297 - 14.03.06


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Welfare, la (stretta) via dell’Ue

Alessandro Russo



Esiste un modello unico di welfare europeo? Se ne è parlato a Roma il 22 marzo scorso, al seminario Globalizzazione e politiche sociali dell’Unione Europea, un forum di discussione e una tavola rotonda più che un semplice seminario, organizzato dalla Rivista delle Politiche Sociali (casa editrice Ediesse). Il professor Anthony Atkinson, rettore del Nuffield College di Oxford, tra i massimi studiosi dei rapporti tra economia e welfare, ha presentato e discusso il paper European Union Social Policy in a Globalising Context, che sarà presto pubblicato. “La nostra mission è quella di fornire sia attraverso Rps, sia attraverso gli incontri, elementi seri e approfonditi di riflessione - dice Maria Luisa Mirabile, direttore della Rivista delle Politiche Sociali - L’obiettivo è quello di contaminare mondi diversi: quello della ricerca, dell’intellettualità, quello del sindacato, quello del policymaking, degli amministratori. Non è un caso che la platea fosse composta da dirigenti sindacali, docenti universitari e studenti; c’è stata una forte triangolazione che ha indubbiamente animato e arricchito il dibattito. L’incontro metteva in discussione degli assunti che spesso vengono dati per scontati”.

E infatti sono stati diversi gli aspetti presi in esame: il disallineamento dei paesi membri in campo di politiche sul welfare, la genericità e la limitatezza delle possibili azioni a livello comunitario fino a ora praticate, la discussione sulla messa a fuoco di un possibile modello europeo di sviluppo sociale. Un’ampia gamma di argomenti è stata sviluppata da Atkinson con una declinazione soprattutto storica. Nel descrivere le trasformazioni del welfare europeo, il professore ha sottolineato il processo che ha portato dalla quasi totale assenza del tema delle politiche sociali nell’agenda europea, alla presenza dell’argomento nella discussione sulla Comunità. Una rappresentazione di un’Europa in nuce, generata dai mutamenti economici degli anni ’50 e ‘60, la cui eco arriva fino all’introduzione di politiche a sostegno della povertà e per il monitoraggio delle criticità nel decennio successivo. E poi il passaggio alla moneta unica e il processo di costruzione affrontato negli anni ’80 e ’90, in cui l’emergenza della moneta non ha lasciato spazio alla discussione sulle politiche sociali e uno sguardo attento sulle anticipazioni della presidenza Delors.

“Sotto Jacques Delors, l’ambito sociale venne maggiormente sviluppato. Nel 1989 la Commissione presentò la bozza della Carta Comunitaria dei diritti sociali fondamentali e questa fu adottata in forma modificata da 11 dei 12 Stati Membri di allora”, spiega Atkinson. Una data centrale, su cui poi ruota l’argomentazione di Atkinson e su cui si sono dibattuti gli argomenti successivi dei relatori, è quella dell’Agenda di Lisbona, quando nel 2000 emerse la necessità di delineare lo sviluppo economico e le politiche della “concorrenza” europea a stretto giro con la questione sociale. Lisbona il momento chiave, poi la scelta e la ragione del metodo del coordinamento aperto in fatto di politiche sociali: i singoli stati membri sono pienamente responsabili delle questioni del welfare, fermo restando, però, un’area d’azione comune tra stati nazionali. Il confronto, uno spazio necessario alla discussione e quindi all’apprendimento delle diverse esperienze.

Un’agenda che ritorna oggi più che mai, viste anche le conclusioni della presidenza europea del marzo 2005, quando ne viene ribadita la fondatezza dello spirito, rispettato in questi anni solo da poche presidenze, quella belga o quella svedese ad esempio, e che torna ad avere l’attenzione necessaria perché, come scrive Atkinson, “il dibattito europeo odierno è dominato dalle sfide economiche che l’Ue deve affrontare. L’aspirazione di Lisbona che l’Europa diventi un’economia dinamica basata sulla conoscenza, non sembra essere più vicina alla realizzazione di quanto lo fosse cinque anni fa. Semmai, la sfida posta dalla globalizzazione sembra più grande. La creazione di lavoro si è dimostrata elusiva, e gli Stati membri sono sempre più preoccupati del fallimento del loro tasso di crescita confrontato con quello degli Stati Uniti”.

