Questo
articolo è l’intervento dell’autore
al convegno “Beyond Orientalism and Occidentalism”,
organizzato al Cairo dall’Associazione Reset-Dialogues
on Civilizations dal 4 al 6 marzo 2006.
Esiste la possibilità di abbandonare il modello
dell’Occidente contro l’Oriente, dell’Islam
contro il cristianesimo o del noi contro loro. Proveniamo
da culture e civiltà differenti – se vogliamo
utilizzare questo termine scivoloso: ma una cultura
è un sistema di valori e comportamenti e, secondo
quanto discusso qui, nella tre giorni al convegno “Beyond
Orientalism and Occidentalism”, sono molte le
persone che condividono un sistema di valori e comportamenti
molto simile. Potrei definirla una cultura del dialogo,
della curiosità, del rispetto, della conoscenza,
dell’interesse reciproco e della reciproca convenienza,
dello scambio, di un certo tipo di solidarietà,
dell’empatia, di identità dinamiche e,
last but not least, dello stato di diritto kelseniano.
Ma se ho ragione, se la maggior parte di noi, che siamo
qui presenti, condivide la stessa cultura politica o
almeno una cultura molto simile, siamo l’Occidente
o l’Oriente? In altre parole, esistono culture
che non possono essere spinte all’interno dello
schema Est-Ovest? Sono sicuro che questa conferenza
è una resa all’Islam per le persone in
Occidente e una resa all’“imperialismo ideologico
di stampo occidentale” per le persone d’Oriente.
Entrambe le fazioni condividono la stessa logica: quella
del dialogo come capitolazione. Non hanno in comune
gli stessi valori e comportamenti, ma pensano allo stesso
modo: con identità rigide, paura anziché
curiosità, tradizione anziché scoperta,
odio anziché dialogo, “narcisismo delle
differenze” anziché solidarietà.
Ovviamente non voglio negare l’esistenza di un
Est e di un Ovest, di un centro e di una periferia,
di una storia differente, di una struttura sociale diversa,
di diversi interessi e diversi comportamenti. Ma lasciate
che chieda: perché non usiamo il “noi”
e il “loro” all’interno di cultura
del dialogo contro una cultura dell’indifferenza
e dell’odio? Perché accettiamo così
facilmente la pericolosa idea secondo cui i conflitti
sono principalmente culturali e religiosi, in altre
parole quasi inevitabili, e non principalmente politici
ed economici ovvero aperti al compromesso?
Quello che sto dicendo è che coloro che condividono
una cultura del dialogo non dovrebbero accettare di
essere invisibili. Dovrebbero essere più coraggiosi
e organizzati forse attraverso qualche tipo di network
globale che attraversi l’Est e l’Ovest.
Dovrebbero sempre riuscire a dimostrare che, quando
due “culture” si scontrano, o due progetti
politici nascosti confliggono, esiste sempre una terza
opzione: quella di coloro che credono che dobbiamo garantire
all’altro il rispetto e la comprensione anche
quando non si riesce a trovare un compromesso, o almeno
non facilmente.
Cercherò di spiegare perché la terza
opzione, la posizione asimmetrica e politica, è
così decisiva. Sono stato un corrispondente di
guerra per lungo tempo e ho coperto molti dei cosiddetti
conflitti etnici. La mia tesi è che uno “scontro
di civiltà” o un “conflitto etnico”
operano nella stessa direzione. Si tratta di conflitti
politici ed economici rivestiti da una maschera mitologica.
Le due parti in conflitto sono nemiche ma allo stesso
tempo alleate. Si rafforzano reciprocamente e hanno
lo stesso obiettivo: distruggere e dividere il terreno
nel mezzo, l’area di dialogo e mediazione, di
scambio e soluzioni comuni. Quest’area è
lo spazio politico rappresentato dalla terza opzione.
E’ lo spazio di coloro che rifiutano la logica
dei due poli, della dicotomia “noi o loro”.
Ad esempio: serbi o croati. E se si rifiutano ambedue
i nazionalismi perché si ritiene che la propria
identità appartenga a un’entità
non-nazionalista come l’Europa o la federazione
jugoslava si è considerati perdenti. Ciò
significa che si verrà colpiti da ambedue le
fazioni e, dal momento che non si è massacrato
nessuno, non si verrà mai invitati a una conferenza
internazionale. Le due fazioni diranno che si è
dei traditori della propria nazione, cultura, religione,
del proprio sangue. Non si può esistere. Non
si può essere visibili. Scegli o muori.
Questa è la logica del “conflitto etnico”.
