294 - 17.02.06


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Chi mina la pace
In Medio Oriente?

Neve Gordon



Sebbene non sia ancora chiaro cosa il futuro riservi a israeliani e palestinesi, si può dire qualcosa sui processi che hanno reso possibile la grande vittoria di Hamas nelle elezioni democratiche del 25 gennaio e su come il trionfo di questa organizzazione influirà, con ogni probabilità, sulla locale arena politica.

Fondato a Gaza dallo sceicco Ahmad Yassin all’inizio della prima Intifada (dicembre 1987), Hamas è una derivazione diretta dei Fratelli Musulmani. Benché i media tendano a identificarla con il suo braccio armato, Izzeddin al-Qassam, tristemente noto per gli attacchi suicidi contro obiettivi israeliani, in realtà la popolarità dell’organizzazione nei Territori occupati deriva dal fatto che essa viene considerata la voce della dignità palestinese e il simbolo della difesa dei diritti palestinesi in un momento di difficoltà, umiliazione e disperazione senza precedenti.

Le persone che hanno votato per Hamas rimarcano non solo gli atti eroici dei suoi combattenti, ma anche la sua reputazione di condotta pulita, ritegno e onestà che significativamente è stata confrontata con la corruzione dell’Autorità Palestinese. Molti dei seguaci di Hamas non approvano il fondamentalismo religioso, ma piuttosto sostengono l’organizzazione per via del suo approccio pragmatico caratterizzato dal sostegno all’obiettivo di breve termine di creare uno Stato palestinese comprendente Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est, pur conservando ancora l’obiettivo di lungo termine di istituire uno Stato islamico al posto di Israele che offra una soluzione al problema dei rifugiati palestinesi.

Cosa più importante, forse, Hamas ha acquisito molto del credito politico attraverso le proprie reti di servizi sociali e assistenziali. Ha fatto costruire asili e scuole (che offrono pasti gratuiti ai bambini), centri di istruzione per le donne e club giovanili e sportivi. Le sue cliniche mediche offrono ai malati trattamenti sovvenzionati, e l’organizzazione estende l’assistenza economica e tecnica a coloro le cui abitazioni sono state demolite come pure ai profughi che vivono in condizioni di povertà.

In altre parole, Hamas è stato eletto non solo perché considerata un’alternativa all’Autorità Palestinese corrotta, ma anche perché Israele ha creato le condizioni che ne hanno fatto un movimento sociale indispensabile. Secondo le Nazioni Unite, nel 2005 il tasso di povertà – rappresentato da coloro che vivono con meno di 2,20 dollari al giorno – è salito al 64% nei Territori occupati. Persino questa stima è comunque imprecisa, considerando che la metà di questo 64% - ovvero circa 1,2 milioni di palestinesi – non vive con 2,20 dollari ma con 1,60 dollari al giorno o meno.

Un impoverimento di queste proporzioni ha prodotto un aumento della popolazione che necessita di assistenza anche solo per sopravvivere, ovvero, come ha dichiarato un membro di un’organizzazione assistenziale islamica, negli ultimi anni “sono sorti nuovi tipi di necessità, che hanno accresciuto il numero di coloro che hanno bisogno di assistenza e hanno diversificato i gruppi sociali che la richiedono”. Questi nuovi gruppi comprendono proprietari terrieri, commercianti e coloro le cui abitazioni sono state demolite dai bulldozer israeliani; in altre parole, non si tratta solo dei tipici poveri.

