297 - 14.03.06


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Kadima, due muri un paradosso

Neve Gordon



Il 28 marzo gli israeliani si sono recati alle urne nella speranza di risolvere il conflitto israelo-palestinese una volta per tutte. Tanto aveva promesso il nuovo partito politico Kadima, che in ebraico vuol dire “avanti” vincendo di conseguenza le elezioni, mentre i partiti di governo storici, il Labor e il Likud, perdevano il loro tradizionale posto di comando.

Benché il confortante discorso sulla giustizia sociale introdotto dal nuovo leader del Labor, Amir Peretz, leader del sindacato di origini marocchine, abbia iniettato energia nel partito in frantumi, non è riuscito a ottenere il sostegno di quanti sperava. La posizione di Peretz riguardo il conflitto israelo-palestinese è stata giustamente giudicata incoerente e sembra anche che molti degli elettori laburisti storici ashkenaziti (originari dell’Europa) abbiano disertato le fila del partito perché contrari ad essere guidati da un ebreo mizrahi (il termine viene usato per indicare gli ebrei di origini arabo-orientale, ndt).

La situazione del Likud è assai peggiore. In seguito alla creazione di Kadima, il Likud ha perso quasi il 75% del proprio elettorato non ultimo per il fatto di essersi sempre più caratterizzato come un partito estremista che rappresenta l’ideologia intransigente dei coloni. Forse uno tra gli elementi che hanno pesato di più in questa sceltaè che, durante il suo mandato di Ministro della Finanza, Binyamin Netanyahu ha introdotto politiche tatcheriane impopolari che hanno spinto centinaia di migliaia di ebrei al di sotto della soglia di povertà. Dopo gli umilianti risultati delle elezioni – in cui il Likud ha conquistato meno del 10% dei seggi del Knesset ed è retrocesso a quinto partito – molti credono che Netanyahu dovrebbe dimettersi.

Anche se l’estrema destra ha perso molti seggi, il partito di Avigdor Liberman, Ysrael Beiteinu (Israele è la nostra patria), ha ottenuto 12 seggi, 4 volte più di quanti ne aveva vinti nelle scorse elezioni. Si tratta di uno sviluppo preoccupante dal momento che Liberman è la versione israeliana del francese Jean Marie Le Pen, un politico astuto che incanta gli elettori di destra invocando sentimenti atavici che richiamano il sangue e il territorio ebraico.

Comunque se Liberman può aver rappresentato la sorpresa di queste elezioni, Kadima, ottenendo 28 seggi, è stato il partito vincitore. L’ascesa fulminea di Kadima è dovuta, in parte, a un desiderio profondo di avere un partito centrista in grado di risolvere il conflitto israelo-palestinese. Mentre il partito ha assai poco da dire riguardo agli altri malesseri sociali del Paese, la coraggiosa dichiarazione di Ehud Olmert secondo cui Kadima determinerà in maniera unilaterale i confini internazionali di Israele è uno dei segreti che si celano dietro questo notevole risultato.

E’ stato, in realtà, il fondatore del partito, un uomo che attualmente è in coma, a riuscire a convincere l’opinione pubblica che Kadima avrebbe fatto scomparire il problema palestinese. Nelle settimane precedenti alle elezioni Kadima ha semplicemente sfruttato la promessa di Ariel Sharon e gran parte del sostegno di cui il partito gode riflette l’enorme rispetto che molti israeliani nutrono per l’ex primo ministro.

Kadima aveva un messaggio diretto e l’opinione pubblica israeliana l’ha bevuto. La forza della sua rivendicazione è che esiste una contraddizione tra le aspirazioni geografiche e quelle demografiche di Israele: man mano che il progetto colonico è andato rafforzando la propria presa sui Territori Occupati, l’idea stessa di Israele come Stato ebraico in cui gli ebrei rappresentano la maggioranza è andata indebolendosi. In altre parole, il fatto che la maggioranza delle persone che vivono tra la Valle del Giordano e il Mar Mediterraneo non siano ebree sottolinea l’impossibilità di portare a compimento il progetto di uno Stato israeliano più esteso che mantenga, allo stesso tempo, un’identità ebraica.

