C’era
una volta il mito della Grande Israele, e adesso non
c’è più. Spazzato via dal realismo,
dall’esasperazione di due popoli che vivono in
guerra da quasi cento anni, ma soprattutto dalla demografia,
da un calcolo che dimostra come tra non molti anni i
Palestinesi saranno più numerosi degli ebrei
in quella terra che va dal Mediterraneo al Giordano.
Chi voleva un Israele grande, democratico ed ebraico
deve arrendersi all’evidenza, questi tre elementi
non possono andare insieme: se sarà grande e
democratico, non sarà tutto ebraico, perché
la maggioranza araba porterà molti dei suoi rappresentanti
in parlamento; se sarà grande ed ebraico, non
potrà essere democratico perché negherebbe
rappresentanza alla maggioranza araba; se vorrà
essere ebraico e democratico, dovrà per forza
essere piccolo e limitare i suoi confini. E Sharon l’ha
capito.
Gigi Riva, che dalle pagine de L’Espresso
racconta il Medio Oriente, spiega nel libro I muri
del pianto (UTET) come il vecchio Arik, tra le
mani un volume del demografo Sergio Della Pergola (Hebrew
University di Gerusalemme), abbia avuto l’idea
di costruire un muro lungo i confini di Israele e spostare
da questa parte del muro i coloni che abitavano la Striscia
di Gaza.
“Sono due popoli condannati a parlarsi –
dice Riva – perché una risoluzione dell’Onu
dice loro di vivere insieme in un piccolo territorio,
perché sono stanchi di una guerra lunghissima,
da entrambe le parti c’è una maggioranza
dell’opinione pubblica favorevole alla coesistenza
di due stati per i due popoli, e perché, persi
gli ultimi leader carismatici come Sharon e Arafat,
i loro successori non potranno far altro che seguire
i desideri delle persone”.
Due popoli due stati. Un’idea che Sharon
sembra aver centrato in pieno.
Sì, da una parte la costruzione del muro lungo
i confini israeliani è l’ammissione implicita
che dall’altra parte ci sia un popolo con un suo
stato.
Dall’altra il ritiro da Gaza ha inferto un colpo
durissimo all’idea del Grande Israele, ha avuto
un effetto importante sulla popolazione perché
ha fatto capire che la lobby dei coloni non è
invincibile; in più ha mostrato che i tre elementi
su cui si fonda il progetto degli estremisti israeliani
non possono coesistere e ad uno per forza si deve rinunciare.
Le ultime mosse di Sharon segneranno il futuro
governo di Israele?
La questione demografica è centrale nella soluzione
della crisi e chiunque salga al potere a Gerusalemme
dovrà farci i conti. Sharon è stato il
primo a capirlo e ha trovato le persone giuste per farselo
spiegare, cioè il demografo Sergio della Pergola
e il geografo Arnon Sofer. I leader della sinistra avevano
già chiaro questo tema, Rabin iniziò già
negli anni Settanta a proporre l’idea di un muro
sui confini del ’67, e lo stesso laburista Amram
Mizna, alle ultime elezioni, lo aveva nel programma
elettorale, mentre il suo rivale Sharon lo osteggiava
fortemente.
Isreaele come ha reagito alla malattia di Sharon
in un momento così delicato?
Benché la maggioranza degli israeliani sia addolorata,
la loro reazione emotiva è un po’ più
calma di quello che traspare. Israele è un paese
che nella sua breve ma intensa vita ha avuto shock peggiori
della malattia di Sharon. Me ne vengono in mente almeno
due: la guerra di Yom Kippur d el 1973, quando improvvisamente
carri armati siriani apparvero alle porte della Galilea,
segnando nel mito dell’invincibilità di
Israele un vulnus che non si è mai rimarginato;
e poi, dieci anni fa, l’uccisione del primo ministro
Rabbin ad opera di un estremista di destra. Insomma,
Israele ha in sé gli anticorpi e i meccanismi
adatti a superare eventi traumatici.
Come inciderà l’uscita di scena
di Sharon sulla politica israeliana?
