“Il
tempo purtroppo non è galantuomo – dice
Ali Rashid parlando della sua Palestina – ma spero
che il buon senso prevalga”. Parole amare che
si aprono alla speranza dal primo segretario della delegazione
dell’Anp in Italia, l’uomo politico che,
formatosi tra le file di al Fatah, racconta la sconfitta
del suo partito, ma soprattutto parla di un Medio Oriente
che vede le forze politiche religiose alzare la testa
e crescere nei voti. Come Hamas, come i Fratelli Mussulmani
in Egitto, come il partito islamico iraniano. E allora
il buon senso, secondo Rashid, segna la via per fare
in modo che i palestinesi che hanno votato Hamas ci
ripensino, ma è una strada che richiede l’impegno
di Israele e della comunità internazionale a
“far rispettare il diritto internazionale che
parla di uno stato Palestinese entro i confini stabiliti
dall’accordo di Oslo del ’93” l’alternativa,
pericolosa, è fatta di un Occidente democratico
e minaccioso che con la sua intransigenza rischia di
“compattare sciiti e sunniti contro il comune
nemico americano”.
Perché i palestinesi hanno scelto Hamas?
I motivi sono tanti e diversi. Innanzitutto non tutti
quelli che hanno votato Hamas ne condividono la strategia
politica; si è trattato in molti casi di un voto
di protesta, diretto soprattutto contro l’Anp
la cui gestione di quel poco potere che ha avuto non
ha soddisfatto gli elettori.
Un’altra protesta emersa dalla scelta elettorale,
era diretta contro la politica israeliana che, a più
di dieci anni dagli accordi di Oslo, non ha dato alcun
risultato positivo: l’occupazione continua e la
situazione economica va peggiorando.
Un’altra protesta espressa dal voto era, poi,
diretta contro la comunità internazionale che
non ha fatto nulla per indurre Israele a rispettare
il diritto e la legalità internazionale. L’accordo
di Oslo prevede due cose: il ritiro di Israele dai territori
occupati dopo la guerra del ’67, compresa quindi
Gerusalemme, e la creazione di uno stato palestinese
sovrano su questi territori. Il tutto sarebbe dovuto
avvenire entro cinque anni dalla firma dell’accordo,
eravamo nel ’93 e fino a oggi non si è
realizzato nulla di questo.
Come possiamo descrivere il movimento politico
di Hamas?
È un movimento che ha fatto uso del terrorismo,
è vero, ma non si può liquidare semplicemente
come un gruppo di terroristi. È un movimento
che chiede la fine dell’occupazione dei territori
palestinesi, una forza politica con un’anima popolare,
radicata sul territorio, e che ha offerto ai palestinesi
alcuni servizi fondamentali che l’Anp non era
in grado di fornire, come sanità educazione e
lavoro. Io non appartengo alla cultura di Hamas, vengo
da un’altra esperienza, faccio parte della parte
che è stata sconfitta alle ultime elezioni, però
devo ammettere che Fatah ha dimostrato tutta la sua
inefficienza e ha imboccato una strada che non porta
a nulla.
Da movimento leader dell’Anp, Fatah è
entrato in un momento di crisi. Come si spiega questa
evoluzione negativa e dove arriverà?
Fatah non è riuscito a dare al popolo palestinese
i servizi di cui aveva bisogno perché non aveva
fondi sufficienti e poi c’è stata una gestione
pessima e per niente trasparente. Si può dire
che sia successo ad al Fatah quello che nella storia
è successo a molte forze politiche che per lunghi
anni hanno svolto un ruolo di guida. In questi casi
riuscire a portare a termine una riforma concreta è
difficile e richiede tempi lunghi perché è
il frutto di un accumulo di sbagli e di un mancato rinnovamento
che si aspetta da tempo. Ma non è una situazione
che riguarda solo Fatah, vi è coinvolto tutto
il movimento laico palestinese, anche la sinistra più
radicale. In Medio Oriente oggi assistiamo alla crescita
di movimenti politici molto lontani dalle tendenze più
laiche e progressiste; in Israele come in Palestina
e in tutto il mondo arabo, c’è un’ondata
di forze politiche di matrice religiosa, ebraiche in
Israele e islamiche nei paesi mussulmani, che nasce
e cresce a causa del fallimento della politica.
