293 - 03.02.06


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Due popoli
condannati a parlarsi

Gigi Riva con
Mauro Buonocore



C’era una volta il mito della Grande Israele, e adesso non c’è più. Spazzato via dal realismo, dall’esasperazione di due popoli che vivono in guerra da quasi cento anni, ma soprattutto dalla demografia, da un calcolo che dimostra come tra non molti anni i Palestinesi saranno più numerosi degli ebrei in quella terra che va dal Mediterraneo al Giordano. Chi voleva un Israele grande, democratico ed ebraico deve arrendersi all’evidenza, questi tre elementi non possono andare insieme: se sarà grande e democratico, non sarà tutto ebraico, perché la maggioranza araba porterà molti dei suoi rappresentanti in parlamento; se sarà grande ed ebraico, non potrà essere democratico perché negherebbe rappresentanza alla maggioranza araba; se vorrà essere ebraico e democratico, dovrà per forza essere piccolo e limitare i suoi confini. E Sharon l’ha capito.
Gigi Riva, che dalle pagine de L’Espresso racconta il Medio Oriente, spiega nel libro I muri del pianto (UTET) come il vecchio Arik, tra le mani un volume del demografo Sergio Della Pergola (Hebrew University di Gerusalemme), abbia avuto l’idea di costruire un muro lungo i confini di Israele e spostare da questa parte del muro i coloni che abitavano la Striscia di Gaza.

“Sono due popoli condannati a parlarsi – dice Riva – perché una risoluzione dell’Onu dice loro di vivere insieme in un piccolo territorio, perché sono stanchi di una guerra lunghissima, da entrambe le parti c’è una maggioranza dell’opinione pubblica favorevole alla coesistenza di due stati per i due popoli, e perché, persi gli ultimi leader carismatici come Sharon e Arafat, i loro successori non potranno far altro che seguire i desideri delle persone”.

Due popoli due stati. Un’idea che Sharon sembra aver centrato in pieno.

Sì, da una parte la costruzione del muro lungo i confini israeliani è l’ammissione implicita che dall’altra parte ci sia un popolo con un suo stato.
Dall’altra il ritiro da Gaza ha inferto un colpo durissimo all’idea del Grande Israele, ha avuto un effetto importante sulla popolazione perché ha fatto capire che la lobby dei coloni non è invincibile; in più ha mostrato che i tre elementi su cui si fonda il progetto degli estremisti israeliani non possono coesistere e ad uno per forza si deve rinunciare.

Le ultime mosse di Sharon segneranno il futuro governo di Israele?

La questione demografica è centrale nella soluzione della crisi e chiunque salga al potere a Gerusalemme dovrà farci i conti. Sharon è stato il primo a capirlo e ha trovato le persone giuste per farselo spiegare, cioè il demografo Sergio della Pergola e il geografo Arnon Sofer. I leader della sinistra avevano già chiaro questo tema, Rabin iniziò già negli anni Settanta a proporre l’idea di un muro sui confini del ’67, e lo stesso laburista Amram Mizna, alle ultime elezioni, lo aveva nel programma elettorale, mentre il suo rivale Sharon lo osteggiava fortemente.

Isreaele come ha reagito alla malattia di Sharon in un momento così delicato?

Benché la maggioranza degli israeliani sia addolorata, la loro reazione emotiva è un po’ più calma di quello che traspare. Israele è un paese che nella sua breve ma intensa vita ha avuto shock peggiori della malattia di Sharon. Me ne vengono in mente almeno due: la guerra di Yom Kippur d el 1973, quando improvvisamente carri armati siriani apparvero alle porte della Galilea, segnando nel mito dell’invincibilità di Israele un vulnus che non si è mai rimarginato; e poi, dieci anni fa, l’uccisione del primo ministro Rabbin ad opera di un estremista di destra. Insomma, Israele ha in sé gli anticorpi e i meccanismi adatti a superare eventi traumatici.

Come inciderà l’uscita di scena di Sharon sulla politica israeliana?

