294 - 17.02.06


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Una pericolosa
impennata religiosa

Ali Rashid con
Mauro Buonocore



“Il tempo purtroppo non è galantuomo – dice Ali Rashid parlando della sua Palestina – ma spero che il buon senso prevalga”. Parole amare che si aprono alla speranza dal primo segretario della delegazione dell’Anp in Italia, l’uomo politico che, formatosi tra le file di al Fatah, racconta la sconfitta del suo partito, ma soprattutto parla di un Medio Oriente che vede le forze politiche religiose alzare la testa e crescere nei voti. Come Hamas, come i Fratelli Mussulmani in Egitto, come il partito islamico iraniano. E allora il buon senso, secondo Rashid, segna la via per fare in modo che i palestinesi che hanno votato Hamas ci ripensino, ma è una strada che richiede l’impegno di Israele e della comunità internazionale a “far rispettare il diritto internazionale che parla di uno stato Palestinese entro i confini stabiliti dall’accordo di Oslo del ’93” l’alternativa, pericolosa, è fatta di un Occidente democratico e minaccioso che con la sua intransigenza rischia di “compattare sciiti e sunniti contro il comune nemico americano”.

Perché i palestinesi hanno scelto Hamas?

I motivi sono tanti e diversi. Innanzitutto non tutti quelli che hanno votato Hamas ne condividono la strategia politica; si è trattato in molti casi di un voto di protesta, diretto soprattutto contro l’Anp la cui gestione di quel poco potere che ha avuto non ha soddisfatto gli elettori.
Un’altra protesta emersa dalla scelta elettorale, era diretta contro la politica israeliana che, a più di dieci anni dagli accordi di Oslo, non ha dato alcun risultato positivo: l’occupazione continua e la situazione economica va peggiorando.
Un’altra protesta espressa dal voto era, poi, diretta contro la comunità internazionale che non ha fatto nulla per indurre Israele a rispettare il diritto e la legalità internazionale. L’accordo di Oslo prevede due cose: il ritiro di Israele dai territori occupati dopo la guerra del ’67, compresa quindi Gerusalemme, e la creazione di uno stato palestinese sovrano su questi territori. Il tutto sarebbe dovuto avvenire entro cinque anni dalla firma dell’accordo, eravamo nel ’93 e fino a oggi non si è realizzato nulla di questo.

Come possiamo descrivere il movimento politico di Hamas?

È un movimento che ha fatto uso del terrorismo, è vero, ma non si può liquidare semplicemente come un gruppo di terroristi. È un movimento che chiede la fine dell’occupazione dei territori palestinesi, una forza politica con un’anima popolare, radicata sul territorio, e che ha offerto ai palestinesi alcuni servizi fondamentali che l’Anp non era in grado di fornire, come sanità educazione e lavoro. Io non appartengo alla cultura di Hamas, vengo da un’altra esperienza, faccio parte della parte che è stata sconfitta alle ultime elezioni, però devo ammettere che Fatah ha dimostrato tutta la sua inefficienza e ha imboccato una strada che non porta a nulla.

Da movimento leader dell’Anp, Fatah è entrato in un momento di crisi. Come si spiega questa evoluzione negativa e dove arriverà?

Fatah non è riuscito a dare al popolo palestinese i servizi di cui aveva bisogno perché non aveva fondi sufficienti e poi c’è stata una gestione pessima e per niente trasparente. Si può dire che sia successo ad al Fatah quello che nella storia è successo a molte forze politiche che per lunghi anni hanno svolto un ruolo di guida. In questi casi riuscire a portare a termine una riforma concreta è difficile e richiede tempi lunghi perché è il frutto di un accumulo di sbagli e di un mancato rinnovamento che si aspetta da tempo. Ma non è una situazione che riguarda solo Fatah, vi è coinvolto tutto il movimento laico palestinese, anche la sinistra più radicale. In Medio Oriente oggi assistiamo alla crescita di movimenti politici molto lontani dalle tendenze più laiche e progressiste; in Israele come in Palestina e in tutto il mondo arabo, c’è un’ondata di forze politiche di matrice religiosa, ebraiche in Israele e islamiche nei paesi mussulmani, che nasce e cresce a causa del fallimento della politica.

