Questo
articolo è tratto da Reset
(n.93, gennaio-febbraio 2006)
La scuola araba che le recenti cronache milanesi hanno
reso nota come la "scuola di via Quaranta"
ha iniziato la sua attività circa 16 anni fa
presso il centro di via Jenner per poi spostarsi nella
nuova sede, dove si è ingrandita fino a poter
contare circa 500 alunni. Già da qualche anno
però, la preoccupazione di molti genitori che
vedevano i propri figli crescere in una scuola senza
alcuna possibilità di imparare l'italiano, ha
condotto a una sperimentazione che, grazie alla Direzione
Scolastica Regionale, al Comune di Milano, ad alcuni
docenti dell'Università Cattolica e alla Fondazione
Cariplo che l'ha finanziata, ha visto scuole italiane
del distretto di via Quaranta offrire occasioni di avvicinamento
alla nostra lingua e ai percorsi scolastici degli alunni
italiani.
L'iniziativa ha incontrato l'apprezzamento totale dei
genitori, ma una partecipazione con riserva da parte
della direzione della scuola, che si trovava in una
chiara condizione di conflitto di interessi, poiché
suo primo obiettivo era ovviamente mantenere in piedi
la propria struttura irregolare e non disperdersi nella
scuola pubblica. In altre parole, la direzione di via
Quaranta cercava prima di ogni altra cosa un sostegno
assistenziale, senza dimostrarsi disponibile a discutere
del cuore della questione, la natura giuridica e il
rapporto con le istituzioni di questo carrozzone improvvisato
che andava avanti da anni e si faceva forza della sua
stessa esistenza.
Da parte nostra dobbiamo fare un po' di autocritica
e riconoscere che distrazione, pigrizia e inerzia della
società civile e delle istituzioni hanno incoraggiato
l'errore di una minoranza (in via Quaranta andavano
a scuola 500 alunni contro i 20.000 arabofoni inseriti
nelle scuole pubbliche e private, comprese quelle di
ispirazione cattolica) che si è fatta trasportare
dall'idea secondo cui in Italia possa convenire non
prendere sul serio le leggi e aggirarle coperti dal
silenzio. Una prima lezione che possiamo trarre da questa
esperienza negativa e dolorosa è che la democrazia
è un sistema debole che, per sua stessa natura,
non può contare troppo su strumenti repressivi
e su divieti, ma deve fare affidamento sulla promozione
dei comportamenti migliori. La democrazia sana non è
quella che proibisce con durezza l'illegalità,
ma è soprattutto un sistema che premia chi sceglie
la strada migliore.
Nel momento in cui ci mettiamo nelle condizioni di subire
il fenomeno dell'intercultura anziché gestirlo,
ci troviamo alle prese con un problema enorme, perché
se non prendiamo l'iniziativa siamo costretti a subire
l'azione dei più bizzarri e sedicenti rappresentanti
delle comunità islamiche, arabe o di qualunque
altra provenienza esse siano.
La nostra società sembra a volte vivere tra due
estremi ugualmente perniciosi: da una parte una specie
di neotribalismo che enfatizza presunti e invalicabili
confini identitari, dall'altra una sorta di assoluto
relativismo che non prevede nessuna regola né
condizione. In mezzo a questi due estremi si apre un
vuoto spaventoso che può essere riempito in modo
efficace solo se riusciamo a far capire agli immigrati
che ciascuno ha diritto alla propria differenza, ma
che mai ci potrà essere una differenza nel diritto,
vale a dire un trattamento diverso per quanto attiene
a diritti e doveri di tutti. L'uguaglianza davanti alla
legge è la prima cosa della quale dovremmo convincere
coloro che vengono a vivere nel nostro paese e che spesso
arrivano da realtà in cui non hanno alcun tipo
di rapporto con istituzioni assenti, prepotenti e corrotte.
Abbiamo l'occasione storica di far capire loro che in
un sistema democratico le istituzioni sono al servizio
dei cittadini e quindi chi si integra a contatto con
esse ne viene avvantaggiato e premiato.
Sono reduce da un viaggio in Egitto dove, da Alessandria
ad Assuan, ho potuto vedere con i miei occhi l'attività
di molte scuole fondate e gestite da comboniani, salesiani,
francescani o gesuiti, frequrntate da migliaia di ragazzi
musulmani. Sono talmente apprezzate che il governo egiziano
che ne ha prese alcune a modello per il proprio sistema
educativo. Mi chiedo perché di fronte alla sfida
dell'intercultura non siamo ancora stati capaci di valorizzare
l'immenso patrimonio che da secoli, simili esperienze
in atto nei paesi arabi e musulmani possono metterci
a disposizione.
Al di là dell'esempio di queste scuole che per
loro stessa ispirazione sanno rispettare e valorizzare
l'identità religiosa altrui, dovremmo saper guardare
anche più in là: all'università
del Cairo, sempre per rimanere all'Egitto, centinaia
di giovani studiano la lingua italiana, apprezzano la
nostra cultura e non hanno alcuna prospettiva se non
quella di fare i camerieri a Sharm el Sheik.
Mi chiedo se i migliori di questi studenti non possano
venire in Italia, loro che sono i mediatori culturali
ideali, che hanno già speso una parte della loro
vita per apprendere la nostra lingua e la nostra cultura.
Paradossalmente non abbiamo saputo trovare il modo di
valorizzarli a sufficienza, mentre continuiamo a vivere
in un sistema pieno di falle, in cui una prostituta
nigeriana può ottenere un visto per volare fino
in Italia, mentre un arabo laureato in lingua italiana
e desideroso di fare il mediatore culturale nel nostro
paese incontra innumerevoli difficoltà.
Credo sia un bene che la scuola di via Quaranta sia
stata chiusa, non perché fosse una scuola islamica,
ma perché non era affatto una scuola: gli insegnanti
non avevano l'adeguata preparazione a svolgere il loro
lavoro, non rappresentavano modelli di integrazione
tanto che gli alunni sapevano parlare italiano molto
meglio di loro, nelle aule erano vietate la musica e
l'arte, il sistema educativo era prettamente mnemonico
e antiquato...
Ma c'è di più: a Milano molti immigrati
arabi sono cristiani copti, di religione cristiana quindi,
ma noi non ci siamo presi carico nemmeno di coloro con
cui condividiamo la stessa identità religiosa.
Un'alternativa vincente potrebbe essere quella di iniziare
a valorizzare la loro cultura, la loro lingua, e portare
così nelle nostre scuole un tipo di integrazione
che non sta nella creazione di spazi recintati nei quali
le minoranze immigrate possono istruirsi in autonomia,
ma nella realizzazione di luoghi in cui ripensare insieme
programmi e percorsi in chiave mediterranea. La nostra
vocazione verso il Mediterraneo è un buon argomento
da riprendere in chiave retorica in occasione di convegni
e conferenze internazionali. In realtà sappiamo
ben poco della storia e della cultura dei paesi della
sponda nord dell'Africa e dell'area mediorientale.
Anche per quanto riguarda la formazione degli imam,
potremmo offrire loro la possibilità di fare
studi religiosi superiori in Italia, che potrebbero
sviluppare nelle nelle nostre università. Una
leadership più matura e consapevole dei gruppi
islamici organizzati non potrebbe che far bene tanto
a loro quanto a noi stessi.
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