Iniziata
in sordina mesi fa, la crisi delle caricature di Maometto
è esplosa inaspettata solo nelle ultime settimane.
Rappresentanze diplomatiche scandinave e europee attaccate
e date alle fiamme in alcuni paesi arabo-musulmani,
dichiarazioni oltranziste nei Paesi occidentali da parte
di alcuni politici e intellettuali. Insomma, a dar retta
ai media che l’hanno rappresentata, la crisi delle
caricature non sarebbe nient’altro che l’ennesimo
capitolo della saga dello “scontro di civiltà”.
Ma siamo davvero destinati a questo clash?
Davvero siamo così irriducibili? Sono in molti
a pensare e sperare il contrario, a credere che quello
in corso sia più che altro uno scontro di inciviltà
e ignoranze reciproche.
Ne abbiamo parlato con Rachid Benzine che, considerato
un esponente della nuova generazione intellettuale musulmana,
insegna Ermeneutica del testo coranico alla facoltà
di Scienze politiche di Aix en Provence e ha da poco
dato alle stampe I nuovi pensatori dell’Islam
(pubblicato in Italia da Editrice Pisani).
Le caricature di Maometto hanno innescato la
collera dei musulmani in alcuni paesi. Una reazione
così violenta era prevedibile?
Credo che non si possa comprendere la collera di certi
musulmani - una collera che si è espressa a volte
con la violenza, con il sacco di ambasciate e di rappresentanze
diplomatiche danesi e europee - senza introdurre una
riflessione sul ruolo dell’immagine nella tradizione
musulmana.
Questa considera in effetti tutte le figurazioni di
un essere vivente come il tentativo di mimare il gesto
del Dio Creatore. Contrariamente al cattolicesimo che
vede nell’immagine una mediazione verso il divino,
l’islam, come il protestantesimo o il giudaismo,
è reticente alla rappresentazione pur non avendo
mai pensato questo rifiuto. È un “non-pensato”
di queste tradizioni, che perdura anche in un’epoca
in cui le società sono sempre più modificate
dall’impatto delle immagini. L’assenza della
rappresentazione intende significare i limiti dell’umano
il cui intendimento non è né di contenere,
né di esprimere, né di svuotare totalmente
il divino. In questo senso è una sorta di feticcio.
È quindi molto probabile che la proiezione d’immagini
del Profeta - per di più ridicolizzato - sia
stata vista dai musulmani come una violenza che li ha
spossessati.
La crisi che oggi stiamo conoscendo potrebbe però
rivelarsi feconda, in quanto punta il dito su quell’impensato
aprendo la possibilità per queste tradizioni
religiose di avviare un lavoro etico e teologico sulla
questione della rappresentazione.
Una reazione così violenta non rischia
di legittimare la versione distorta che i caricaturisti
hanno dell’islam?
Sarebbe così qualora si restasse a una visione
molto semplificatrice degli avvenimenti, una visione
che opponesse i difensori intransigenti della libertà
d’espressione ai “devoti intolleranti”
e oscurantisti. La situazione invece è molto
più complessa e per comprenderla bisogna fare
appello tanto ad elementi geopolitici e religiosi che
filosofici ed epistemologici.
Qual è il rapporto tra sacro e violenza
nell’islam di oggi?
Per risponderle mi richiamerò al triangolo antropologico
definito da Mohamed Arkoun, quello fondato sui legami
tra sacro, verità e violenza. Arkoun ricorda
che tutte le società, nel corso del loro sviluppo,
intraprendono dei processi di sacralizzazione che santificano
certi principi, certi valori, certi interdetti che non
si offrono più ad alcuna interrogazione. La libertà
sacralizzata degli uni, che costituisce la loro verità
storica, morale ed etica, si scontra alla figura sacralizzata
di tutti gli altri. A questo punto la difesa intransigente
non si fa senza violenza.
