David Chemla
è il presidente di La Paix Maintenant,
traduzione francese di Shalom Arshav (La pace
ora). La sua associazione, proprio come l’omonimo
movimento israeliano, si batte da anni per la cooperazione
con i palestinesi e il sostegno di tutte le iniziative
congiunte (come gli Accordi di Ginevra firmati nel 2003
da esponenti delle due popolazioni). Recentemente Chemla
ha pubblicato un libro, Bâtisseurs de Paix
(Costruttori di pace), per il quale ha intervistato
militari, intellettuali, esponenti religiosi e politici
palestinesi e israeliani che in quella terra stanno
spendendosi, appunto, per una convivenza pacifica. Nel
libro si raccontano le storie e il percorso di chi è
riuscito a superare la propria posizione nel conflitto,
per farsi carico anche di quella dell’altro. Lo
abbiamo incontrato per provare a capire cosa ne sarà
della speranza di pace in Medio Oriente dopo la vittoria
di Hamas alle elezioni palestinesi.
David Chemla, come spiega la vittoria di Hamas?
Non bisogna stupirsi, la vittoria di Hamas era prevedibile
da molto tempo. L’analisi dei risultati ci permette
d’altronde di capirne un po’ di più
il senso. Le elezioni palestinesi sono composte da due
voti: un voto proporzionale per liste in cui i candidati
di Hamas hanno quasi pareggiato con Fatah (30 eletti
contro 27), e un voto per circoscrizione in cui i candidati
di Hamas hanno largamente dominato. Questa differenza
tra i due voti mostra che la linea politica di Fatah
– negoziato con Israele, almeno dagli accordi
di Oslo – non è stata rigettata in blocco
dalla popolazione palestinese. Il risultato testimonia
semmai il rigetto della leadership di Fatah, associata
ad un sistema corrotto e alla mancanza visibile di cambiamenti
nel quotidiano in seguito agli accordi di Oslo. Durante
questi ultimi cinque anni di Intifada, la situazione
economica si è degradata e, in opposizione al
comportamento dei dirigenti di Fatah, Hamas ha saputo
rinforzare la sua immagine presso la popolazione, sviluppando
tutte le sue azioni sociali. È certo, d’altronde,
che le scelte politiche dei differenti governi israeliani
non hanno aiutato la posizione di Fatah. Il ritiro da
Gaza, che avrebbe potuto essere un premio alla linea
politica di Mahmoud Abbas, essendosi svolto unilateralmente
è stato invece interpretato come una vittoria
delle azioni militari di Hamas.
Che prezzo sono disposti ad accettare israeliani
e palestinesi, pur di arrivare alla pace?
I sondaggi mostrano ancora oggi che le due popolazioni
accettano nella loro maggioranza la soluzione dei due
Stati. Cinque anni di violenze, più una guerra
e un’Intifada popolare, hanno mostrato agli occhi
dei due campi che non ci sono soluzioni militari a questo
conflitto. In Israele anche i più reticenti sono
convinti della necessità di separarsi dai palestinesi.
La barriera di sicurezza, percepita come un mezzo per
proteggersi dagli attentati, prefigura la futura frontiera
anche se i dirigenti non lo dicono apertamente. È
per questo che i coloni si sono opposti, coscienti che
essa porterà obbligatoriamente quelli di loro
che si trovano nella parte Est della barriera a dover
lasciare gli insediamenti. Sharon aveva compreso quest’aspettativa
della maggioranza degli israeliani e, di fronte al costo
umano ed economico dell’occupazione di Gaza e
all’accoglienza favorevole ricevuta da iniziative
come quella di Ginevra, ha deciso di realizzare il suo
piano di ritiro. Anche nei Territori la popolazione
è stanca della situazione. Lo spirito di riconciliazione
che accompagnava il processo di Oslo oggi non è
più lo stesso. L’obiettivo è di
realizzare una separazione tra le due popolazioni e
mettere fine all’occupazione. La riconciliazione
verrà più tardi.
Nel suo statuto, che risale al 1988, Hamas
prevede la cancellazione di Israele e la creazione di
uno stato islamico. La legittimazione politica li costringerà
a cambiare rotta e ad accettare Israele?
Non sarebbe la prima volta che un partito che si confronta
con gli obblighi del potere cambi le sue posizioni.
Il problema, con Hamas, è che segue una linea
più teologica che ideologica. E se è possibile
finire per intendersi con uomini politici, è
più difficile farlo con uomini che si presentano
come “uomini di Dio”, di un Dio rivendicato
come esclusivo.
Da sempre l’Autorità palestinese
si è identificata con Fatah. Ora sarà
disposta a lasciare il potere in mano agli islamisti?
