Alla vigilia
delle elezioni legislative palestinesi di fine gennaio,
con un panorama politico dai contorni ancora incerti
e indeterminati per l’uscita di scena di Ariel
Sharon e in vista di una campagna elettorale particolarmente
carica di incognite, Israele si confronta con scenari
inediti e particolarmente complessi.
Le analisi di molti commentatori sono accomunate dall’attenzione
dedicata al nuovo anno e a come questo determinerà
una svolta radicale nello scenario mediorientale, ma
non si può non rilevare che la riduzione di tale
svolta alle sole conseguenze geo-politiche dell’incerto
cambio della guardia al governo d’Israele appare
piuttosto miope.
Si accavallano in queste settimane sulla vita politica,
sulla società israeliana e sulle dinamiche diplomatiche
mediorientali, molti elementi che vanno compresi e analizzati
nel loro complesso: ognuno di essi ha un peso significativo
e determinerà le scelte future; far finta di
non vederli può solo condurre a errori di valutazione
e ad analisi semplicistiche. Rientrano nel numero di
questi elementi di novità e di incertezza l’esito
delle prossime elezioni legislative palestinesi, lo
strutturarsi di una nuova leadership politica israeliana,
l’evolversi della crisi internazionale legata
ai piani nucleari di Ahmadinejad in Iran, l’evolversi
della crisi di potere in Libano e in Siria. Già
questi pochi elementi ci parlano di un quadro straordinariamente
complesso. Tuttavia peseranno, e molto, anche elementi
che sembrano apparentemente più marginali, e
che invece ci paiono sostanziali. In particolare, dando
uno sguardo alla realtà israeliana, vale la pena
di riflettere da un lato su quella che potremmo definire
una nuova questione sociale e dall’altro sul grande
attivismo dei gruppi di fondamentalisti che operano
nei territori occupati.
La “questione sociale” costituisce –
a mio giudizio – la vera novità politica
da tenere sotto osservazione. Si tratta di un elemento
troppo spesso sottovalutato, ma che giocherà
un peso significativo nel prossimo futuro. La società
israeliana si trova oggi ad affrontare una crisi economica
che non ha precedenti: anni di intifada (e quindi di
guerra), che vanno ad assommarsi alla tendenziale recessione
dell’economia mondiale seguita all’11/09
e alla recente speculazione sul prezzo del petrolio,
hanno aumentato fortemente le tensioni sociali in Israele.
Una percentuale che si avvicina rapidamente a un quarto
della popolazione ebraica del paese vive oggi sotto
la soglia di povertà. La classe media e –
in generale – la classe di lavoratori a reddito
fisso ha conosciuto negli ultimi anni un deciso peggioramento
del proprio potere d’acquisto e (in maniera non
dissimile da quel che avviene in Italia) vive sempre
più l’angoscia di perdere il benessere
acquisito nei decenni precedenti e di non riuscire più
né a risparmiare, né a mantenere gli standard
di vita a cui si era abituata. Per fronteggiare la crisi
economica, la cosiddetta ricetta-Netanyahu – il
liberismo thatcheriano con cui l’ex-ministro delle
finanze (oggi a capo di quel che resta del Likud) aveva
pensato di fronteggiare la crisi – se da un lato
aveva assicurato al paese una buona crescita economica,
dall’altro aveva esasperato le tensioni e le sperequazioni
sociali andando a colpire il welfare che per decenni
era stato uno degli elementi caratteristici del sistema
economico israeliano. Non è un caso che a capo
dei laburisti sia stato eletto un sindacalista come
Amir Peretz. Il messaggio è forte e ineludibile:
la questione sociale giocherà un ruolo centrale
nelle prossime elezioni, e i cittadini israeliani chiederanno
al prossimo governo sia una garanzia di sicurezza, sia
una svolta nella politica economica e sociale. Lo ha
capito molto bene Ehud Olmert che, assunto ad interim
l’incarico di ministro delle finanze, ha subito
tentato di ammorbidire alcune delle soluzioni proposte
da Netanyahu.
Il secondo elemento di rilievo e parzialmente inedito
che si impone nel dibattito politico odierno in Israele
è il “fondamentalismo ebraico”. L’uscita
da Gaza, con l’evacuazione delle colonie salutata
giustamente da molti commentatori come un’operazione
modello sul piano dell’efficienza organizzativa
e militare, ha lasciato una ferita aperta nei rapporti
fra destra israeliana (Sharon e i suoi eredi) e gruppi
organizzati di coloni guidati da un’ideologia
apertamente fondamentalista ebraica. Questi gruppi,
piuttosto minoritari ma ben organizzati, hanno avuto
in passato (si vedano le manifestazioni “arancioni”
contro il ritiro da Gaza) e hanno oggi la capacità
di mobilitare grandi masse di simpatizzanti attorno
a parole d’ordine appartenute un tempo al movimento
sionista nel suo insieme e oggi strumentalizzate ad
uso e consumo di un disegno politico estremistico e
potenzialmente destabilizzante. Abituati dalla compiacenza
dello Sharon pre-Gaza a dettare l’agenda politica
interna accendendo ad arte le tensioni con la popolazione
palestinese (si ricordi la strage di Hebron perpetrata
dal dottore-kamikaze Baruch Goldstein nel febbraio 1994),
questi gruppi oggi si sentono “traditi”
e tentano in ogni modo di sabotare con azioni unilaterali
qualsiasi germe di dialogo fra Israele e l’Anp.
Nell’attuale circostanza elettorale palestinese
sono impegnati a favorire le liste che si oppongono
al dialogo provocando di continuo la popolazione palestinese.
Si passa dal taglio notturno di ulivi (migliaia) nei
campi di proprietà palestinese, alle sassaiole
contro abitazioni civili a Hebron, alle provocazioni
nei mercati arabi. Si tratta di gruppi che si sono cullati
per decenni nell’illusione di essere i veri e
unici rappresentanti di un neo-sionismo fortemente religioso,
ampiamente finanziati dalla destra per ragioni politiche:
questi gruppi si sono resi conto, dopo Gaza, che la
democrazia israeliana (anche a destra) è disposta
ad ampia maggioranza a rinunciare almeno a parte dei
territori occupati nel nome di una maggior sicurezza
e di una pace duratura. La questione che si trovano
a fronteggiare è quindi importante e centrale,
soprattutto in un’area come il medioriente: la
democrazia è o no superiore, come valore e come
concreto agire politico, a quella che costoro ritengono
essere la volontà divina?
Non si creda che il dibattito all’interno di questi
gruppi non sia vivace: è certo, tuttavia, che
numerosi gruppi organizzati ritengono la democrazia
solo uno strumento provvisorio, e non esitano a usare
la violenza per affermare i propri convincimenti sia
contro la popolazione palestinese, sia contro le forze
di sicurezza israeliane. Si tratta di capire se e in
che misura la nuova leadeship israeliana – priva
del carisma e del passato di condottiero di Ariel Sharon
– troverà la forza e la capacità
di imporsi e di trattare questi gruppi (che apertamente
sfidano il potere dello Stato d’Israele per condurlo
sul loro terreno) come una minaccia per la sicurezza
dello Stato non dissimile da quella dei gruppi terroristi
palestinesi.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|