È perché in questa crisi si sono opposti
due dogmatismi intransigenti, la libertà d’espressione
da una parte e il rispetto delle credenze dall’altro,
che ognuno non ha esitato ad usare la violenza, sia
simbolica o reale, per difendere il proprio perimetro
sacro.
In Occidente la libertà d’espressione
è inquadrata dalla legge. Qual è il rapporto
tra legge islamica e libertà d’espressione?
Mi sembra un errore porre la domanda così poiché
la libertà d’espressione, nozione storicamente
recente, non fa parte dell’agenda dell’islam.
Non si possono trasportare nozioni acquisite attraverso
lotte sociali recenti su una religione nata nel settimo
secolo. Al contrario, se la libertà d’espressione
è ancora largamente messa male in molti paesi
detti arabo-musulmani, è perché essa può
rappresentare una parola di contestazione e d’opposizione
che minaccia per l’equilibrio e la legittimità
delle forze al potere. Non bisogna quindi imputare al
fattore religioso la limitazione e l’assenza di
libertà d’espressione in certi paesi.
Sembra di aver visto ancora una volta, in questa
crisi delle caricature, un confronto tra Occidente e
islam, tra libertà d’espressione assoluta
e ortodossia religiosa implacabile: siamo di fronte
al tanto famigerato “scontro di civiltà”?
La maniera in cui le cose sono analizzate e spiegate
tenderebbe effettivamente a portarci all’opposizione
tra due entità culturali, due mondi irrimediabilmente
irriducibili l’un l’altro. Quando uno assume
la libertà d’espressione come diritto fondamentale,
l’altro lo limita nel nome del rispetto delle
credenze. Quando uno, laico o secolarizzato, non s’offende
per le satire anti-religiose, l’altro s’incendia.
Ma pensare così vuol dire mettere di spalle due
universi di senso, vuol dire considerare i due gruppi
di società profondamente separati da una “non-condivisione”
dei “valori fondamentali”. La differenza,
invece, risiede forse “solamente” nel modo
di gerarchizzare i valori della libertà d’espressione
e del rispetto delle credenze religiose.
Bisogna ricordare che le società dette arabo-musulmane
d’oggi non hanno conosciuto gli stessi percorsi
storici del pensiero detto occidentale, in particolar
modo sulla questione del sacro. Esse non possono pensare
- in ogni modo non per il momento - la libertà
d’espressione al di fuori di un quadro che non
preservi la fede e questo tanto più oggi che
la funzione identitaria della fede è stata alimentata
dalle evoluzioni geopolitiche degli ultimi anni.
Si ha la sensazione che siano i dogmatismi
di ogni genere ad approfittare di questo genere di situazioni.
Come permettere alle voci moderate di farsi intendere
in modo che il fossato tra islam e Occidente cessi di
aumentare?
Esiste oggi nel mondo arabo-musulmano un certo numero
di pensatori musulmani che, pur inscrivendosi nella
umma, provano a rileggere il patrimonio tradizionale
classico, che conoscono molto bene, mobilizzando le
metodologie delle scienze umane. Il loro obiettivo non
è di riformare l’islam e ancor meno di
modernizzarlo: la loro sola ambizione è di permettere
nuove letture dell’islam in modo che una modernità
islamica per il momento in divenire, possa alla fine
realizzarsi. Il problema è che l’Occidente
è ansioso di individuare queste voci, che esse
siano religiose o politiche, per far portare loro il
peso dell’emancipazione dei propri popoli dalle
oppressioni ideologiche di ogni genere. Ora, che l’Occidente
sia l’intermediario dei loro lavori o che offra
lo spazio di libertà d’espressione che
manca loro è una cosa salutare, ma che riconosca
in loro i degni discepoli dei “valori occidentali”
ne è un’altra, perniciosa, perché
li taglia definitivamente dai loro compatrioti, che
li considerano a quel punto come seguaci di un Occidente
screditato. Questi pensatori moderati, invece, devono
prima convincere i loro propri compatrioti e bisogna
dunque evitare di metterli in posizioni di rottura di
dialogo con loro.