La molteplicità dei gruppi armati testimonia
dell’anarchia esistente oggi nei territori. Molti
di questi gruppi si proclamano di Fatah. Come reagiranno
al cambiamento di potere? Quale sarà lo statuto
di questi uomini armati? All’interno di Fatah
l’opposizione tra vecchia e giovane guardia ha
già condotto ad una molteplicità di liste
alle elezioni, che si sono rivelate fondamentali per
la sconfitta. Se si assisterà ad una mini guerra
civile, questa rischierebbe di condurre a un affondamento
di quello che resta dell’Autorità palestinese.
Prima delle elezioni, il premier il primo ministro
israeliano Ehud Olmert ha dichiarato che “Israele
non potrà accettare che Hamas, nella sua forma
attuale, faccia parte dell’Autorità palestinese”.
Non riconoscendo la legittimità di Fatah per
anni Israele ha contribuito alla crescita del movimento
islamista. A pochi mesi dalle elezioni, quali problemi
si aprono ora per Israele, con Hamas al potere e un
quadro politico interno ancora confuso?
Effettivamente, negli anni Ottanta, Israele rifiutava
di negoziare con l’Olp diretta da Fatah, sperando
di trovare in questo movimento religioso un contrappeso
al partito nazionalista. È un esempio di quella
cecità politica che s’è già
vista altrove, per esempio con gli americani quando
sostennero il regime dei Talebani o quello di Saddam.
In politica bisogna a volte avere il coraggio di affrontare
l’opinione pubblica per promuovere una strategia
basata su una visione dei propri interessi sul lungo
periodo. Non ci si sceglie l’avversario. E più
lo si rifiuta più lo si rinforza. Lo si è
visto con la vittoria di Hamas alle elezioni. Israele
non ha saputo aiutare Fatah quando era al potere. Gli
oppositori israeliani di questa politica, per esempio
quelli che sono stati all’origine dell’Iniziativa
di Ginevra, lo hanno detto più di una volta.
Oggi è cosa fatta.
In questa situazione è probabile che Olmert,
dopo le elezioni, continui sulla linea politica iniziata
da Sharon e che avvii altri disimpegni unilaterali.
Scelta che sarebbe il male minore. Porterà certamente
a un’opposizione attiva dei coloni, più
forte di quella avuta a Gaza. Bisogna ricordare infatti
che, a differenza di Gaza, la Giudea e la Samaria sono
il cuore del territorio sul quale è avvenuta
una gran parte della storia biblica e sarà dunque
più difficile abbandonarla. Olmert però
si è impegnato con fermezza contro i coloni annunciando
di voler smantellare le colonie selvagge. Penso che
questa scelta sia motivata da considerazioni elettorali
perché così si risponde all’aspettativa
di una grande parte degli israeliani. Questi, infatti,
si oppongono all’immobilismo dello Stato che è
prevalso per anni e che ha indotto i coloni a imporre
sul terreno la loro scelta a detrimento dell’interesse
generale. Olmert vuole così guadagnare voti sui
suoi avversari posizionati a sinistra del suo partito
Kadima. Di fronte alla linea politica di Olmert sarà
difficile, per l’opposizione di sinistra, continuare
a promuovere una ripresa del negoziato con l’Autorità
palestinese, adesso che Hamas è al potere. A
mio avviso bisognerebbe approfittare della presenza
di Mahmoud Abbas, che come presidente detiene il potere
per tutto quello che riguarda la politica estera, per
tentare di arrivare rapidamente ad una soluzione globale
del conflitto basata sui due Stati. Se si arrivasse
ad intendersi con lui è probabile che le due
popolazioni sosterrebbero in maggioranza l’accordo.
Che problemi si aprono, invece, per gli Stati
Uniti e l’Unione europea che hanno inserito Hamas
nella lista nera delle organizzazioni terroristiche.
I palestinesi che hanno votato per gli islamismi sono
terroristi?
Non credo che tutti gli elettori di Hamas ne sostengano
la linea politica. Si dovrà continuare a sostenere
l’Autorità palestinese e fare pressione
su Hamas perché cambi linea politica. L’Europa,
più che gli Stati Uniti, può giocare un
ruolo in questo senso.
La road map ha ancora futuro?
Tutti sanno che questo “Piano di pace”
oggi non ha più alcuna consistenza, ma nessuno
lo vuole abbandonare perché è il solo
documento accettato dalle due parti. Da quasi quarant’anni
i piani di pace si sono succeduti in Medio Oriente senza
cambiare la realtà sul terreno. I soli cambiamenti
concreti dal 1967 si sono dovuti a iniziative prese
da uno dei due interlocutori, che siano gli accordi
di Oslo che hanno condotto alla costituzione dell’Autorità
palestinese o il piano di ritiro da Gaza. Nella fase
attuale non vedo iniziative congiunte da mettere in
campo. Penso che Israele continuerà nella sua
politica unilaterale. Il ruolo di terzi come il quartetto
(Ue, Onu, Usa, Russia) consisterà nel conservare
un quadro di negoziati aperto ai palestinesi per preservare
l’avvenire.
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