Cosa vi mancava
del mondo arabo quando vivevate in Occidente?”.
“L’Islam”. Minasha e Imen sono due
ragazze egiziane velate, silenziose e sorridenti. Siedono
tra il pubblico del convegno internazionale “Beyond
Orientalism and Occidentalism”, organizzato al
Cairo dal 4 al 6 marzo dall’associazione Reset-Dialogues
on Civilizations, in cui intellettuali, accademici e
politici occidentali e arabi hanno dibattuto sui modi
del dialogo tra Occidente e mondo arabo. Sono donne
come lo è la metà del pubblico, sono assistenti
all’Università, dove hanno conseguito un
Phd in studi classici, e hanno vissuto per un anno a
Roma. Dal nostro punto di vista, alternano risposte
scioccanti (“Non avremo mai amici ebrei”)
a risposte che considereremmo più “moderne”.
E’ moderno il sorriso furbo con cui, dopo essersi
consultate in arabo tra di loro, ci dicono che “No,
nei paesi arabi la condizione della donna è buona”.
E’ modernissima la libertà d’espressione
che si prendono quando chiediamo loro dei Fratelli Musulmani,
il movimento islamico illegale nell’Egitto di
Mubarak. Non si chiudono dietro al mutismo degli uomini
(“Non so di cosa stai parlando”, “Sei
un poliziotto?”), ma replicano: “E’
giusto che Hamas partecipi al processo politico. I Fratelli
Musulmani? (Silenzio) (Sorriso) Perché
no?”. E’ moderno che non vedano l’ora
di parlare con i due relatori occidentali Charles Burnett
e con Dimitri Gutas, cosa che facilmente si conquisteranno
(“Abbiamo studiato sui loro libri!”). Contraddizioni
che non ostacolano il dialogo, ne sono la parte viva
e la ragione. La sala è attenta, e anche i media
egiziani seguono l’evento. “Disgusting”,
commenta uno spettatore quando dal maxischermo Giancarlo
Bosetti, direttore di Reset, cita l’episodio della
t-shirt blasfema di Roberto Calderoli (il disgusting
è per il ministro, non per l’oratore).
Un giornalista cairota non-musulmano, invece, se la
prende con gli islamici, ma per parlarcene preferisce
prenderci da parte, al riparo da orecchie indiscrete.
L’Egitto tra autoritarismo e desiderio di democrazia.
"Non lasciamo soli i filosofi"
"Non lasciamo soli i filosofi", invoca Giuliano
Amato. E allora andiamo a sentirli, questi filosofi.
Slalom tra un sorseggiatore di tè e un cercatore
di cuffia-per-la-traduzione-simultanea. Apriamo la porta,
e in mezzo a telecamere arabe e fotografi improvvisati,
Bosetti spiega: “Vogliamo promuovere una comprensione
migliore tra persone che appartengono a culture differenti.
Il dialogo in sé è un contributo alla
riduzione del radicalismo, è l’accettazione
e la legittimazione della differenza. Meglio provare
a controllare i nostri pregiudizi che pensare di non
averne, suggeriva Gadamer”. “Dobbiamo promuovere
la circolazione di informazioni sulla normalità
della vita della gente normale, in opposizione al trend
della selezione informativa attuata dai mass media,
per la quale le nostre realtà vengono a contatto
e tendono a riconoscersi solo nei casi estremi di disordine
e caos, lotta e morte – continua il direttore
di Reset – E impariamo a scrivere Varietà
con la V maiuscola, opponendola a Verità”.
Poi cita in fila tre intellettuali ebrei (Barber, Walzer,
Margalit), neanche fosse davanti al pubblico dell’Università
di Tel Aviv. Dialogo vero, insomma, e senza tabù.
Tanto che, giunto il suo turno, Hassan Hanafi, filosofo
dell’Università del Cairo, mette i puntini
sulle i a proposito del titolo del convegno, dopo essersi
lanciato in una dottissima ricostruzione del pensiero
occidentale e dimostrando così che, per quanto
lo riguarda, il Sé conosce l’Altro davvero
bene, per usare le sue categorie.