Le difficoltà di Fatah rientrano quindi in una generale crisi politica del Medio Oriente?

Sì, e per trovarne le cause possiamo isolare diversi elementi.
Lo scontro israelo-palestinese per primo. Israele si autodefinisce come stato ebraico in Medio Oriente; cosa vedono gli occhi di un palestinese? Vedono persone accolte con pieni diritti nella democrazia israeliana per il solo fatto di essere ebrei; e poi vedono i palestinesi – che non hanno altre patrie nel mondo, che sono nati in quella terra e ci vivono da generazioni – privati dei loro diritti, delle loro case, delle loro libertà, delle loro terre.
Questa situazione condiziona le risposte che danno i palestinesi, le loro scelte. Da parte nostra, Fatah ha cercato di condurre la nostra lotta di liberazione nazionale su basin laiche e progressiste, riconoscendo la legalità e il diritto internazionali, abiiamo probabilmente commesso degli sbagli ma il quadro generale che ci ispirava era questo.
Secondo elemento: la repressione. Spesso nel mondo arabo il movimento progressista e democratico è stato represso nel sangue da regimi che per la maggior parte sono sostenuti dall’Occidente e dagli Stati Uniti. In mancanza di spazi di libertà democratica, tra un dittatore e Allah, la gente sceglie la religione perché non ci sono alternative valide. Così possiamo spiegare l’ascesa di forze islamiste in Egitto, in Giordania, in Iraq e in Iran.

Terzo elemento: la guerra in Iraq. Gli americani avevano individuato l’Islam come il nemico principale producendo così una devastazione politica e culturale; in un simile clima la gente crede sempre meno nella democrazia, o nella democrazia che vorrebbe esportare l’America in Medio Oriente.
Credo quindi che Hamas, insieme all’avanzata di tutte le forze politiche religiose, è il prodotto di un degrado e della risposta semplicistica che dal degrado si genera.

E Hamas ha una maggioranza molto ampia nell’Anp. Perché sta cercando un accordo di governo con Fatah se ha i numeri per governare da solo?

Hamas non è un partito di fanatici ignoranti che non sanno quello che vogliono. Sanno bene che la situazione è difficile, e propongono un governo di coalizione a tutte le forze politiche, non solo a Fatah, cercano di formare un governo di unità nazionale per evitare scontri interni, compattare la politica palestinese verso obiettivi e programmi comuni e scongiurare fratture interne.

Lei ha scritto in un recente articolo che il processo di pace in Medio Oriente è finito con la morte di Rabin. Ora, con la vittoria di Hamas, quale novità può affacciarsi alla situazione israelo-palestinese?

Credo che la vittoria di Hamas dovrebbe portare tutti a fare un esame di coscienza. Negli ultimi anni di trattative non si è ottenuto nulla e Israele ha sempre assunto la posizione di chi fa concessioni, non di chi trova un accordo. Così non può proprio andare, non vogliamo certo dettare le condizioni del dialogo, ma vogliamo vedere con chiarezza su che terreno camminano le trattative e dove vogliono arrivare. Tutti dicono di volere la pace; bene. Ma cosa significa “la pace”? Fine dell’occupazione israeliana dai Territori occupati, il riconoscimento di due stati per due popoli, ma entro i confini esistenti prima del ’67, parlare di due stati non basta.
La comunità internazionale deve capire che al momento il processo di pace è diventato una farsa.

Secondo lei cosa succederà adesso?

Credo che il ricatto di Usa e Ue che minacciano di tagliare gli aiuti economici alla Palestina non faccia altro che contribuire a una ulteriore destabilizzazione della situazione. E credo che la comunità internazionale non abbia nessun interesse a far crescere la tensione. Le politiche sbagliate in Iraq e in Palestina hanno aumentato e rinvigorito il terrorismo, hanno dato una forte mano a questa ondata di islamizzazione della società e della politica. Se compiranno con Hamas lo stesso errore che stanno compiendo in Iraq, rischiano di unire il mondo sunnita e sciita insieme contro il “nemico americano” e allora addio democrazia e libertà.


 

 

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