Man mano che Israele distruggeva le infrastrutture esistenti nei Territori, generava anche un vuoto istituzionale colpendo l’Autorità Palestinese. Hamas ha tratto vantaggio da questi tremendi sviluppi e li ha sfruttati come opportunità per promuovere la propria agenda. L’organizzazione ha adottato la politica di fornire assistenza sulla base della necessità socio-economica piuttosto che in base a criteri religiosi o politici, tanto che le famiglie in difficoltà economica non hanno bisogno di appartenere ad Hamas e neppure di essere costituite da musulmani praticanti per qualificarsi a ottenere l’aiuto. Rapidamente, nei Territori occupati, le istituzioni assistenziali di Hamas sono divenute il secondo maggior donatore di cibo dopo l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Assistenza e il Lavoro. Come aveva già sottolineato due anni prima delle elezioni il presidente di un’associazione assistenziale islamica: “L’espandersi della povertà ha aumentato enormemente la pressione sulla nostra organizzazione, perché stiamo ricevendo molte più richieste di prima”.

Nel suo rapporto su Hamas, l’International Crisis Group conclude che sebbene sia impossibile misurare l’impatto dell’opera assistenziale di Hamas sulla sua popolarità, l’immagine positiva dell’organizzazione è significativamente collegata all’efficienza dei suoi servizi sociali, in particolare quando paragonata all’inefficienza dell’Autorità Palestinese. Benché questo sia sicuramente un dato di fatto, le conclusioni del Crisis Group confondono i sintomi con le cause. La questione non è se le sue organizzazioni di welfare sociale abbiano aiutato Hamas a raccogliere il sostegno popolare, ma piuttosto perché la rete assistenziale di Hamas sia così ben riuscita. In effetti, la tesi secondo cui la popolarità di Hamas è il risultato della sua rete di welfare sociale nasconde il fatto che Israele ha prodotto una situazione in cui esiste un disperato bisogno di istituzioni assistenziali. Ne consegue che gli sforzi fatti da Israele per indebolire l’Autorità Palestinese, assieme al suo successo nel distruggere le infrastrutture esistenti nei Territori occupati, non solo hanno reso miserabile la vita dei palestinesi, ma hanno anche rafforzato Hamas, l’avversario più letale dello Stato israeliano.

Ma adesso che Hamas ha vinto le elezioni, cosa c’è in serbo per quelli di noi che vivono in questo angolo del mondo? Hamas è pronto negoziare un accordo sulla base di un hudnah (una tregua temporanea). Come evidenzia Azzam Tamimi, direttore dell’Istituto del Pensiero Politico Islamico, Hamas ritiene, come la maggioranza dei palestinesi, che Israele sia stato costruito su terra sottratta al popolo palestinese. “La creazione dello Stato israeliano era una soluzione a un problema europeo e i palestinesi non sono affatto obbligati a fare da capro espiatorio per l’incapacità dell’Europa di riconoscere che gli ebrei sono esseri umani con diritti inalienabili. Hamas, come tutti i palestinesi, rifiuta di pagare per i criminali che perpetrarono l’Olocausto. Comunque, Israele è una realtà e questo è il motivo per cui Hamas è disponibile a trattare con quella realtà in una maniera che sia compatibile con i propri principi.”

La vittoria di Hamas sembra introdurre una nuova dimensione nel conflitto israelo-palestinese. Se il conflitto è sorto inizialmente come scontro nazionale tra due popoli che combattevano per lo stesso pezzo di terra, man mano che sono trascorsi gli anni è andata guadagnando terreno un’ideologia messianica ebraica che crede nel riscatto della terra biblica di Israele. Così, il campo sionista ha portato un elemento fondamentalista nella disputa nazional-territoriale, introducendo una forte tensione teologica nel fervore nazionalista. Il trionfo di Hamas può essere considerato come l’introduzione della dimensione religiosa nella fazione palestinese, rafforzando così i caratteri fondamentalisti del conflitto. Sotto molti aspetti, lo scontro nazionale sul territorio si va trasformando in una battaglia religiosa tra ebrei e musulmani. Se la spinta pragmatica di Hamas non prevarrà su quella religiosa, allora ci incammineremo verso giorni sanguinosi semplicemente perché raggiungere una qualche soluzione politica tra le due parti sarà molto più difficile.

