Sebbene non
sia ancora chiaro cosa il futuro riservi a israeliani
e palestinesi, si può dire qualcosa sui processi
che hanno reso possibile la grande vittoria di Hamas
nelle elezioni democratiche del 25 gennaio e su come
il trionfo di questa organizzazione influirà,
con ogni probabilità, sulla locale arena politica.
Fondato a Gaza dallo sceicco Ahmad Yassin all’inizio
della prima Intifada (dicembre 1987), Hamas
è una derivazione diretta dei Fratelli Musulmani.
Benché i media tendano a identificarla con il
suo braccio armato, Izzeddin al-Qassam, tristemente
noto per gli attacchi suicidi contro obiettivi israeliani,
in realtà la popolarità dell’organizzazione
nei Territori occupati deriva dal fatto che essa viene
considerata la voce della dignità palestinese
e il simbolo della difesa dei diritti palestinesi in
un momento di difficoltà, umiliazione e disperazione
senza precedenti.
Le persone che hanno votato per Hamas rimarcano non
solo gli atti eroici dei suoi combattenti, ma anche
la sua reputazione di condotta pulita, ritegno e onestà
che significativamente è stata confrontata con
la corruzione dell’Autorità Palestinese.
Molti dei seguaci di Hamas non approvano il fondamentalismo
religioso, ma piuttosto sostengono l’organizzazione
per via del suo approccio pragmatico caratterizzato
dal sostegno all’obiettivo di breve termine di
creare uno Stato palestinese comprendente Cisgiordania,
Striscia di Gaza e Gerusalemme Est, pur conservando
ancora l’obiettivo di lungo termine di istituire
uno Stato islamico al posto di Israele che offra una
soluzione al problema dei rifugiati palestinesi.
Cosa più importante, forse, Hamas ha acquisito
molto del credito politico attraverso le proprie reti
di servizi sociali e assistenziali. Ha fatto costruire
asili e scuole (che offrono pasti gratuiti ai bambini),
centri di istruzione per le donne e club giovanili e
sportivi. Le sue cliniche mediche offrono ai malati
trattamenti sovvenzionati, e l’organizzazione
estende l’assistenza economica e tecnica a coloro
le cui abitazioni sono state demolite come pure ai profughi
che vivono in condizioni di povertà.
In altre parole, Hamas è stato eletto non solo
perché considerata un’alternativa all’Autorità
Palestinese corrotta, ma anche perché Israele
ha creato le condizioni che ne hanno fatto un movimento
sociale indispensabile. Secondo le Nazioni Unite, nel
2005 il tasso di povertà – rappresentato
da coloro che vivono con meno di 2,20 dollari al giorno
– è salito al 64% nei Territori occupati.
Persino questa stima è comunque imprecisa, considerando
che la metà di questo 64% - ovvero circa 1,2
milioni di palestinesi – non vive con 2,20 dollari
ma con 1,60 dollari al giorno o meno.
Un impoverimento di queste proporzioni ha prodotto
un aumento della popolazione che necessita di assistenza
anche solo per sopravvivere, ovvero, come ha dichiarato
un membro di un’organizzazione assistenziale islamica,
negli ultimi anni “sono sorti nuovi tipi di necessità,
che hanno accresciuto il numero di coloro che hanno
bisogno di assistenza e hanno diversificato i gruppi
sociali che la richiedono”. Questi nuovi gruppi
comprendono proprietari terrieri, commercianti e coloro
le cui abitazioni sono state demolite dai bulldozer
israeliani; in altre parole, non si tratta solo dei
tipici poveri.