Nel cosiddetto “scontro di civiltà”,
i media elettronici a volte fanno il lavoro delle milizie:
cancellano la terza opzione. Mi trovavo a Copenhagen
poche settimane fa. Un giorno, una domenica, c’era
una bella manifestazione di danesi e immigrati musulmani.
Tremila persone, molto amichevoli tra loro. Ma non c’era
nessuna televisione. Tutte le televisioni, infatti,
stavano cercando 20 idioti che – a quanto pare
– avevano promesso di bruciare il Corano. In quei
giorni noi europei, guardando la nostra tv, traevamo
facilmente l’impressione che tutti i musulmani
del mondo stavano bruciando bandiere danesi. E probabilmente
voi orientali, guardando la vostra tv, avevate l’impressione
che a quasi tutti gli europei piace disprezzare e umiliare
i musulmani. In altre parole, in quei giorni la terza
opzione era diventata pressoché invisibile. E
questo è esattamente il risultato che si aspettano
coloro che stanno cercando di costruire uno “scontro
di civiltà” in modo da trarre vantaggio
da questo tipo di agitazione.
I media sono fondamentali per i costruttori del cosiddetto
conflitto “culturale”. Volenti o nolenti,
essi possono creare il quadro ideologico di un’aggressione
invertendo i ruoli della vittima e dell’aggressore.
La vittima deve essere mostrata come aggressore che
sta ordendo qualche piano oscuro e disgustoso. Spesso
la vittima è dipinta come un invasore, come qualcuno
che vuole invadere l’Europa fingendo di essere
un immigrato, o come qualcuno che cerca astutamente
di invadere la cultura orientale per dominarla. O quantomeno
come qualcuno che appartiene a una cultura aggressiva
che non può convivere con la nostra. Perciò
l’idea secondo cui “l’islam sta attaccando
la cristianità” sta diventando popolare
nell’Occidente almeno quanto l’idea secondo
cui “gli occidentali cristiani stanno attaccando
l’islam” lo è in Oriente.
Il male è sempre nell’altro campo, mai
nel nostro. Questa è l’idea più
pericolosa che generalmente va assieme ai conflitti
etnici e agli scontri di civiltà. L’idea
che noi siamo innocenti. E che restiamo innocenti anche
quando l’Altro viene pestato o ucciso. Allora,
chi lo ha ucciso? Non è colpa nostra: è
morto nello scontro di civiltà, annientato dalle
forze invisibili della storia. E poiché apparteneva
a una civiltà aggressiva, è stata colpa
sua. Noi avevamo il diritto di restare indifferenti
davanti alla sua sofferenza.
Questo mondo virtuale è costruito su concetti
che non vengono mai spiegati. “Civiltà”:
nel libro “Lo Scontro di Civiltà”
di Samuel Huntington non si trova una definizione chiara
di questo termine. O anche: “i nostri valori”.
Molti politici europei in genere dicono “dobbiamo
proteggere ‘i nostri valori’ minacciati
dagli immigrati”. Ma quali sono questi valori?
Non è mai chiaro. E quando si ascolta un politico
che non ha alcuna dignità etica parlare dei ‘nostri
valori’ ci si chiede quali siano davvero.
La mia conclusione è questa: per il dialogo
è essenziale trovare un linguaggio. Necessario
per smontare la mitologia e l’incomprensione implicati
negli “scontri di civiltà”. Necessario
anche per costruire una posizione comune tra Est e Ovest.
Ad esempio, se esaminassimo cosa significa il termine
terrorismo e cosa è il terrorismo in Medioriente,
probabilmente non riusciremmo a trovare un accordo,
almeno non facilmente. E probabilmente alcuni di noi
direbbero: non riusciamo ad accordarci perché
abbiamo culture differenti. Non penso che questa sia
la conclusione giusta. La conclusione giusta è:
diamo alle cose il nome giusto. Come? Una soluzione
potrebbe venire dal codice penale della Corte Criminale
Internazionale ratificato da paesi orientali e occidentali.
Non sto dicendo che la Corte criminale internazionale
sia perfetta. Ma in quel codice ci sono, descritti chiaramente,
molti tipi di crimini di guerra o crimini contro l’umanità,
e all’interno di quella tipologia, ad esempio,
possiamo trovare agevolmente un nome adeguato per ciò
che accade a Falluja, o a Ramallah, o in Pakistan quando
un aereo militare distrugge due famiglie per colpire
un terrorista, o a Tel Aviv quando un attentatore suicida
uccide civili innocenti. Potremmo. Possiamo. E se ci
riuscissimo, potremmo definire la terza opzione in una
nuova maniera: come l’opzione di coloro che osano
affrontare la verità.
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