Le difficoltà di Fatah rientrano quindi
in una generale crisi politica del Medio Oriente?
Sì, e per trovarne le cause possiamo isolare
diversi elementi.
Lo scontro israelo-palestinese per primo. Israele si
autodefinisce come stato ebraico in Medio Oriente; cosa
vedono gli occhi di un palestinese? Vedono persone accolte
con pieni diritti nella democrazia israeliana per il
solo fatto di essere ebrei; e poi vedono i palestinesi
– che non hanno altre patrie nel mondo, che sono
nati in quella terra e ci vivono da generazioni –
privati dei loro diritti, delle loro case, delle loro
libertà, delle loro terre.
Questa situazione condiziona le risposte che danno i
palestinesi, le loro scelte. Da parte nostra, Fatah
ha cercato di condurre la nostra lotta di liberazione
nazionale su basin laiche e progressiste, riconoscendo
la legalità e il diritto internazionali, abiiamo
probabilmente commesso degli sbagli ma il quadro generale
che ci ispirava era questo.
Secondo elemento: la repressione. Spesso nel mondo arabo
il movimento progressista e democratico è stato
represso nel sangue da regimi che per la maggior parte
sono sostenuti dall’Occidente e dagli Stati Uniti.
In mancanza di spazi di libertà democratica,
tra un dittatore e Allah, la gente sceglie la religione
perché non ci sono alternative valide. Così
possiamo spiegare l’ascesa di forze islamiste
in Egitto, in Giordania, in Iraq e in Iran.
Terzo elemento: la guerra in Iraq. Gli americani avevano
individuato l’Islam come il nemico principale
producendo così una devastazione politica e culturale;
in un simile clima la gente crede sempre meno nella
democrazia, o nella democrazia che vorrebbe esportare
l’America in Medio Oriente.
Credo quindi che Hamas, insieme all’avanzata di
tutte le forze politiche religiose, è il prodotto
di un degrado e della risposta semplicistica che dal
degrado si genera.
E Hamas ha una maggioranza molto ampia nell’Anp.
Perché sta cercando un accordo di governo con
Fatah se ha i numeri per governare da solo?
Hamas non è un partito di fanatici ignoranti
che non sanno quello che vogliono. Sanno bene che la
situazione è difficile, e propongono un governo
di coalizione a tutte le forze politiche, non solo a
Fatah, cercano di formare un governo di unità
nazionale per evitare scontri interni, compattare la
politica palestinese verso obiettivi e programmi comuni
e scongiurare fratture interne.
Lei ha scritto in un recente articolo che il
processo di pace in Medio Oriente è finito con
la morte di Rabin. Ora, con la vittoria di Hamas, quale
novità può affacciarsi alla situazione
israelo-palestinese?
Credo che la vittoria di Hamas dovrebbe portare tutti
a fare un esame di coscienza. Negli ultimi anni di trattative
non si è ottenuto nulla e Israele ha sempre assunto
la posizione di chi fa concessioni, non di chi trova
un accordo. Così non può proprio andare,
non vogliamo certo dettare le condizioni del dialogo,
ma vogliamo vedere con chiarezza su che terreno camminano
le trattative e dove vogliono arrivare. Tutti dicono
di volere la pace; bene. Ma cosa significa “la
pace”? Fine dell’occupazione israeliana
dai Territori occupati, il riconoscimento di due stati
per due popoli, ma entro i confini esistenti prima del
’67, parlare di due stati non basta.
La comunità internazionale deve capire che al
momento il processo di pace è diventato una farsa.
Secondo lei cosa succederà adesso?
Credo che il ricatto di Usa e Ue che minacciano di
tagliare gli aiuti economici alla Palestina non faccia
altro che contribuire a una ulteriore destabilizzazione
della situazione. E credo che la comunità internazionale
non abbia nessun interesse a far crescere la tensione.
Le politiche sbagliate in Iraq e in Palestina hanno
aumentato e rinvigorito il terrorismo, hanno dato una
forte mano a questa ondata di islamizzazione della società
e della politica. Se compiranno con Hamas lo stesso
errore che stanno compiendo in Iraq, rischiano di unire
il mondo sunnita e sciita insieme contro il “nemico
americano” e allora addio democrazia e libertà.
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