Man mano che Israele distruggeva le infrastrutture
esistenti nei Territori, generava anche un vuoto istituzionale
colpendo l’Autorità Palestinese. Hamas
ha tratto vantaggio da questi tremendi sviluppi e li
ha sfruttati come opportunità per promuovere
la propria agenda. L’organizzazione ha adottato
la politica di fornire assistenza sulla base della necessità
socio-economica piuttosto che in base a criteri religiosi
o politici, tanto che le famiglie in difficoltà
economica non hanno bisogno di appartenere ad Hamas
e neppure di essere costituite da musulmani praticanti
per qualificarsi a ottenere l’aiuto. Rapidamente,
nei Territori occupati, le istituzioni assistenziali
di Hamas sono divenute il secondo maggior donatore di
cibo dopo l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Assistenza
e il Lavoro. Come aveva già sottolineato due
anni prima delle elezioni il presidente di un’associazione
assistenziale islamica: “L’espandersi della
povertà ha aumentato enormemente la pressione
sulla nostra organizzazione, perché stiamo ricevendo
molte più richieste di prima”.
Nel suo rapporto su Hamas, l’International Crisis
Group conclude che sebbene sia impossibile misurare
l’impatto dell’opera assistenziale di Hamas
sulla sua popolarità, l’immagine positiva
dell’organizzazione è significativamente
collegata all’efficienza dei suoi servizi sociali,
in particolare quando paragonata all’inefficienza
dell’Autorità Palestinese. Benché
questo sia sicuramente un dato di fatto, le conclusioni
del Crisis Group confondono i sintomi con le cause.
La questione non è se le sue organizzazioni di
welfare sociale abbiano aiutato Hamas a raccogliere
il sostegno popolare, ma piuttosto perché la
rete assistenziale di Hamas sia così ben riuscita.
In effetti, la tesi secondo cui la popolarità
di Hamas è il risultato della sua rete di welfare
sociale nasconde il fatto che Israele ha prodotto una
situazione in cui esiste un disperato bisogno di istituzioni
assistenziali. Ne consegue che gli sforzi fatti da Israele
per indebolire l’Autorità Palestinese,
assieme al suo successo nel distruggere le infrastrutture
esistenti nei Territori occupati, non solo hanno reso
miserabile la vita dei palestinesi, ma hanno anche rafforzato
Hamas, l’avversario più letale dello Stato
israeliano.
Ma adesso che Hamas ha vinto le elezioni, cosa c’è
in serbo per quelli di noi che vivono in questo angolo
del mondo? Hamas è pronto negoziare un accordo
sulla base di un hudnah (una tregua temporanea).
Come evidenzia Azzam Tamimi, direttore dell’Istituto
del Pensiero Politico Islamico, Hamas ritiene, come
la maggioranza dei palestinesi, che Israele sia stato
costruito su terra sottratta al popolo palestinese.
“La creazione dello Stato israeliano era una soluzione
a un problema europeo e i palestinesi non sono affatto
obbligati a fare da capro espiatorio per l’incapacità
dell’Europa di riconoscere che gli ebrei sono
esseri umani con diritti inalienabili. Hamas, come tutti
i palestinesi, rifiuta di pagare per i criminali che
perpetrarono l’Olocausto. Comunque, Israele è
una realtà e questo è il motivo per cui
Hamas è disponibile a trattare con quella realtà
in una maniera che sia compatibile con i propri principi.”
La vittoria di Hamas sembra introdurre una nuova dimensione
nel conflitto israelo-palestinese. Se il conflitto è
sorto inizialmente come scontro nazionale tra due popoli
che combattevano per lo stesso pezzo di terra, man mano
che sono trascorsi gli anni è andata guadagnando
terreno un’ideologia messianica ebraica che crede
nel riscatto della terra biblica di Israele. Così,
il campo sionista ha portato un elemento fondamentalista
nella disputa nazional-territoriale, introducendo una
forte tensione teologica nel fervore nazionalista. Il
trionfo di Hamas può essere considerato come
l’introduzione della dimensione religiosa nella
fazione palestinese, rafforzando così i caratteri
fondamentalisti del conflitto. Sotto molti aspetti,
lo scontro nazionale sul territorio si va trasformando
in una battaglia religiosa tra ebrei e musulmani. Se
la spinta pragmatica di Hamas non prevarrà su
quella religiosa, allora ci incammineremo verso giorni
sanguinosi semplicemente perché raggiungere una
qualche soluzione politica tra le due parti sarà
molto più difficile.
