Tratto
da Secolo
XIX del 3 febbraio 2006
Nella discussione di questi giorni a proposito delle
“vignette della discordia”, si sono sovrapposte
e incrociate più analisi da cui non risulta chiaro
se la difesa del rispetto per una sensibilità
religiosa costituisca il criterio di lettura con cui
giudicare o se invece questa si presenti come un comodo
escamotage, uno scantonamento del problema – in
breve una delle tante forme della retorica del “benaltro”.
Il “benaltro” in questo caso è il
principio del realismo politico che consiglierebbe di
non alzare la tensione del confronto in presenza di
un tasso di conflittualità già alto per
la questione del nucleare iraniano. Oppure la presa
d’atto che lo scenario mediorientale da una settimana
è popolato da un fondamentalismo in più
al governo.
Diciamolo senza tanti giri: le vignette della discordia
non sono un’opera d’arte e dal punto di
vista della retorica hanno completamente mancato l’obiettivo.
L’ironia infatti non è un’arma polemica
che vuol convincere, ma uno strumento che deve far riflettere
sia chi la propone sia chi la legge.
La vignetta è una delle forme in cui si “scrivono”
editoriali nelle società dell’informazione.
Se così è, il contenuto di quelle vignette
è un pessimo editoriale: non spostano di un millimetro
il senso comune consolidato, né obbligano a rivederlo:
semplicemente lo confermano. Sia per coloro che in occidente
pensano che Islam e terrorismo coincidano, sia per coloro
che in area islamica pensano che l’Occidente è
semplicemente un cosmo irrispettoso. La satira e l’ironia
sono dei mezzi di comunicazione che pungono nel vivo,
“fanno male”, ma il loro obiettivo non è
far male: il loro obiettivo è produrre strappi,
lacerazioni, revisioni. In breve fare in modo che l’oggetto
di satira sia messo in discussione. E’ questo
quello che è accaduto di qua e di là?
Non direi. L’effetto è una nuova forma
del conflitto di civiltà mascherato sotto le
spoglie di una geopolitica del sacro che dichiara che
laddove vige il mio principio lì comando io.
Una formula aggiornata del “cuius regio, eius
religio” proprio del sistema degli Stati assoluti
di quattro secoli fa.
E’ allora il caso di ragionare e di riflettere
laicamente in un altro modo.
Intorno alla questione delle vignette che ritraggono
Maometto con una bomba come turbante si scontrano due
diritti: il diritto alla libertà di stampa e
quello al rispetto che si pretende per le proprie convinzioni.
In questo caso sembrerebbe che non si dia terreno di
conciliabilità e di incontro tra questi due ambiti.
Non sono di questo avviso. C’è un diritto
che lega tra di loro individui anche in netta opposizione
tra di loro; diversamente un luogo pratico del rapporto
tra individui anche collocati su terreni opposti se
ciascuno ha intenzione di difendere strenuamente quel
diritto che ritiene violato dall’azione dell’altro:
è il diritto alla vita dell’altro. Questo
è il vincolo irrinunciabile che rende legittima
la critica. La politica si fa sulle piazze, la si rende
evidente ed esplicita importando il rapporto di forza
dalle piazze alle stanze del confronto, anche quelle
collocate in alto. Poi lì deve esprimersi politica.
La folla che a Gaza invade gli uffici della Ue non è
una risposta politica. Se tale invece è, allora
è irricevibile. Altrettanto lo è l’urlo
di orgoglio del direttore di “France Soir”
Non è l’unica questione in gioco. Non
nego che ci sia una sensibilità che ritiene non
sopportabile una ridicolizzazione di sé attraverso
la messa alla berlina del proprio profeta. Lo si può
e lo si deve comprendere. Ma questo aspetto non impedisce
che si debba ragionare in termini di politica. Il lancio
dell’interdetto appartiene a un linguaggio politico
non condiviso. Può darsi che questo linguaggio
sia sopportabile a chi oggi comanda a Teheran o domani
a Ramallah. Allora deve spiegare in base a quali principi
generali ancora siede alle Nazioni Unite. In base a
quali patti di reciprocità si attende delle politiche
di soccorso e di sostegno da agenzie internazionali.
In base a quali principi invoca il diritto di inviolabilità
del proprio territorio. Il diritto non è l’affermazione
della forza. E’ il terreno del vincolo reciproco.
E’ una questione che in Europa e più generalmente
in Occidente dovremmo avere chiara tutti noi: a destra
se a qualcuno si fa investire dai pruriti di guerra
di civiltà e a sinistra se qualcuno si innamora
troppo facilmente del fascino della rivolta antioccidentale
propria del gergo fondamentalista.
Un’ultima questione. E’ probabile o anche
possibile che per molti sia insopportabile che chi scrive
intervenga su una questione così delicata in
cui l’oggetto della partita è il rapporto
con l’Islam. Può essere che a qualcuno
l’opinione di un ebreo in questa partita risulti
un’indebita invasione di campo. Ebbene io ritengo,
da laico, che oggi sono in gioco questioni che non appartengono
alla sfera delle appartenenze religiose. Appartengono
al sistema delle regole su cui dovremmo tutti convenire
o sforzarci di convenire. Né riconosco fondamento
alla paranoia dell’appartenenza né ritengo
che questa sia in grado di stabilire ciò che
si può dire, quando si può dire, a che
titolo lo si può dire e chi lo può dire.
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