Altro punto su cui Atkinson si è soffermato è la doppia argomentazione contro il welfare, quella classica della teoria economica e quella politica. Argomenti che dovrebbero rimanere la linea della differenza tra le politiche europee e quelle statunitensi. Seguendo la spinta alla concorrenzialità l’economia dell’Unione si è data al ribaltamento del problema della disoccupazione, assecondando le politiche di workfare, ossia la produzione di posti di lavoro per favorire benessere e quindi crescita economica e competitività. Una differenza che, se non ha portato l’Europa a produrre un Pil superiore a quello degli Stati Uniti, non la vede comunque arretrata nella distribuzione del reddito.

Nella discussione di Atkinson si contano i nodi della riflessione generale contemporanea, di un’economia che guarda alla concorrenza ma non vuole dimenticare il sociale: la teoria della competitività, la definizione del costo del lavoro e dei tassi di cambio, ma anche gli indicatori sociali dell’Europa a 15, l’allargamento a 25. Si delinea un’Europa aperta alla possibilità di una scelta fondamentale nei confronti del welfare, che deve tenere però in conto la differenza tra membri e necessariamente affrontare le sfide del mercato della globalizzazione. Tra gli indirizzi, quello di trasformare la tutela sociale in risorsa produttiva, l’attenzione alla povertà dell’infanzia e i mezzi per risolverla. E’ anche qui che si stabilisce la differenza tra due modelli di economia, quello degli Stati Uniti e quello europeo, due modelli in concorrenza per il benessere, non solo della propria economia, ma anche della società civile.

E il banco di prova rimane il lavoro. Lavoro come risorsa e fattore di integrazione e pacificazione tra membri di uno stesso paese – e Atkinson accenna chiaramente alle problematiche francesi nelle banlieue – e del welfare come mezzo di unità. Già perché uno degli spunti più interessanti di questo veloce passaggio dell’economista sta proprio nel porre una comparazione diacronica tra periodi storici estremamente differenti, ma sostanzialmente frutto di processi simili. Atkinson individua nel periodo storico ed economico tra il 1860 e il 1914 la nascita del welfare, un esordio conseguente e parallelo a quel primo periodo di globalizzazione. Un importante luogo storico a cui guardare quindi, soprattutto per interpretare la fase odierna. La spesa sociale e lo stato previdenziale sono fattori dell’unità e sono stati in passato a fondamento della costruzione dell’idea dello stato nazione – e cita i casi della Germania e della Nuova Zelanda.

Il panorama generale degli argomenti del professore si è aperto poi agli interventi, che si sono concentrati sulle ombre del sistema europeo, perché “il dibattito è entrato nelle pieghe di quell’esposizione generale e in queste si possono evidenziare di più e meglio le contraddizioni”, ha commentato Maria Luisa Mirabile. Paolo Bosi dell’Università di Modena ha sottolineato la fase critica che l’Europa sta attraversando e come non siano da sottovalutare gli aspetti della distribuzione del reddito, della questione del costo del lavoro. Gianni Geroldi dell’Università di Parma ha invece raccolto le diverse suggestioni del paper di Atkinson, soprattutto nella ricostruzione del processo di maturazione delle politiche europee in campo sociale, espresse nel triangolo sociale/politico/economico di Lisbona, segno chiaro della fine del predominio di un fine sull’altro, ma ha anche sottolineato la mancanza di pieno successo delle politiche di occupazione come alternativa al welfare, ponendo dubbi sul metodo del coordinamento aperto.

L’intervento più animato è stato sicuramente quello di Elena Granaglia dell’Università della Calabria, indirizzato a porre attenzione sulla “strisciante trasformazione pro mercato della giustizia sociale”. Un intervento teso a ricordare l’importanza della giustizia sociale, imprescindibile motivo delle politiche sociali. Paolo Onofri dell’università di Bologna ha posto l’attenzione sul Nation Building, spingendo il ragionamento a favore di una comune politica europea per il sociale, ma anche a favore di un bilancio federale; pena una rischiosa frammentazione. Più allarmata la riflessione di Laura Pennacchi, parlamentare Ds, che ha sottolineato il regresso a cui è stato costretto in questo momento il processo di costruzione dell’Europa, puntando il dito sulla riduzione del costo del lavoro “sintomo del deserto di ideazione che stiamo vivendo”.

 


 

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