L’idea del partito è di ridisegnare unilateralmente i confini tra Israele e i territori palestinesi alterando così in maniera radicale la realtà demografica e geografica della regione. Il ritiro dalla Striscia di Gaza della scorsa estate ha rappresentato la prima fase del piano. Sia in Israele che nella comunità internazionale, questa mossa è stata considerata un passo positivo verso la risoluzione del conflitto. Pochi sono sembrati preoccuparsi del fatto che fosse stata eseguita unilateralmente e che la nuova realtà limitasse ancora di più gli abitanti di Gaza in termini di risorse, mobilità e potere decisionale.

In una recente intervista rilasciata ad Ha’aretz, Olmert ha delineato la prossima fase del piano spiegando che la cosiddetta barriera di sicurezza di Sharon diventerà il nuovo confine politico di Israele. Tuttavia non è riuscito a spiegare cosa comporterà esattamente la conversione della barriera di sicurezza in confine politico.

Dal punto di vista demografico, la barriera circonderà da est 48 colonie ebraiche, di modo che 171000 coloni della Cisgiordania verranno incorporati all’interno dei nuovi confini israeliani. Il muro in costruzione a Gerusalemme Est è volto a consolidare l’annessione di questa parte della città risalente al 1967 e a rafforzare ulteriormente i 183800 coloni che vi abitano. In questo modo il governo non dovrà evacuare l’87% dei coloni che vivono ora nella Cisgiordania e gli ebrei avranno una netta maggioranza all’interno dei confini israeliani, unilateralmente definiti. Il prezzo che Israele dovrà pagare per questa soluzione è l’evacuazione di 52000 coloni.

Dal punto di vista geografico, tuttavia, la barriera in quanto confine politico (che comprende il progetto di Israele di conservare il controllo sulla valle del Giordano) non ricorda nessuna delle due visioni tradizionali della pace: né la soluzione dei due Stati né quella di una politica bi-nazionale.

Un esame della linea della barriera rivela che il futuro “Stato” palestinese sarà diviso in 3 se non 5 aree (compresa Gaza). Ogni area sarà quasi interamente inaccessibile dalle altre, mentre Israele continuerà effettivamente a controllare tutti i confini in modo da poter imporre una chiusura ermetica tutte le volte che vorrà. La novità del progetto di Kadima non è il tentativo di creare enclave isolate nei Territori Occupati, quanto piuttosto lo sforzo di trasformarle in entità quasi-indipendenti con il pretesto di costituire uno Stato palestinese.

Analizzando la formazione del nuovo Knesset, sembra che un numero compreso tra i 65 e gli 85 membri su 120 sosterranno la proposta di Olmert. La brillantezza del piano politico di Kadima è che esso risolve il problema demografico di Israele e presenta la propria soluzione come l’opzione dei due Stati, noncurante del fatto che questa sarà la prima volta nella storia che un cosiddetto “Stato indipendente” non avrà alcun potere sui propri confini. In effetti, il piano di Kadima tralascia il fatto che Israele continuerà a controllare i palestinesi le cui condizioni di vita verranno ulteriormente limitate. I metodi di controllo, comunque, dovranno essere esercitati a maggiore distanza e dovranno essere più sofisticati dal punto di vista tecnologico ricorrendo alla biometria, alle videocamere, ai robot e alla sorveglianza aerea.

A loro volta, i palestinesi utilizzeranno senza dubbio tutti i mezzi a loro disposizione per resistere al tentativo israeliano di trasformare la Cisgiordania e Gaza in un Bantustan controllato a distanza. Di conseguenza, non sorprenderebbe se il piano di Olmert dovesse finire per incontrare i missili Qassam lanciati dalla Cisgiordania in direzione di Gerusalemme e Tel-Aviv.

Paradosso finale è che il progetto politico di Kadima, in realtà, fa fare marcia indietro al processo di pace. Da un lato, esso cerca di convincere l’opinione pubblica che può far scomparire il problema palestinese reintroducendo il vecchio tropo sionista di un “muro di ferro”. Dall’altro lato, esso ha abbandonato tutte le forme di dialogo e negoziazione che, fin dall’inizio degli anni ’90, i leader israeliani avevano compreso essere l’unico modo per raggiungere una soluzione con i palestinesi. Kadima è perciò un ossimoro. Se il nome del partito significa “avanti”, il suo programma politico, in effetti, farà compiere agli israeliani molti passi indietro.

Traduzione di Martina Toti


Neve Gordon insegna politica alla Ben-Gurion University


 

 

 

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