Con Sharon scompare l’ultima figura tra quei
“grandi vecchi” che avevano partecipato
alla guerra di indipendenza del ’48. Shimon Peres
ha 82 anni ma non ha mai combattuto quella guerra, e
non ha mai vinto un’elezione, è sempre
stato un numero due. Il mito di Israele ha sempre contato
molto sulla partecipazione alle guerre di difesa, ogni
suo leader, fino ad oggi, era stato in passato esponente
rilevante dei ranghi militari. Sharon è l’ultimo
tra questi, e la sua uscita di scena apre una prospettiva
generazionale che porta con sé molti interrogativi
sulla possibilità di individuare i leader del
futuro.
Anche il popolo palestinese vive il problema
di trovare un nuovo leader.
Arafat e Sharon sono scomparsi dalla questione israelo-palestinese
più o meno nello stesso momento, un fatto emblematico
che ha lasciato da entrambe le parti un problema generazionale.
Sul versante palestinese questo era chiaro già
un anno fa, dopo la morte di Arafat, quando Abu Mazen
fu eletto grazie al forte appoggio che ha avuto dai
Giovani Leoni di Fatah, la generazione di quaranta-cinquantenni
che si aspettavano però, di essere risarciti
in qualche modo riscarciti. Mi spiego meglio: Arafat
aveva accentrato nella sua forte leadership il controllo
di tutte le funzioni più importanti dell’Anp,
ne era il presidente e contemporaneamente era alla guida
dell’Olp e di Fatah, controllava le milizie e
la politica. Con la sua scomparsa si sarebbe potuto
immaginare un cambiamento promosso da diversi fattori;
da una parte i cosiddetti “Tunisini” –
cioè coloro che erano tornati dall’esilio
con Arafat dopo gli accordi di Oslo – non sono
per niente amati dalla popolazione perché hanno
dato cattiva prova di sé, si sono dimostrati
corrotti e divisi in fazioni; dall’altra parte,
i giovani di Fatah, che hanno guidato la prima Intifada
guadagnandosi i galloni sul campo e sono tutti cresciuti
a Gaza e in Cisgiordania (un nome su tutti: Marwan Barghouti),
hanno appoggiato Abu Mazen nella convinzione che questi
fosse il traghettatore verso una nuova leadership che
garantisse loro una strada di ascesa al potere. Abu
Mazen avrebbe dovuto convocare un congresso di Fatah
per sancire l’inizio di questa nuova stagione
e promuovere la generazione più giovane (che
ha nel partito la maggioranza dei consensi) ma, al tempo
stesso, sarebbe stata pensionata tutta la vecchia guardia.
E così non c’è stato nessun congresso
e Fatah è rimasta in bilico tra passato e presente,
completamente lacerata al suo interno.
Una lacerazione che ha in qualche modo favorito
Hamas dal punto di vista politico?
La crisi e l’immobilismo di Fatah hanno permesso
ad Hamas di fare una\ politica di supplenza al vecchio
partito di Arafat, guadagnandosi così un consenso
elettorale chiarissimo negli ultimi sondaggi.
Questa situazione è molto evidente nella striscia
di Gaza, dove Hamas è sì un’organizzazione
terroristica, ma è anche un’organizzazione
sociale che gestisce scuole, ospedali. Insomma: ci sono
territori in cui Hamas si fa carico del welfare conquistandosi
così la fiducia della popolazione.
I palestinesi di Gaza come hanno vissuto il
fatto che il ritiro dei coloni sia avvenuto proprio
per mano del “bulldozer” Sharon?
Intanto bisogna sottolineare che in nessun luogo come
a Gaza il problema demografico era tanto spettacolare.
In più la situazione in quell’area era
divenuta insostenibile anche per la percezione che l’opinione
pubblica ne aveva: 7.500 ebrei utilizzavano circa il
75% delle risorse idriche, mentre a un milione e trecento
mila palestinesi che abitano quella terra restava il
rimanente 25%. C’erano degli scompensi che gridavano
vendetta e imponevano un passo in tal senso. Quanto
ai palestinesi, la maggioranza di loro ha giudicato
il ritiro in maniera positiva, apprezzando il fatto
che ci sia, se non altro, un primo fazzoletto di terra
sul quale poter esercitare una sovranità. Il
problema sta nelle fazioni più estremiste: esattamente
come il ritiro dal Sud del Libano deciso da Barak nel
2000, anche in questo caso alcune formazioni, Hamas
in particolare, hanno rivendicato l’arretramento
israeliano come il frutto prolifico degli attentati
terroristici e della loro politica di assoluta intransigenza.
Sappiamo che sono bugie, ma certe cose possono fare
presa, almeno su una fetta di popolazione.
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