Senza dubbio l’insorgere di un fondamentalismo
globale avrà effetti anche sulla società
palestinese. Il numero due di Hamas, Muhammad Abu Tir,
ha già proposto di cambiare il sistema scolastico
palestinese: ragazze e ragazzi non studieranno più
assieme e verrà introdotto un curriculum più
islamico. Abu Tir ha aggiunto che il primo atto del
neo-eletto Consiglio Legislativo palestinese introdurrà
la sharia (la legge islamica) come fonte legislativa.
Dichiarazioni come queste non promettono bene per il
prossimo futuro.
Ci si potrebbe chiedere come la comunità internazionale
debba rispondere alla vittoria di Hamas. Ehud Olmert,
facente funzione di Primo Ministro israeliano, ha chiesto
ai leader internazionali di boicottare la nuova autorità
palestinese se questa non soddisferà tre condizioni:
il disarmo di Izzeddin al-Qassam e di altri
gruppi paramilitari; l’annullamento della carta
di Hamas che sostiene la distruzione di Israele; e l’accettazione
dei concordati e degli obblighi che l’Autorità
Palestinese si è assunta quando il partito di
Fatah era al potere. Sebbene le prime due condizioni
poste da Olmert possano facilmente entrare a far parte
di futuri negoziati piuttosto che essere una condizione
per negoziare, la sua terza richiesta mette Israele
in uno spinoso pasticcio. Dopotutto, negli ultimi tre
anni è stato Israele – non i palestinesi
– a utilizzare la barriera di separazione per
attuare un piano unilaterale che contravviene a tutti
gli accordi precedenti. Così, stando alla logica
di Olmert, per poter rimanere coerente la comunità
internazionale dovrebbe boicottare Israele.
Sebbene il quartetto Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione
Europea e Russia abbia deciso di non adottare immediatamente
le richieste di Olmert, ha avvertito che se Hamas rifiuterà
di abbandonare le violenze, riconoscere Israele e abbracciare
la road map diplomatica per la pace, taglierà
gli aiuti esteri. Questa minaccia deve essere presa
sul serio, dal momento che i dati suggeriscono che se
i leader mondiali decideranno di tagliare gli aiuti
economici ai Territori occupati, l’umanità
assisterà a una catastrofe sociale. Come menzionato
in precedenza, oggi il 64% della popolazione palestinese
vive al di sotto della soglia internazionale di povertà
di 2,20 $ al giorno, e allo stesso tempo la Banca Mondiale
denuncia che la malnutrizione acuta affligge il 9% dei
bambini palestinesi. Tenendo conto del fatto che gli
aiuti finanziari ammontano a quasi un terzo del reddito
lordo nazionale pro capite in Cisgiordania e a Gaza,
la decisione di tagliarli equivarrebbe a fare un esperimento
sulla carestia.
Olmert vuole davvero che la popolazione che vive sotto
l’occupazione di Israele soffra la fame? La comunità
internazionale è disposta ad assumersi una tale
responsabilità? Domande come queste portano direttamente
alla questione più cruciale, che è stata
spesso trascurata nella recente discussione riguardo
l’ascesa al potere di Hamas. Nonostante il carattere
minaccioso della vittoria di Hamas, in questo conflitto
Israele continua a essere la parte più forte:
è l’occupante e l’oppressore, non
la vittima. Israele non è disposto a ritirarsi
all’interno dei confini del 1967 o a offrire una
soluzione equa al problema dei rifugiati palestinesi,
come richiesto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite
194, 242 e 381. E, infine, è stato Israele a
compiere mosse unilaterali in diretta violazione della
road map e di ogni altra soluzione fondata sul dialogo
e sulla comprensione reciproca.
Hamas, come suggerisce Azzam Tamimi, sottolinea la
violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite da
parte di Israele ed è disposto a imbarcarsi in
un processo di pace a patto che Israele rinunci a considerarsi
l’unica vittima e riconosca che anche i palestinesi
sono vittime e lo sono state fin dall’istituzione
dello Stato israeliano. Tutto ciò solleva serie
domande su chi, a questo punto, stia davvero minando
la possibilità di raggiungere la pace in Medioriente.
Traduzione di Martina Toti
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