanno continuato ad
aver fortuna? Si deve ad Albert Hirschman, alcuni anni
fa, l’introduzione di alcune categorie che l’autore
ha definito “retoriche dell’intransigenza”,
messe a punto, inizialmente, dal pensiero conservatore
e reazionario contro i grandi eventi della modernità
(la rivoluzione francese, il suffragio universale, la
politica del welfare state) e riproposte poi dal filone
più radicale della sinistra e della destra del
Novecento. Uno degli aspetti più interessanti
dell’analisi è che queste retoriche si
sono manifestate non solo all’interno dei regimi
autoritari, ma anche in quei paesi democratici usciti
da una guerra che ha visto su fronti avversi anche la
popolazione interna. In questi paesi, la politica ha
continuato ad essere concepita, anche a decenni di distanza,
come la “pura continuazione della guerra civile
con altri mezzi”, e dunque secondo la logica amico/nemico.
I valori della democrazia (come la libertà, l’eguaglianza,
la tolleranza, il dialogo), formalmente restaurati,
sono stati vissuti in chiave prevalentemente tattica,
come risultato di un compromesso provvisorio tra gruppi
sociali e politici che si sono ferocemente combattuti
in passato e che hanno continuato a considerarsi, a
dispetto del nuovo regime costituzionale, inesorabilmente
contrapposti.
Le riflessioni di Hirschman aiutano a capire, in particolare,
quanto è successo in Italia, ossia in un paese
fortemente scosso prima dal “biennio rosso”
e dal colpo di stato del 1922, poi dalla guerra civile
del 1943-45 e dalle lotte sociali degli anni sessanta
e settanta. Dopo l’implosione del mondo comunista
e la scomparsa traumatica negli anni novanta della Democrazia
cristiana e del Partito socialista, le contrapposizioni
frontali e le retoriche dell’intransigenza sono
state esibite perlopiù dalla destra. Ma secondo
un copione che, dietro i furori ideologici, ha tentato
di nascondere all’opinione pubblica ben altri
conflitti. Nati sul terreno degli interessi. I poteri
coinvolti in questo processo di trasformazione, che
ha assunto da tempo inedite forme dispotiche, sono quattro:
l’esecutivo, il legislativo, il giudiziario e
il sistema mediatico. Tre di questi poteri, ossia l’esecutivo,
il legislativo e il sistema dell’informazione
televisiva hanno fatto spesso blocco attorno alla figura
del primo ministro, simbolizzato recentemente nel corpo
vorace del caimano; mentre un clima culturale intollerante
e aggressivo avvelena da tempo i rapporti con la magistratura
e tenta di condizionare, attraverso lo schermo, gli
orientamenti dell’opinione pubblica. Cito alcuni
esempi, tre dei quali dimostrano come il governo degli
uomini possa essere progressivamente restaurato anche
attraverso il governo delle leggi.
1) I provvedimenti che hanno favorito “il più
forte di tutti”: la depenalizzazione del falso
in bilancio; la legge sulle rogatorie internazionali;
la sospensione dei processi in corso per le massime
autorità dello stato; la riduzione dei tempi
di prescrizione per i reati degli imputati eccellenti.
Si è parlato, per questi atti legislativi, di
leggi ad personam. Ma, dal momento che il capo del governo
li ha concepiti sibi et suis, perché non chiamarli
leggi ad dominum?
2) La riforma della seconda parte della Costituzione,
approvata a maggioranza semplice e sottoposta ora a
referendum popolare. Essa ha introdotto una trasformazione
radicale delle funzioni attribuite dai costituenti del
1948 al Presidente della Repubblica e alle due Camere,
a tutto vantaggio del capo del governo, nuovo “garante”
degli equilibri istituzionali dello stato.
3) Il “riordino” della magistratura. Mentre
lascia irrisolti i problemi di efficienza e di funzionalità
della giustizia, ripristina pesantemente il controllo
degli organi inquirenti sia da parte della gerarchia
interna sia da parte dell’esecutivo.
4) L’irrisione e il disprezzo per gli avversari
politici e per gli organi istituzionali che dissentono
dall’attività del governo. I giudizi sarcastici
e caricaturali formulati sistematicamente dal premier
non sono forse l’espressione di una logica fondata
sull’antitesi amico/nemico, in auge nei regimi
autoritari ?
5) Gli scenari improbabili evocati da un gruppo di
“atei devoti” e da altri analisti che praticano
un uso politico della storia. Da una parte i teo-con
italiani, sintonizzati culturalmente e politicamente
con la destra americana, diffondono la morale manichea
del Bene (di produzione propria) e del Male (di produzione
altrui). Dall’altra la vulgata revisionista, di
area governativa, rivede capziosamente il passato e
interpreta il presente attraverso approssimative nozioni
di liberalismo, comunismo e fascismo, suggerite dalle
necessità ideologiche dell’oggi.
Le tendenze culturali dominanti, all’interno delle
democrazie, possono essere efficacemente contrastate
con solide argomentazioni critiche. Non così
gli assetti del potere, e i costumi che li accompagnano.
In caso di vittoria elettorale, le forze dell’Ulivo
non devono illudersi. Se non ripristineranno con convinzione
e con l’autorità della legge le regole
dello stato di diritto, i lupi perderanno forse il pelo,
ma non rinunceranno certamente a praticare il vizio.
E anche se fossero lupi di un altro branco, il quadro
d’insieme, sostanzialmente invariato, risulterebbe
altrettanto inquietante. Non aveva forse scritto Cicerone,
sollevando un problema tacitato per secoli, che essere
liberi “non consiste nel vivere sotto un padrone
giusto, ma nel non averne alcuno”?
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