Qual è la lettura del Corano che legittima
una tale violenza?
Il Corano è il solco d’identità
religiosa dei musulmani. Per i suoi credenti racchiude
la “Parola di Dio”, ipsima verba.
La tradizione musulmana ha progressivamente fissato,
sacralizzandole, tutte le interpretazioni del testo
che poi hanno fondato la giurisprudenza, la filosofia,
la mistica e la teologia musulmane. Questa sacralizzazione
ha condotto ad una impasse e abolito tutta
la distanza critica che è necessaria per affrontare
con strumenti più appropriati un tale testo.
È per questo che ci si ritrova oggi con degli
approcci fondamentalisti del Corano, approcci che limitano
la capacità d’interpretazione a profitto
di una lettura essenzialista e letteralista che può
condurre alla violenza in nome di una verità
ricevuta come sacra. Questo è tanto più
vero oggi che i musulmani, nel contesto geopolitico
attuale, hanno la sensazione d’essere al margine
della storia, del progresso, e usano l’islam come
un forte vettore identitario.
Lei sostiene la necessità di leggere
il Corano con gli strumenti delle scienze umane, in
modo da “modernizzare” l’interpretazione
del testo sacro. Quali sono per lei le condizioni necessarie
a svolgere questa operazione?
Preciso che per me non si tratta d’arrivare a
una lettura moderna, né a una lettura riformista
del Corano. Dire “riformare” o “modernizzare”
vuol dire cadere in una trappola del linguaggio in quanto
sembra che si voglia ingiungere alla tradizione musulmana
di conformarsi a un certo numero di caratteristiche
della modernità. Quando si dice “riformare”
o “modernizzare” l’islam, si presuppone
che ci sia un modello positivo al quale l’islam
debba allinearsi. Questo stesso modello, peraltro, è
il frutto di un’evoluzione epistemologica e di
un’attitudine intellettuale che ne hanno preparato
la realizzazione. Ora, quando si dice all’islam
di riformarsi, si considera la riforma come un obiettivo
mentre essa non è che una conseguenza possibile
dello sviluppo intellettuale di una società a
un momento dato. Mi sembra quindi semplicemente che
il pensiero musulmano debba oggi aprirsi a nuove interrogazioni
che gli permettano di riscoprirsi in altro modo e di
trovare i suoi strumenti di dialogo con tutte le modernità.
Il rinnovamento dell’approccio ermeneutico al
Corano deve basarsi su un dialogo con i metodi che la
ragione critica ci offre e che sono altrettante vie
verso un pensiero critico operativo. L’approccio
storico, le analisi letterarie, sono strumenti esegetici
dimenticati dalla tradizione musulmana a profitto della
trasmissione di formule semplificate depositate nella
coscienza musulmana collettiva. Bisogna, oggi, sottomettere
queste concezioni a uno sguardo critico che permetta
al pensiero musulmano d’arricchire le sue concezioni
religiose grazie a interpretazioni infinite e rinnovate.
È a questo che lavoro.
Che fare, secondo lei, per intrecciare il dialogo
e la pace?
Perché l’uscita da questa crisi sia feconda,
bisogna riflettere insieme per costruire un nuovo linguaggio
comune, che tenga conto di tutti i “non-pensati”
delle nostre società. Oggi i concetti hanno mostrato
i loro limiti a farsi carico e a teorizzare i cambiamenti,
e quindi a scongiurare le paure che questi ispirano.
La realtà sociale si ritrova interamente riconfigurata
da dei discorsi, principalmente mediatici, che erigono
i soggetti in categorie essenzializzate. Persistere
nell’ignorare gli immaginari e i sistemi di percezione
che condizionano le attitudini dei soggetti, vuol dire
continuare a nutrire la visione che il dialogo col mondo
musulmano è al meglio difficile o al peggio impossibile.
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