L’Orientalismo,
era stato spiegato, “è il nome che Edward Said diede
alla deformazione coloniale dello sguardo occidentale su tutto ciò
che si trova ad Oriente”, è una sorta di esotismo.
L’Occidentalismo è un’idea speculare sviluppata da
Ian Buruma e Avishai Margalit, e consiste in una “satanizzazione”
dell’Occidente: vede l’occidentalizzazione come una forma
d’intossicazione della spiritualità e dell’integrità
dell’Oriente. Due pericolose banalizzazioni, due deformazioni
parallele, in cui gli orientali sono selvaggi e gli occidentali
decadenti senz’anima. Ma Hanafi, più scettico verso il
dialogo, usa sfumature diverse: l’Occidente intendeva capire
solo per dominare meglio, mentre l’occidentalismo è una
disciplina nata nel Terzo Mondo per completare il processo di
decolonizzazione, l’Occidente impone il suo modello e vuole
distruggere le culture diverse. Gli altri egiziani presenti ripetono
le accuse all’Occidente di occupare terre musulmane (l’Iraq
è citato in continuazione) e di usare due metri: la resistenza
al nazismo non era terrorista, ma quelle palestinese e irachena sì.
Il dibattito si fa vivissimo. Una donna in chador prende la parola
dal pubblico e attacca: “Voi soffrite di più per colpa
degli antiislamici che degli islamisti”.
Non siamo due blocchi
Poi arriva il turno di Amato. Se fosse una partita (ma non lo è), si
direbbe che l’Occidente si gioca il jolly. “Non
siamo due blocchi – ricorda – Quando pensate
alla guerra in Iraq ricordate i milioni di cittadini
europei che sono scesi in piazza per manifestare contro,
e che quel giorno è considerato la nascita della
nazione europea”. Per l’ex presidente della
Convenzione europea, “il mondo occidentale deve
fare i conti con i suoi nichilisti così come
quello islamico con i suoi radicali che portano al terrorismo,
entrambi dobbiamo combattere i nostri fondamentalismi,
e non dobbiamo essere schiavi dell’agenda e del
pensiero dei media”. “Il dialogo presenterà
ostacoli, ma non sono insormontabili – conclude
Amato, presente nel Consiglio Direttivo dell’Associazione
– Capiamo cosa possiamo imparare l’uno dall’altro.
Noi per esempio possiamo imparare da voi a mantenere
vivi i valori morali e la vita privata senza rinunciare
allo sviluppo economico”.
Il
convegno approfondisce il tema della democrazia nel mondo arabo
(“Come dimostra la storia europea moderna, la
parlamentarizzazione della politica ha il potere di trasformare il
conflitto da un fattore d’instabilità a uno di dinamica
stabilità e tolleranza – spiega Nadia Urbinati della
Columbia University – e di rendere le fedi religiose malleabili
alla regolamentazione politica e veicoli per la stabilità
sociale”). E si parla a lungo della storia dei rapporti tra i
due mondi, da Averroè e Federico II fino alla stagione del
colonialismo, con un tributo all’opera dei traduttori
medievali. Ci si giova di ricostruzioni storico-filosofiche di grande
valore, come quella di Ahmed Etman dell’Università del
Cairo, di Massimo Campanini dell’Orientale di Napoli, di
Charles Burnett del Warburg Institute di Londra, che ricordano come
Occidente e paesi arabi abbiano dialogato a lungo nei secoli, e che
fino al Rinascimento sono stati spesso gli arabi ad essere più
aperti e progrediti. Il siriano-tedesco Bassam Tibi, della Cornell
University, segnala invece le difficoltà del dialogo,
ammonendo che il mondo arabo traduceva più libri europei nel
Medioevo che oggi. Particolarmente importanti suonano le voci di
Roberto Toscano, ambasciatore italiano a Teheran, e di Ramin
Jahanbegloo, filosofo iraniano, perché è proprio dal
paese governato da Mahmoud Ahmadinejad che sembra in arrivo un nuovo
clash of civilizations, secondo l’assai citata formula
di Samuel Huntington: “Non sarà possibile nessun dialogo
–avverte l’attentissimo ambasciatore Toscano – se
non sapremo privarci delle nostre rispettive paure”.