Con Sharon scompare l’ultima figura tra quei “grandi vecchi” che avevano partecipato alla guerra di indipendenza del ’48. Shimon Peres ha 82 anni ma non ha mai combattuto quella guerra, e non ha mai vinto un’elezione, è sempre stato un numero due. Il mito di Israele ha sempre contato molto sulla partecipazione alle guerre di difesa, ogni suo leader, fino ad oggi, era stato in passato esponente rilevante dei ranghi militari. Sharon è l’ultimo tra questi, e la sua uscita di scena apre una prospettiva generazionale che porta con sé molti interrogativi sulla possibilità di individuare i leader del futuro.

Anche il popolo palestinese vive il problema di trovare un nuovo leader.

Arafat e Sharon sono scomparsi dalla questione israelo-palestinese più o meno nello stesso momento, un fatto emblematico che ha lasciato da entrambe le parti un problema generazionale.
Sul versante palestinese questo era chiaro già un anno fa, dopo la morte di Arafat, quando Abu Mazen fu eletto grazie al forte appoggio che ha avuto dai Giovani Leoni di Fatah, la generazione di quaranta-cinquantenni che si aspettavano però, di essere risarciti in qualche modo riscarciti. Mi spiego meglio: Arafat aveva accentrato nella sua forte leadership il controllo di tutte le funzioni più importanti dell’Anp, ne era il presidente e contemporaneamente era alla guida dell’Olp e di Fatah, controllava le milizie e la politica. Con la sua scomparsa si sarebbe potuto immaginare un cambiamento promosso da diversi fattori; da una parte i cosiddetti “Tunisini” – cioè coloro che erano tornati dall’esilio con Arafat dopo gli accordi di Oslo – non sono per niente amati dalla popolazione perché hanno dato cattiva prova di sé, si sono dimostrati corrotti e divisi in fazioni; dall’altra parte, i giovani di Fatah, che hanno guidato la prima Intifada guadagnandosi i galloni sul campo e sono tutti cresciuti a Gaza e in Cisgiordania (un nome su tutti: Marwan Barghouti), hanno appoggiato Abu Mazen nella convinzione che questi fosse il traghettatore verso una nuova leadership che garantisse loro una strada di ascesa al potere. Abu Mazen avrebbe dovuto convocare un congresso di Fatah per sancire l’inizio di questa nuova stagione e promuovere la generazione più giovane (che ha nel partito la maggioranza dei consensi) ma, al tempo stesso, sarebbe stata pensionata tutta la vecchia guardia. E così non c’è stato nessun congresso e Fatah è rimasta in bilico tra passato e presente, completamente lacerata al suo interno.

Una lacerazione che ha in qualche modo favorito Hamas dal punto di vista politico?

La crisi e l’immobilismo di Fatah hanno permesso ad Hamas di fare una\ politica di supplenza al vecchio partito di Arafat, guadagnandosi così un consenso elettorale chiarissimo negli ultimi sondaggi.
Questa situazione è molto evidente nella striscia di Gaza, dove Hamas è sì un’organizzazione terroristica, ma è anche un’organizzazione sociale che gestisce scuole, ospedali. Insomma: ci sono territori in cui Hamas si fa carico del welfare conquistandosi così la fiducia della popolazione.

I palestinesi di Gaza come hanno vissuto il fatto che il ritiro dei coloni sia avvenuto proprio per mano del “bulldozer” Sharon?

Intanto bisogna sottolineare che in nessun luogo come a Gaza il problema demografico era tanto spettacolare. In più la situazione in quell’area era divenuta insostenibile anche per la percezione che l’opinione pubblica ne aveva: 7.500 ebrei utilizzavano circa il 75% delle risorse idriche, mentre a un milione e trecento mila palestinesi che abitano quella terra restava il rimanente 25%. C’erano degli scompensi che gridavano vendetta e imponevano un passo in tal senso. Quanto ai palestinesi, la maggioranza di loro ha giudicato il ritiro in maniera positiva, apprezzando il fatto che ci sia, se non altro, un primo fazzoletto di terra sul quale poter esercitare una sovranità. Il problema sta nelle fazioni più estremiste: esattamente come il ritiro dal Sud del Libano deciso da Barak nel 2000, anche in questo caso alcune formazioni, Hamas in particolare, hanno rivendicato l’arretramento israeliano come il frutto prolifico degli attentati terroristici e della loro politica di assoluta intransigenza. Sappiamo che sono bugie, ma certe cose possono fare presa, almeno su una fetta di popolazione.


 

 

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