297 - 14.03.06


Cerca nel sito
Cerca WWW
La strage della legalità.

Massimiliano Panarari



Guido Rossi
Il gioco delle regole
Adelphi, p.118 , euro 13,50

Invocare, in un paese arretrato come il nostro (un po’ ovunque: dal capitalismo al terziario), l’abolizione del patto di sindacato nelle società quotate, qualificando per di più tale suggerimento con l’aggettivo “leninista”, è cosa che può riuscire solo a un uomo della caratura intellettuale e del profilo civile di Guido Rossi, già senatore della Sinistra indipendente, già presidente Consob e Telecom, padre delle nostre normative antitrust e uno dei più importanti avvocati italiani. Ma anche un intellettuale raffinato e un filosofo del diritto che alla ricerca e alla sperimentazione culturale ha dedicato una parte significativa delle proprie energie e della propria intelligenza. Soprattutto, un personaggio capace come pochi di sconvolgere le acque spesso stagnanti di certo paludoso dibattito italico con analisi e proposte che ci indirizzerebbero verso l’approdo di una nazione civile.

Il suo “rasoio di Occam” si applica nel nuovo libro uscito di recente, Il gioco delle regole, al capitalismo odierno – quello neoliberista che domina e indirizza i grandi flussi finanziari dell’età globale, ma anche quello “all’amatriciana” degli immobiliaristi di casa nostra; un capitalismo insofferente e rabbioso nei confronti delle norme, che alle “regole del gioco” preferisce il “gioco delle regole”, per l’appunto, del quale si pone come deus ex machina. Insomma, siamo di fronte all’ultima e infausta frontiera di quell’epidemico conflitto di interessi che costituisce il vero Moloch pernicioso delle società tardo-capitalistiche, cui il prof. Rossi aveva sconsolatamente dedicato un bel saggio precedente, uscito sempre per i tipi di Adelphi (intitolato, giustappunto, Il conflitto epidemico). La sua divertita rievocazione di misure bolsceviche per superare uno dei più illiberali strumenti di potere diffusi nell’economia italiana fa risaltare ancor più la necessità di norme giuridiche innovative per governare il mercato e la globalizzazione, in grado di rendere il primo davvero “liberale”, anziché quel totem intoccabile omaggiato a ogni pie’ sospinto dai sedicenti liberisti della penisola.

Non i codici etici, non la morale (che pertiene alla sfera valoriale soggettiva e del singolo), dunque, ma il diritto per salvare il capitalismo da se stesso e dargli un “volto umano”. Appare interessante come l’autore rimarchi più volte il fatto che il ricorso – puramente nominale, come ovvio – all’etica stia diventando sempre più convulso, mentre le leggi, altrettanto evidentemente, vanno in una direzione opposta a quella dei principi morali utilizzati come foglia di fico. L’avversario da contrastare risponde al nome di “contrattualismo”, un termine che per Rossi, facendo sobbalzare dalla sedia più di un benpensante della teoria giuridica, designa la tendenza attuale del capitalismo a contrattare tutto senza l’“intromissione” del legislatore o del potere giudiziario; nell’era della mondializzazione, insomma, non si trova più alcun giudice a Berlino… La libertà contrattuale, difatti, spesso altro non è che la libertà del più forte che tanto piaceva a Friedrich von Hayek, il dominus della Mont Pelerin Society e l’indiscusso padre intellettuale della ventata neoliberista e della controrivoluzione conservatrice. Uno di coloro che ha determinato il mainstream e lo Zeitgeist dai tardi anni settanta in avanti, un profeta autenticamente ante litteram di quella globalizzazione non regolamentata e priva di regole che ci ricaccia in uno stato di natura hobbesiano (la quale, per molti versi, costituisce la condizione dominante delle relazioni internazionali).

Ora, anche Guido Rossi è un liberale che ha scelto per sé, però, la declinazione progressista; un liberal se fosse nato negli Stati Uniti, come ha detto nel corso di un’intervista al Corriere della sera. Dunque, rigettando le tesi di Ronald Dworkin, il professore milanese ci dimostra che il diritto non costituisce un regno di astratti tecnicismi, bensì il luogo (della teoria e, successivamente, della prassi) in cui prendono forma le visioni relative a come deve funzionare una società. Per farlo intendere al meglio si avvale, come si usa da qualche tempo a questa parte nelle università americane (dove ha trascorso periodi di insegnamento), di molta letteratura (lo Shakespeare de Il mercante di Venezia, il Melville di Billy Budd, il Dostoevskij de I fratelli Karamazov, il Carroll di Alice nel paese delle meraviglie), soprattutto nel capitolo finale del volume, quello che prova a immaginare un abbozzo – riuscito – di Ricomposizione delle regole. Metodologie anglosassoni e cultura classica, quindi, perché Rossi si rivela sempre animato da una visione, per così dire, olistica, nutrita di una vastissima cultura personale e di una idea di umanesimo che, nell’amore per la brillantezza e nella chiara predisposizione alla provocazione intelligente (“scandalizzare i benpensanti” in Italia dovrebbe essere un dovere morale…), diviene quasi iconoclastia.

Ex captivitate salus, almeno in un certo senso, si potrebbe dire rubando il celebre detto a Carl Schmitt, il giurista che volle farsi ideologo del regime nazionalsocialista, la distopia negativa realizzata dei desideri di quei tre assassini delle squadracce paramilitari di estrema destra che nel 1922 uccisero il grande Walter Rathenau, quella sorta di Leonardo della prima parte del XX secolo cui vanno la manifesta simpatia e l’ammirazione del prof. Rossi. Paradossalmente, infatti, proprio da una prigionia (quella di Guantanamo piuttosto che quella di Abu Ghraib) e dalla strage della legalità innescata da certe norme antiterrorismo promulgate in fretta e furia dall’amministrazione Bush e, a cascata, dai governi di gran parte dell’Occidente, può venire una, sia pur parziale, reazione all’ordine dominante delle cose.

Inadeguato Dworkin, Rossi scommette su John Rawls per l’attenzione agli human rights, la vera chiave di volta del problema (anche se, alla fin fine, pure il filosofo della Teoria della giustizia non garantisce la fondazione teorica più soddisfacente). Tra la dominanza del mercato senza Stato dei grey markets e l’insostenibile idea dello Stato etico, fortunatamente tertium datur. Ovvero, un diritto e giudizi conseguenti che tengano conto della realtà e non fingano di prescinderne al servizio di impersonali “gabbie di acciaio” o del ben più prosaico interesse del più forte. Diritti umani e un kantiano e neoilluministico (aggiornato ai tempi postmoderni) diritto cosmopolitico delle genti che ci consenta di superare l’eterno “bipolarismo” della teoria giuridica oscillante tra giusnaturalismo e giuspositivismo.

Non è la bacchetta magica, ma una graduale, difficile e preziosissima prosecuzione del cammino sulla strada di quella idea di Occidente di cui, in epoca di infauste e inaccettabili “guerre di civiltà”, siamo orgogliosi. Quella via che il prof. Rossi chiama Umanesimo.


 

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it