Guido
Rossi
Il gioco delle regole
Adelphi, p.118 , euro 13,50
Invocare, in un paese arretrato come il nostro (un
po’ ovunque: dal capitalismo al terziario), l’abolizione
del patto di sindacato nelle società quotate,
qualificando per di più tale suggerimento con
l’aggettivo “leninista”, è
cosa che può riuscire solo a un uomo della caratura
intellettuale e del profilo civile di Guido Rossi, già
senatore della Sinistra indipendente, già presidente
Consob e Telecom, padre delle nostre normative antitrust
e uno dei più importanti avvocati italiani. Ma
anche un intellettuale raffinato e un filosofo del diritto
che alla ricerca e alla sperimentazione culturale ha
dedicato una parte significativa delle proprie energie
e della propria intelligenza. Soprattutto, un personaggio
capace come pochi di sconvolgere le acque spesso stagnanti
di certo paludoso dibattito italico con analisi e proposte
che ci indirizzerebbero verso l’approdo di una
nazione civile.
Il suo “rasoio di Occam” si applica nel
nuovo libro uscito di recente, Il gioco delle regole,
al capitalismo odierno – quello neoliberista che
domina e indirizza i grandi flussi finanziari dell’età
globale, ma anche quello “all’amatriciana”
degli immobiliaristi di casa nostra; un capitalismo
insofferente e rabbioso nei confronti delle norme, che
alle “regole del gioco” preferisce il “gioco
delle regole”, per l’appunto, del quale
si pone come deus ex machina. Insomma, siamo
di fronte all’ultima e infausta frontiera di quell’epidemico
conflitto di interessi che costituisce il vero Moloch
pernicioso delle società tardo-capitalistiche,
cui il prof. Rossi aveva sconsolatamente dedicato un
bel saggio precedente, uscito sempre per i tipi di Adelphi
(intitolato, giustappunto, Il conflitto epidemico).
La sua divertita rievocazione di misure bolsceviche
per superare uno dei più illiberali strumenti
di potere diffusi nell’economia italiana fa risaltare
ancor più la necessità di norme giuridiche
innovative per governare il mercato e la globalizzazione,
in grado di rendere il primo davvero “liberale”,
anziché quel totem intoccabile omaggiato a ogni
pie’ sospinto dai sedicenti liberisti della penisola.
Non i codici etici, non la morale (che pertiene alla
sfera valoriale soggettiva e del singolo), dunque, ma
il diritto per salvare il capitalismo da se stesso e
dargli un “volto umano”. Appare interessante
come l’autore rimarchi più volte il fatto
che il ricorso – puramente nominale, come ovvio
– all’etica stia diventando sempre più
convulso, mentre le leggi, altrettanto evidentemente,
vanno in una direzione opposta a quella dei principi
morali utilizzati come foglia di fico. L’avversario
da contrastare risponde al nome di “contrattualismo”,
un termine che per Rossi, facendo sobbalzare dalla sedia
più di un benpensante della teoria giuridica,
designa la tendenza attuale del capitalismo a contrattare
tutto senza l’“intromissione” del
legislatore o del potere giudiziario; nell’era
della mondializzazione, insomma, non si trova più
alcun giudice a Berlino… La libertà contrattuale,
difatti, spesso altro non è che la libertà
del più forte che tanto piaceva a Friedrich von
Hayek, il dominus della Mont Pelerin Society
e l’indiscusso padre intellettuale della ventata
neoliberista e della controrivoluzione conservatrice.
Uno di coloro che ha determinato il mainstream e lo
Zeitgeist dai tardi anni settanta in avanti,
un profeta autenticamente ante litteram
di quella globalizzazione non regolamentata e priva
di regole che ci ricaccia in uno stato di natura hobbesiano
(la quale, per molti versi, costituisce la condizione
dominante delle relazioni internazionali).
Ora, anche Guido Rossi è un liberale che ha
scelto per sé, però, la declinazione progressista;
un liberal se fosse nato negli Stati Uniti, come ha
detto nel corso di un’intervista al Corriere
della sera. Dunque, rigettando le tesi di Ronald
Dworkin, il professore milanese ci dimostra che il diritto
non costituisce un regno di astratti tecnicismi, bensì
il luogo (della teoria e, successivamente, della prassi)
in cui prendono forma le visioni relative a come deve
funzionare una società. Per farlo intendere al
meglio si avvale, come si usa da qualche tempo a questa
parte nelle università americane (dove ha trascorso
periodi di insegnamento), di molta letteratura (lo Shakespeare
de Il mercante di Venezia, il Melville di Billy
Budd, il Dostoevskij de I fratelli Karamazov,
il Carroll di Alice nel paese delle meraviglie),
soprattutto nel capitolo finale del volume, quello che
prova a immaginare un abbozzo – riuscito –
di Ricomposizione delle regole. Metodologie
anglosassoni e cultura classica, quindi, perché
Rossi si rivela sempre animato da una visione, per così
dire, olistica, nutrita di una vastissima cultura personale
e di una idea di umanesimo che, nell’amore per
la brillantezza e nella chiara predisposizione alla
provocazione intelligente (“scandalizzare i benpensanti”
in Italia dovrebbe essere un dovere morale…),
diviene quasi iconoclastia.
Ex captivitate salus, almeno in un certo senso, si
potrebbe dire rubando il celebre detto a Carl Schmitt,
il giurista che volle farsi ideologo del regime nazionalsocialista,
la distopia negativa realizzata dei desideri di quei
tre assassini delle squadracce paramilitari di estrema
destra che nel 1922 uccisero il grande Walter Rathenau,
quella sorta di Leonardo della prima parte del XX secolo
cui vanno la manifesta simpatia e l’ammirazione
del prof. Rossi. Paradossalmente, infatti, proprio da
una prigionia (quella di Guantanamo piuttosto che quella
di Abu Ghraib) e dalla strage della legalità
innescata da certe norme antiterrorismo promulgate in
fretta e furia dall’amministrazione Bush e, a
cascata, dai governi di gran parte dell’Occidente,
può venire una, sia pur parziale, reazione all’ordine
dominante delle cose.
Inadeguato Dworkin, Rossi scommette su John Rawls per
l’attenzione agli human rights, la vera chiave
di volta del problema (anche se, alla fin fine, pure
il filosofo della Teoria della giustizia non
garantisce la fondazione teorica più soddisfacente).
Tra la dominanza del mercato senza Stato dei grey markets
e l’insostenibile idea dello Stato etico, fortunatamente
tertium datur. Ovvero, un diritto e giudizi
conseguenti che tengano conto della realtà e
non fingano di prescinderne al servizio di impersonali
“gabbie di acciaio” o del ben più
prosaico interesse del più forte. Diritti umani
e un kantiano e neoilluministico (aggiornato ai tempi
postmoderni) diritto cosmopolitico delle genti che ci
consenta di superare l’eterno “bipolarismo”
della teoria giuridica oscillante tra giusnaturalismo
e giuspositivismo.
Non è la bacchetta magica, ma una graduale,
difficile e preziosissima prosecuzione del cammino sulla
strada di quella idea di Occidente di cui, in epoca
di infauste e inaccettabili “guerre di civiltà”,
siamo orgogliosi. Quella via che il prof. Rossi chiama
Umanesimo.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|