Tratto
da Secolo
XIX del 6 marzo 2006
Alle volte viviamo di strani strabismi o comunque di
eccessi.
Nei giorni scorsi la visita del Presidente del Consiglio,
on. Silvio Berlusconi, negli Stati Uniti è stata
vissuta come un fatto di politica interna. Probabilmente
lo è, pur rimanendo soprattutto un fatto
di politica estera. In ogni caso ci si è spaccati
(magari anche con buone motivazioni) su qualcosa che
accadeva fisicamente molto lontano da qui.
Ci sono, invece, altri fenomeni e “fatti”
che avvengono anche qui, che riguardano la
qualità della nostra vita quotidiana, e nei cui
confronti rimaniamo sostanzialmente indifferenti o che
rubrichiamo come “politica estera”, come
non interessanti per noi, in ogni modo come “non
qui”. Nessun fatto misterioso. C’è
una spiegazione e ovviamente un perché. Ma analizzarli
è un dato interessante anche perché dice
che cosa davvero vogliamo per noi.
Prima di tutto il fatto. Domenica 26 febbraio 2006
il “Corriere della sera” pubblica a pagina
12 nella rubrica “il Documento”, con richiamo
in prima pagina, stralci di un lungo saggio dell’economista
indiano e Premio Nobel 1998 per l’economia Amartya
Sen dal titolo “In bagno lei stinge Mr. Sen?”.
Un Nobel e lo scontro di civiltà.
In quel testo Sen pone essenzialmente due ordini di
problemi: il primo concerne la questione del multiculturalismo;
il secondo riguarda il peso e il ruolo che rispetto
al multiculturalismo hanno le appartenenze originarie.
“Occorre distinguere - precisa Sen - tra multiculturalismo
e “pluralità di monoculturalismi”.
E si chiede: “L’esistenza di una diversità
di culture che si passano accanto come navi nella notte,
può considerarsi un caso di multiculturalismo
riuscito? La sua risposta è negativa. “La
difesa del multiculturalismo che spesso si fa in nome
della rivendicazione di una propria autonomia è
solo una difesa di un monoculturalismo plurale”.
In particolare Sen esprime dubbi e perplessità
sulla connessione tra multiculturalismo e appartenenza,
quest’ultima rivendicata come libertà di
scelta. Essere nati in un particolare ambiente sociale
non è un esercizio di libertà culturale,
in quanto non è una scelta. “Al contrario
insiste Sen – la decisione di rimanere all’interno
della tradizione sarebbe un esercizio di libertà
se la scelta fosse fatta prendendo in considerazione
delle alternative”.
Bene fermiamoci qui.
Vorrei fare due osservazioni. Perché questo testo
di Sen una volta deciso che non è inseribile
nella pagina cultura (forse una pagina ancora troppo
selettiva e “per pochi”, in ogni modo ancora
una pagina che “intimorisce” il lettore
medio) è inserito in una pagina di esteri? E
non, per esempio, in una pagina di commenti e analisi
(che pure il “Corriere” ha nella sua foliazione)?
Forse perché parla dell’Inghilterra? Le
considerazioni di Sen, a parte alcuni accenni al dibattito
inglese non sono estendibili a ciascuna realtà
sociale e politica dell’Unione Europea? E’
l’Unione europea politica estera? Se sì,
allora perché scandalizzarsi e protestare per
la questione dell’elettricità francese?
Se invece - come a me sembra più opportuno per
le domande che pone - questo testo riguarda anche noi,
qui, perché non presentarlo magari con una nota
redazionale che inviti a riflettere anche sulla realtà
italiana?
Qui si innesta la seconda osservazione. Sen in fatti
non si limita a porre delle domande su cosa debba intendersi
per multiculturalismo, ma connette questa domanda con
il laicismo, una questione su cui Sen da anni invita
a riflettere contro molto senso comune radicato in Occidente,
sia rispetto al caso indiano (Laicismo indiano,
Feltrinelli 1999), sia rispetto al confronto Oriente/Occidente
(La democrazia degli altri, Mondadori 2004).
Ma connettere multiculturalismo e dimensione laica dell’identità,
ovvero possibilità di scelta (rispetto a appartenenze
e adesioni dalla nascita) implica aprire in Italia,
nella discussione pubblica che oggi noi abbiamo in Italia,
un contenzioso in controtendenza con molto senso comune.
Il multiculturalismo, infatti, se inteso come libertà
di scelta e come esercizio di libertà culturale,
vedrebbe le sue pretese morali e sociali entrare in
crisi se in suo nome (o meglio abusando del suo nome)
si sostenesse l’idea che l’identità
di una persona debba essere definita dalla sua comunità
d’appartenenza o dalla sua religione di nascita,
senza tener conto di tutte le altre affiliazioni a cui
potrebbe appartenere, dando precedenza automatica alla
religione d’origine o alla tradizione. Ovvero
non dando uno spazio alla riflessione e alla scelta.
Non è il caso della situazione italiana dove
il confronto con una società nel difficile passaggio
da realtà percepita e vissuta come uniconfessionale
(più spesso secolarizzata e colpita da progressivo
abbandono cui corrisponde un ritorno militante pur minoritario)
a realtà pluriconfessionale e plurireligiosa
tende a produrre un senso comune d’appartenenza
neocorporativa dove si nasce, si vive, si muore, ma
non si cambia e soprattutto “non si sceglie”.
E tuttavia, non potendo non dichiararci anche multiculturali
si produce una sovrapposizione (più spesso una
confusione) di linguaggi. Così in nome di un
presunto multiculturalismo (necessariamente associato
ad una scelta che è spesso intravista come “tradimento”)
si predispone una sorta d’incerto pluralismo monoculturale.
Il risultato è una realtà che nello stesso
momento in cui celebra la modernità e pensa alla
laicità come un “ferro vecchio” riducendola
spesso alla sua caricatura anticlericale ottocentesca
e dunque, per questo, dichiarandola “superata
nelle cose”, si appresta a costruire un’ideologia
in cui la nazione è intravista come un raggruppamento
d’isole senza comunicazione – e soprattutto
senza ibridazione - dove ai cittadini è assegnato
un posto in segmenti predeterminati.
La questione della laicità, di questa laicità
dei “moderni”, non è un optional
in Inghilterra. Forse da noi lo è, o meglio si
presenta come una questione che non ci riguarda e perciò
come una curiosità da leggere nella pagina degli
Esteri. Ne consegue che è giusto e corretto aver
collocato la riflessione di Sen tra le pagine dei “problemi
del mondo”, e soprattutto “degli altri”.
Forse potevamo anche rubricarla come “note dall’“altro
mondo”. O sarebbe stata una scelta troppo imbarazzante?
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