294 - 17.02.06


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Le vignette della discordia
e il diritto condiviso

David Bidussa



Tratto da Secolo XIX del 3 febbraio 2006

Nella discussione di questi giorni a proposito delle “vignette della discordia”, si sono sovrapposte e incrociate più analisi da cui non risulta chiaro se la difesa del rispetto per una sensibilità religiosa costituisca il criterio di lettura con cui giudicare o se invece questa si presenti come un comodo escamotage, uno scantonamento del problema – in breve una delle tante forme della retorica del “benaltro”. Il “benaltro” in questo caso è il principio del realismo politico che consiglierebbe di non alzare la tensione del confronto in presenza di un tasso di conflittualità già alto per la questione del nucleare iraniano. Oppure la presa d’atto che lo scenario mediorientale da una settimana è popolato da un fondamentalismo in più al governo.

Diciamolo senza tanti giri: le vignette della discordia non sono un’opera d’arte e dal punto di vista della retorica hanno completamente mancato l’obiettivo. L’ironia infatti non è un’arma polemica che vuol convincere, ma uno strumento che deve far riflettere sia chi la propone sia chi la legge.
La vignetta è una delle forme in cui si “scrivono” editoriali nelle società dell’informazione. Se così è, il contenuto di quelle vignette è un pessimo editoriale: non spostano di un millimetro il senso comune consolidato, né obbligano a rivederlo: semplicemente lo confermano. Sia per coloro che in occidente pensano che Islam e terrorismo coincidano, sia per coloro che in area islamica pensano che l’Occidente è semplicemente un cosmo irrispettoso. La satira e l’ironia sono dei mezzi di comunicazione che pungono nel vivo, “fanno male”, ma il loro obiettivo non è far male: il loro obiettivo è produrre strappi, lacerazioni, revisioni. In breve fare in modo che l’oggetto di satira sia messo in discussione. E’ questo quello che è accaduto di qua e di là? Non direi. L’effetto è una nuova forma del conflitto di civiltà mascherato sotto le spoglie di una geopolitica del sacro che dichiara che laddove vige il mio principio lì comando io. Una formula aggiornata del “cuius regio, eius religio” proprio del sistema degli Stati assoluti di quattro secoli fa.
E’ allora il caso di ragionare e di riflettere laicamente in un altro modo.

Intorno alla questione delle vignette che ritraggono Maometto con una bomba come turbante si scontrano due diritti: il diritto alla libertà di stampa e quello al rispetto che si pretende per le proprie convinzioni.
In questo caso sembrerebbe che non si dia terreno di conciliabilità e di incontro tra questi due ambiti. Non sono di questo avviso. C’è un diritto che lega tra di loro individui anche in netta opposizione tra di loro; diversamente un luogo pratico del rapporto tra individui anche collocati su terreni opposti se ciascuno ha intenzione di difendere strenuamente quel diritto che ritiene violato dall’azione dell’altro: è il diritto alla vita dell’altro. Questo è il vincolo irrinunciabile che rende legittima la critica. La politica si fa sulle piazze, la si rende evidente ed esplicita importando il rapporto di forza dalle piazze alle stanze del confronto, anche quelle collocate in alto. Poi lì deve esprimersi politica. La folla che a Gaza invade gli uffici della Ue non è una risposta politica. Se tale invece è, allora è irricevibile. Altrettanto lo è l’urlo di orgoglio del direttore di “France Soir”

Non è l’unica questione in gioco. Non nego che ci sia una sensibilità che ritiene non sopportabile una ridicolizzazione di sé attraverso la messa alla berlina del proprio profeta. Lo si può e lo si deve comprendere. Ma questo aspetto non impedisce che si debba ragionare in termini di politica. Il lancio dell’interdetto appartiene a un linguaggio politico non condiviso. Può darsi che questo linguaggio sia sopportabile a chi oggi comanda a Teheran o domani a Ramallah. Allora deve spiegare in base a quali principi generali ancora siede alle Nazioni Unite. In base a quali patti di reciprocità si attende delle politiche di soccorso e di sostegno da agenzie internazionali. In base a quali principi invoca il diritto di inviolabilità del proprio territorio. Il diritto non è l’affermazione della forza. E’ il terreno del vincolo reciproco. E’ una questione che in Europa e più generalmente in Occidente dovremmo avere chiara tutti noi: a destra se a qualcuno si fa investire dai pruriti di guerra di civiltà e a sinistra se qualcuno si innamora troppo facilmente del fascino della rivolta antioccidentale propria del gergo fondamentalista.

Un’ultima questione. E’ probabile o anche possibile che per molti sia insopportabile che chi scrive intervenga su una questione così delicata in cui l’oggetto della partita è il rapporto con l’Islam. Può essere che a qualcuno l’opinione di un ebreo in questa partita risulti un’indebita invasione di campo. Ebbene io ritengo, da laico, che oggi sono in gioco questioni che non appartengono alla sfera delle appartenenze religiose. Appartengono al sistema delle regole su cui dovremmo tutti convenire o sforzarci di convenire. Né riconosco fondamento alla paranoia dell’appartenenza né ritengo che questa sia in grado di stabilire ciò che si può dire, quando si può dire, a che titolo lo si può dire e chi lo può dire.

 

 

 

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