Senza dubbio l’insorgere di un fondamentalismo globale avrà effetti anche sulla società palestinese. Il numero due di Hamas, Muhammad Abu Tir, ha già proposto di cambiare il sistema scolastico palestinese: ragazze e ragazzi non studieranno più assieme e verrà introdotto un curriculum più islamico. Abu Tir ha aggiunto che il primo atto del neo-eletto Consiglio Legislativo palestinese introdurrà la sharia (la legge islamica) come fonte legislativa. Dichiarazioni come queste non promettono bene per il prossimo futuro.

Ci si potrebbe chiedere come la comunità internazionale debba rispondere alla vittoria di Hamas. Ehud Olmert, facente funzione di Primo Ministro israeliano, ha chiesto ai leader internazionali di boicottare la nuova autorità palestinese se questa non soddisferà tre condizioni: il disarmo di Izzeddin al-Qassam e di altri gruppi paramilitari; l’annullamento della carta di Hamas che sostiene la distruzione di Israele; e l’accettazione dei concordati e degli obblighi che l’Autorità Palestinese si è assunta quando il partito di Fatah era al potere. Sebbene le prime due condizioni poste da Olmert possano facilmente entrare a far parte di futuri negoziati piuttosto che essere una condizione per negoziare, la sua terza richiesta mette Israele in uno spinoso pasticcio. Dopotutto, negli ultimi tre anni è stato Israele – non i palestinesi – a utilizzare la barriera di separazione per attuare un piano unilaterale che contravviene a tutti gli accordi precedenti. Così, stando alla logica di Olmert, per poter rimanere coerente la comunità internazionale dovrebbe boicottare Israele.

Sebbene il quartetto Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione Europea e Russia abbia deciso di non adottare immediatamente le richieste di Olmert, ha avvertito che se Hamas rifiuterà di abbandonare le violenze, riconoscere Israele e abbracciare la road map diplomatica per la pace, taglierà gli aiuti esteri. Questa minaccia deve essere presa sul serio, dal momento che i dati suggeriscono che se i leader mondiali decideranno di tagliare gli aiuti economici ai Territori occupati, l’umanità assisterà a una catastrofe sociale. Come menzionato in precedenza, oggi il 64% della popolazione palestinese vive al di sotto della soglia internazionale di povertà di 2,20 $ al giorno, e allo stesso tempo la Banca Mondiale denuncia che la malnutrizione acuta affligge il 9% dei bambini palestinesi. Tenendo conto del fatto che gli aiuti finanziari ammontano a quasi un terzo del reddito lordo nazionale pro capite in Cisgiordania e a Gaza, la decisione di tagliarli equivarrebbe a fare un esperimento sulla carestia.

Olmert vuole davvero che la popolazione che vive sotto l’occupazione di Israele soffra la fame? La comunità internazionale è disposta ad assumersi una tale responsabilità? Domande come queste portano direttamente alla questione più cruciale, che è stata spesso trascurata nella recente discussione riguardo l’ascesa al potere di Hamas. Nonostante il carattere minaccioso della vittoria di Hamas, in questo conflitto Israele continua a essere la parte più forte: è l’occupante e l’oppressore, non la vittima. Israele non è disposto a ritirarsi all’interno dei confini del 1967 o a offrire una soluzione equa al problema dei rifugiati palestinesi, come richiesto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite 194, 242 e 381. E, infine, è stato Israele a compiere mosse unilaterali in diretta violazione della road map e di ogni altra soluzione fondata sul dialogo e sulla comprensione reciproca.

Hamas, come suggerisce Azzam Tamimi, sottolinea la violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite da parte di Israele ed è disposto a imbarcarsi in un processo di pace a patto che Israele rinunci a considerarsi l’unica vittima e riconosca che anche i palestinesi sono vittime e lo sono state fin dall’istituzione dello Stato israeliano. Tutto ciò solleva serie domande su chi, a questo punto, stia davvero minando la possibilità di raggiungere la pace in Medioriente.

Traduzione di Martina Toti


 

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