“Ricordo
quella volta che Enrico Berlinguer, all’aeroporto,
mi disse: ‘Presidente Andreotti, la differenza
tra noi e voi è che voi siete borghesi, e noi
siamo dalla parte del popolo. Per esempio, lei sa quanto
costa un biglietto del tram?’. Non lo sapevo,
poi però – continua il senatore Andreotti
– dopo un po’ gli chiesi io il prezzo di
un biglietto della metro, e non lo sapeva nemmeno lui”.
Il pubblico ride, alla presentazione del libro di Silvio
Pons Berlinguer e la fine del comunismo (Einaudi
2006, 24 euro), e scatta l’applauso. Diretto non
tanto ai due protagonisti, ma a un’Italia che
non c’è più, e di cui oggi sembra
tornare improvvisa nostalgia. Pierluigi Battista, sul
Corriere della Sera, ha invece rievocato un paesaggio
politico diverso, con Togliatti che vuole dare un calcio
nel sedere a De Gasperi e i democristiani a implorare
di non lasciare il paese in mano ai comunisti. Il dibattito
è aperto, ma certo fa impressione sentire uno
dei simboli di 50 anni del potere Dc, l’ex presidente
del Consiglio Andreotti rievocare con tanto rispetto
il nemico di un tempo, l’ex segretario del Pci
Enrico Berlinguer.
Anche perché il senatore a vita è notoriamente
schietto, e alla presentazione del libro di Pons non
lascia spazio all’apologia politically correct:
“Ci trovavamo in casa di Tonino Tatò, e
se la Cia metteva le cimici sono contento, perché
il nostro era un rapporto chiaro, limpido”. Andreotti
non nasconde che tra i due ci fossero differenze abissali,
ma ricorda che il contributo del segretario del Pci
fu fondamentale per due motivi. Anzitutto perché,
grazie anche alla mediazione di Aldo Moro (“il
cui prestigio andava molto al di là della sua
forza congressuale”), Pci e Dc cominciarono a
parlare tra di loro, dopo che per 25 anni il partito
comunista aveva regolarmente votato contro tutti gli
esecutivi a guida democristiana. E poi perché
Berlinguer riuscì a dar vita a una nuova politica
internazionale.
È proprio quest’ultimo il tema al centro
del libro di Pons, direttore della Fondazione Istituto
Gramsci. Lo storico, attraverso una scrupolosa ricerca
d’archivio, ha ricostruito la politica estera
del segretario del Pci, e non ha fatto sconti al mito.
Sergio Luzzatto, sul Corriere della Sera, recensendo
il libro ha espresso (e fatto esprimere a Pons) un giudizio
durissimo su Berlinguer, che nel libro verrebbe “rappresentato
come un politico incapace di affrancare il partito dalla
sua identità originaria: dall’incancellabile
impronta sovietica. Berlinguer fallì perché
si illuse che il comunismo fosse qualcosa di riformabile”.
“Pons illustra l’inconsistenza quasi patetica
del modo in cui la teoria eurocomunista si realizzò
nella pratica – ha scritto Luzzatto – I
dirigenti del Pci erano i primi a sapere che non avrebbero
mai combinato nulla né con Marchais e il Partito
comunista francese né con Carrillo e il Partito
comunista spagnolo. Nondimeno, si aggrapparono all’eurocomunismo
come a una foglia di fico che valeva a nascondere la
loro renitenza a operare, nel contesto di un mondo bipolare,
una precisa scelta di campo: a favore degli Stati Uniti,
contro l’Unione Sovietica”.
Alla presentazione del libro si sono usati accenti
diversi, qualcuno ha anche apertamente criticato la
lettura di Luzzatto, ma è parso evidente che
il mito è morto. O almeno è sceso sulla
terra. Tutti ammettono ormai (ed è diventato
quasi un luogo comune) i limiti di Berlinguer, quel
suo essere un buono che non ebbe il coraggio di abbandonare
il mondo cattivo di cui faceva comunque parte. “Figura
importante per la formazione di molti, lascito morale
e civile indiscutibile, ma anche figura ingombrante
e complessa”, ha sintetizzato il giornalista Paolo
Franchi, che ha ricordato come alla sua morte il Pci
si sia ritrovato isolato nel paese e sullo scenario
internazionale. Giuseppe Vacca, presidente dell’Istituto
Gramsci, ne ha rievocato l’europeismo, ma anch’egli
ha avvertito che l’eurocomunismo è stata
“una grande enunciazione che però non ha
condotto a una reale costruzione di alleanze”.
“Non ci fu mai un eurocomunismo, un movimento
vero e riconosciuto”, gli ha fatto eco il presidente
dei Ds Massimo D’Alema, che a Berlinguer ha dedicato
alcune pubblicazioni e che ha ricordato che “il
Pci era assolutamente autonomo da Mosca e questo va
riconosciuto, tanto che gli stessi Stati Uniti avevano
la percezione che l’Urss vedesse in Berlinguer
una minaccia”. D’Alema non ha negato alcuni
accenti antioccidentali presenti nel pensiero dell’ex
segretario, ma ha fatto notare come egli dovesse confrontarsi
con forti pregiudizi antiamericani nel suo partito.
“È la storia di una sconfitta”, conclude
Silvio Pons, E la sensazione è che ormai Enrico
Berlinguer, dopo due decenni di battaglie storiografiche,
non sia più di grande attualità.
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