Ariel Sharon,
il “leone di Dio” – questo il significato
in ebraico del suo nome –ha avuto un ruolo da
protagonista in tutti i conflitti che hanno coinvolto
Israele dal 1948 a oggi. Nato nel 1928 nella Palestina
sotto mandato britannico, a 17 anni inizia la carriera
militare che abbandona nel 1973 quando decide di passare
alla politica. È la mossa a sorpresa nella guerra
del Kippur – contro gli ordini dei superiori circonda
le truppe egiziane e ribalta le sorti del conflitto
– che gli vale il successo e l’ingresso
in politica. Nel 1982, da ministro della Difesa, è
l’artefice dell’invasione del Libano. Costretto
alle dimissioni dopo le stragi di Sabra e Chatila –
compiute da milizie cristiane – torna nel governo
nel 1984 prima come ministro del Commercio e dell’Industria,
poi nel 1990 come ministro dell’Edilizia. È
in questa veste che dà un grande impulso alla
colonizzazione dei Territori palestinesi. Nel maggio
1999, dopo la sconfitta di Netanyahu alle elezioni e
le sue dimissioni da leader del Likud, Sharon diventa
capo del partito che conduce al governo nel 2001.
Il politico col pugno di ferro
A Sharon piace citare spesso il consiglio che sua madre
gli diede all’inizio degli anni Ottanta, mentre
era impegnato nei negoziati con gli egiziani: “Non
ti fidare di loro! Non puoi fidarti di un pezzo di carta!”.
Più che nelle parole, infatti, l’uomo con
la fama di ‘bulldozer’ ha sempre creduto
nell’azione. Già controverso come leader
militare, da politico è ugualmente discusso.
Eletto premier, usa il pugno di ferro e costringe più
volte il leader dell’Anp Arafat a lunghi periodi
di isolamento, stringendo in una morsa i Territori sconvolti
dalla seconda intifada, la rivolta armata lanciata contro
Israele dopo la controversa visita di Sharon sulla Spianata
delle Moschee a Gerusalemme. Ed è solo negli
ultimi anni, dopo la decisone di ritirare i coloni israeliani
dalla Striscia di Gaza, che ha acquistato la statura
dello statista, guadagnando consensi da tutte le aree
politiche. Lo smantellamento degli insediamenti dopo
trentotto anni di occupazione delle terre conquistate
nella guerra del 1967, è la svolta inattesa:
un leader di destra, con la reputazione di temuto generale,
riaccende la speranza in un cambiamento reale.
Avanti con Kadìma, il partito che nasce
vincitore
Alla fine del ritiro da Gaza, lo scorso settembre,
la spaccatura in seno al Likud è ormai insanabile
e spinge Sharon a fondare un nuovo partito, Kadìma
(letteralmente ‘Avanti’), e a chiedere lo
scioglimento del parlamento, convinto di vincere sui
rivali laburisti alle elezioni di marzo. Stando ai sondaggi
pubblicati sulla stampa israeliana in questi giorni,
Kadìma continua a crescere nonostante l’assenza
di linee guida. Sapere che sarebbe stato Sharon il leader
del nuovo partito è stato sufficiente a garantire
l’appoggio di molti israeliani, anche di coloro
che hanno sempre votato a sinistra. Il ritiro dei coloni
da Gaza è la mossa che ha spostato i consensi.
In Israele c’è un detto che recita: “La
sinistra parla di pace, ma solo la destra è in
grado di portarla davvero”. Nessuna meraviglia,
dunque, per il larghissimo favore che Kadìma
si è guadagnato fin da subito. Ma il neopartito
è tutt’uno con il suo fondatore che ora
giace in ospedale, e il dubbio è su quanto peserà
la sua assenza dalla campagna elettorale e dal confronto
politico di marzo. Alcuni sondaggi ritengono che la
nuova formazione possa perdere fino al 50% dei voti.
Il mondo arabo non piange
Per molti palestinesi Sharon è un criminale
di guerra. “Non aspettiamo altro che muoia, la
sua scomparsa sarà il nostro sollievo”,
dice un commerciante di Palestine Square a Gaza. Non
possono dimenticare il massacro negli accampamenti di
Sabra e Chatila nel 1982, né le migliaia di morti
durante i quattro anni di Intifada. Colui che per la
commisione Kahan – istituita da Israele per accertare
le responsabilità dopo l’invasione del
Libano in cui persero la vita migliaia di rifugiati
palestinesi – fu “indirettamente colpevole”,
per il popolo palestinese lo è direttamente.
Quando parlano del “mastino” Sharon l’unico
rimpianto che hanno, semmai, è di non aver avuto
un leader come lui: “È un capo fedele e
il suo popolo può contare su di lui molto più
di quanto gli arabi possano fare con i loro leader”,
dice un altro commerciante. E fra i palestinesi resta
forte la convinzione che il ritiro israeliano da Gaza
sia stata una mossa strategica, un piano per mettere
per sempre in formaldeide il sogno di uno stato palestinese.
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