Il
ruolo dei media e l’ombra della Sfinge
Già,
la paura. Non è un caso che la tre giorni si chiuda con una
tavola rotonda sui media, che, da entrambe le parti, molto spesso
giocano col fuoco. “L’audience premia la violenza e
condanna la moderazione”, viene detto, e l’effetto del
tutto è moltiplicato dal villaggio globale. “Solo i
media possono far superare le incomprensioni, ma dominati dallo
scandalismo danno voce agli estremismi”, afferma Mohamed
Salmawi, presidente dell’associazione degli scrittori egiziani
e direttore del settimanale Al Ahram Hebdo. Jörg Lau, che per il
settimanale tedesco Die Zeit ha seguito la vicenda delle vignette
danesi, fa notare come i musulmani estremisti che a Copenhagen hanno
protestato contro i cartoons fossero consapevoli dell’impatto
che avrebbe avuto sui media la loro protesta. Sono i media ad avere
in mano una delle chiavi più importanti del clash of
civilizations. Un’altra ce l’hanno i filosofi.
Un’altra ancora ce l’abbiamo noi tutti, che siamo insieme
uomini comuni e ambasciatori delle nostre culture.
Il
convegno termina, e l’ultima notte alcuni amici egiziani ci
portano lontano, ci fanno un regalo. “Vi ricorderete di questa
sera”, ci dicono. Noi ci fidiamo, li seguiamo, anche se è
tardi. Sull’autostrada del Cairo, il faccione del presidente
Mubarak si fa sempre più raro. I cartelloni pubblicitari, già
sporadici al centro della città, presto scompaiono, avvolti
dalla polvere del deserto, dai clacson e dalle frenate dei taxi. La
strada si allunga verso una periferia povera e onirica. Attraverso
piccoli bazar turistici senza speranza, improvviso e lunare,
felliniano, compare un Kentucky Fried Chicken chiuso. Dall’altra
parte della strada, vegliate da tre poliziotti svogliati e baffuti,
si ergono le Piramidi. Scendiamo dall’auto e ci fermiamo ad
ammirarle, bagnate dalla luna e da fioche luci stradali.
Siamo
pochi e piccoli esseri, in contemplazione di un miracolo notturno.
Nel brivido di quello spettacolo, ognuno si chiude nella sua storia
privata, e nessuno sa più chi è egiziano e chi è
italiano, chi è cristiano, chi è musulmano, chi è
laico e chi è ateo. Ci guardiamo soddisfatti, uniti da una
comune commozione e da parole scambiate in un inglese che non esiste.
Ci
saremmo certamente divisi se avessimo parlato del livello di
secolarizzazione delle società arabe, dell’esistenza di
Israele e della decadenza dell’Occidente (aggiungo: Ci saremmo
divisi all’interno dei nostri rispettivi gruppi. Così,
d’altronde, parlò Amato: Non siamo blocchi monolitici).
Però come si fa a non vedere che questa voglia di stare
insieme e di non dividersi, questo desiderio di buonsenso, perfino
questa voglia di divertirsi sono l’ingrediente principale dei
dialogues on civilizations? Che ne sono senz’altro il
cuore? “Look, the Sphinx!”, punta il dito la nostra
guida. L’ombra della Sfinge sembra annuire, ma è sempre
stata difficile da interpretare. Non lasceremo soli i filosofi, a
patto che i filosofi non vogliano fare a meno di noi, della vita
quotidiana, della normalità. Stanotte però Calderoli è
lontano, Bagdad è lontana, e l’11 settembre è
come se non fosse mai esistito.
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