Era una bella
giornata d’inverno. Ero tra i circa 80 attivisti
israeliani partiti per piantare alberi nella regione
a sud di Hebron, nelle cui grotte vivono centinaia di
palestinesi. L’aria del deserto era fresca, il
terreno umido dopo la pioggia e le colline ricoperte
di fiori selvatici. Eppure l’atmosfera tranquilla
era ingannevole. Da anni quei palestinesi sono sottoposti
a vessazioni continue da parte dell’esercito,
della polizia israeliana e dei coloni ebrei con l’obiettivo
di tagliare i loro mezzi di sussistenza in modo da farli
“volontariamente” trasferire in altre aree
della Cisgiordania. L’idea, così sembra,
è di “ripulire” questa regione dai
suoi abitanti palestinesi.
Qui i palestinesi sono agricoltori che non dispongono
di acqua corrente o elettricità e dipendono da
un’agricoltura di sussistenza. Consapevoli del
loro stile di vita unico, i coloni li colpiscono lì
dove ferisce di più. Nel passato, hanno distrutto
e avvelenato i loro pozzi d’acqua, hanno ostruito
l’accesso ai terreni per il pascolo, hanno impedito
loro di arare la terra e mietere i loro raccolti, e
più recentemente hanno sradicato e abbattuto
i loro ulivi. Se ci sono stati dei giorni in cui l’esercito
e la polizia davano il via a tali violazioni, ultimamente
essi hanno compiuto un passo indietro permettendo ai
coloni di passare alla guida. I coloni, in altre parole,
sono diventati lo strumento di distruzione del governo.
Quel sabato avevamo deciso di piantare mille alberi,
per ricordare la festività ebraica del Tu Bishvat
e quella musulmana dell’Id el Shajar (entrambe
le quali celebrano la vita degli alberi) dando vigore,
allo stesso tempo, agli sforzi degli abitanti palestinesi
per rimanere sulla loro terra. Centinaia di palestinesi
provenienti da tutta la regione di Hebron erano accorsi
per unirsi a questa azione non violenta ed esprimere
la propria solidarietà ai palestinesi di quell’area.
Poche centinaia di metri prima di raggiungere la nostra
destinazione, ci siamo trovati davanti la polizia e
l’esercito. Sorprendentemente, un’intera
compagnia di uomini in uniforme era stata mobilitata
perché un gruppo di israeliani e palestinesi
voleva piantare qualche albero assieme.
Dopo aver esaminato le nostre carte di identità
e inserito le informazioni nel database dei loro computer,
ci hanno permesso di continuare. “Vi stiamo facendo
un favore” – ha detto un ufficiale - “perché
in realtà l’intera area è stata
dichiarata zona militare chiusa.”
Lavorando assieme, palestinesi ed ebrei, abbiamo piantato
mille alberi in sole poche ore. Mentre ci stavamo preparando
per tornare a casa, tuttavia, circa due dozzine di coloni
sono apparsi sulla scena. Considerando che questi coloni
sono religiosi, senza dubbio essi erano appena stati
in una sinagoga. Per inciso, quel sabato mattina la
funzione aveva parlato di Mosé e della sua relazione
con Jethro, un non-ebreo. Il brano della Torah racconta
la storia di Mosé, che aveva lasciato l’Egitto
per la prima volta e aveva viaggiato fino a Midian dove
aveva sposato Tziporah, la figlia di Jethro da cui avrebbe
avuto due figli. Successivamente Mosé avrebbe
fatto ritorno in Egitto da solo e avrebbe guidato gli
Israeliti nel loro esodo. Jethro, venuto a sapere del
fatto, manda a Mosé un messaggio: “Io,
tuo suocero, Jethro, sto venendo da te con tua moglie
e i tuoi due figli”. Mosé esce per incontrare
il suocero: “si inginocchia e lo bacia”.
Nella Bibba Mosè dichiara esplicitamente: “Jethro
mi ha accolto, mi ha aperto la sua casa, e io sono stato
per lui come un figlio”. Conseguentemente Jethro
viene definito “uno dei giusti delle nazioni”.
I coloni ebrei avevano letto della relazione tra Jethro,
il non-ebreo, e il più grande dei profeti ebraici,
Mosé, e non avevano imparato nulla.
L’immagine di palestinesi e israeliani che piantavano
ulivi assieme e mettevano in atto, in un certo senso,
quella relazione di rispetto reciproco descritta nella
Bibbia li aveva oltraggiati. Per mantenere la pace,
l’esercito e la polizia hanno dovuto formare una
barriera umana che impedisse ai coloni di raggiungerci.
La mattina successiva, i palestinesi si sono svegliati
davanti a una nuova realtà. Invece di sradicare
gli alberi come avevano fatto in passato, i coloni li
avevano rubati recintando ogni albero e inserendo una
piccola insegna che dichiarava che la pianta in questione
apparteneva al vivaio della colonia. L’idea non
era solo quella di rubare i nuovi alberi ai loro legittimi
proprietari, ma anche quella di espropriare il terreno
su cui essi erano stati piantati.
I proprietari del terreno ci hanno chiamato per farci
fotografare la proprietà rubata e utilizzare
le foto come prove in tribunale. Tuttavia, a conti fatti,
i coloni stavano usando gli alberi anche come tattica
per intrappolare i palestinesi. Quando i palestinesi
e gli attivisti Ta’ayush (partnership arabo-ebraica)
si sono avvicinati agli alberi, i coloni hanno chiamato
l’esercito e la polizia lamentando che stavamo
sconfinando sul terreno della colonia. Invece di arrestare
i veri ladri, le forze di sicurezza hanno istituito
check-points in tutta la regione per trovare i “colpevoli”
palestinesi che avevano osato tornare sui loro appezzamenti
di terreno, quegli stessi appezzamenti sui quali, il
giorno prima, la polizia aveva permesso loro di piantare
nuovi alberi. Ancora una volta si è palesata
l’alleanza profana tra coloni, esercito e polizia.
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