296 - 24.03.06


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La laicità? Roba
dell’altro mondo.

David Bidussa



Tratto da Secolo XIX del 6 marzo 2006

Alle volte viviamo di strani strabismi o comunque di eccessi.
Nei giorni scorsi la visita del Presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi, negli Stati Uniti è stata vissuta come un fatto di politica interna. Probabilmente lo è, pur rimanendo soprattutto un fatto di politica estera. In ogni caso ci si è spaccati (magari anche con buone motivazioni) su qualcosa che accadeva fisicamente molto lontano da qui.
Ci sono, invece, altri fenomeni e “fatti” che avvengono anche qui, che riguardano la qualità della nostra vita quotidiana, e nei cui confronti rimaniamo sostanzialmente indifferenti o che rubrichiamo come “politica estera”, come non interessanti per noi, in ogni modo come “non qui”. Nessun fatto misterioso. C’è una spiegazione e ovviamente un perché. Ma analizzarli è un dato interessante anche perché dice che cosa davvero vogliamo per noi.

Prima di tutto il fatto. Domenica 26 febbraio 2006 il “Corriere della sera” pubblica a pagina 12 nella rubrica “il Documento”, con richiamo in prima pagina, stralci di un lungo saggio dell’economista indiano e Premio Nobel 1998 per l’economia Amartya Sen dal titolo “In bagno lei stinge Mr. Sen?”. Un Nobel e lo scontro di civiltà.
In quel testo Sen pone essenzialmente due ordini di problemi: il primo concerne la questione del multiculturalismo; il secondo riguarda il peso e il ruolo che rispetto al multiculturalismo hanno le appartenenze originarie.

“Occorre distinguere - precisa Sen - tra multiculturalismo e “pluralità di monoculturalismi”. E si chiede: “L’esistenza di una diversità di culture che si passano accanto come navi nella notte, può considerarsi un caso di multiculturalismo riuscito? La sua risposta è negativa. “La difesa del multiculturalismo che spesso si fa in nome della rivendicazione di una propria autonomia è solo una difesa di un monoculturalismo plurale”.

In particolare Sen esprime dubbi e perplessità sulla connessione tra multiculturalismo e appartenenza, quest’ultima rivendicata come libertà di scelta. Essere nati in un particolare ambiente sociale non è un esercizio di libertà culturale, in quanto non è una scelta. “Al contrario insiste Sen – la decisione di rimanere all’interno della tradizione sarebbe un esercizio di libertà se la scelta fosse fatta prendendo in considerazione delle alternative”.

Bene fermiamoci qui.
Vorrei fare due osservazioni. Perché questo testo di Sen una volta deciso che non è inseribile nella pagina cultura (forse una pagina ancora troppo selettiva e “per pochi”, in ogni modo ancora una pagina che “intimorisce” il lettore medio) è inserito in una pagina di esteri? E non, per esempio, in una pagina di commenti e analisi (che pure il “Corriere” ha nella sua foliazione)? Forse perché parla dell’Inghilterra? Le considerazioni di Sen, a parte alcuni accenni al dibattito inglese non sono estendibili a ciascuna realtà sociale e politica dell’Unione Europea? E’ l’Unione europea politica estera? Se sì, allora perché scandalizzarsi e protestare per la questione dell’elettricità francese? Se invece - come a me sembra più opportuno per le domande che pone - questo testo riguarda anche noi, qui, perché non presentarlo magari con una nota redazionale che inviti a riflettere anche sulla realtà italiana?

Qui si innesta la seconda osservazione. Sen in fatti non si limita a porre delle domande su cosa debba intendersi per multiculturalismo, ma connette questa domanda con il laicismo, una questione su cui Sen da anni invita a riflettere contro molto senso comune radicato in Occidente, sia rispetto al caso indiano (Laicismo indiano, Feltrinelli 1999), sia rispetto al confronto Oriente/Occidente (La democrazia degli altri, Mondadori 2004).
Ma connettere multiculturalismo e dimensione laica dell’identità, ovvero possibilità di scelta (rispetto a appartenenze e adesioni dalla nascita) implica aprire in Italia, nella discussione pubblica che oggi noi abbiamo in Italia, un contenzioso in controtendenza con molto senso comune.

Il multiculturalismo, infatti, se inteso come libertà di scelta e come esercizio di libertà culturale, vedrebbe le sue pretese morali e sociali entrare in crisi se in suo nome (o meglio abusando del suo nome) si sostenesse l’idea che l’identità di una persona debba essere definita dalla sua comunità d’appartenenza o dalla sua religione di nascita, senza tener conto di tutte le altre affiliazioni a cui potrebbe appartenere, dando precedenza automatica alla religione d’origine o alla tradizione. Ovvero non dando uno spazio alla riflessione e alla scelta.

Non è il caso della situazione italiana dove il confronto con una società nel difficile passaggio da realtà percepita e vissuta come uniconfessionale (più spesso secolarizzata e colpita da progressivo abbandono cui corrisponde un ritorno militante pur minoritario) a realtà pluriconfessionale e plurireligiosa tende a produrre un senso comune d’appartenenza neocorporativa dove si nasce, si vive, si muore, ma non si cambia e soprattutto “non si sceglie”.

E tuttavia, non potendo non dichiararci anche multiculturali si produce una sovrapposizione (più spesso una confusione) di linguaggi. Così in nome di un presunto multiculturalismo (necessariamente associato ad una scelta che è spesso intravista come “tradimento”) si predispone una sorta d’incerto pluralismo monoculturale. Il risultato è una realtà che nello stesso momento in cui celebra la modernità e pensa alla laicità come un “ferro vecchio” riducendola spesso alla sua caricatura anticlericale ottocentesca e dunque, per questo, dichiarandola “superata nelle cose”, si appresta a costruire un’ideologia in cui la nazione è intravista come un raggruppamento d’isole senza comunicazione – e soprattutto senza ibridazione - dove ai cittadini è assegnato un posto in segmenti predeterminati.

La questione della laicità, di questa laicità dei “moderni”, non è un optional in Inghilterra. Forse da noi lo è, o meglio si presenta come una questione che non ci riguarda e perciò come una curiosità da leggere nella pagina degli Esteri. Ne consegue che è giusto e corretto aver collocato la riflessione di Sen tra le pagine dei “problemi del mondo”, e soprattutto “degli altri”. Forse potevamo anche rubricarla come “note dall’“altro mondo”. O sarebbe stata una scelta troppo imbarazzante?

 

 

 

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