293 - 03.02.06


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Novità e incertezze
sulla Knesset che sarà

Gadi Luzzatto Voghera



Alla vigilia delle elezioni legislative palestinesi di fine gennaio, con un panorama politico dai contorni ancora incerti e indeterminati per l’uscita di scena di Ariel Sharon e in vista di una campagna elettorale particolarmente carica di incognite, Israele si confronta con scenari inediti e particolarmente complessi.
Le analisi di molti commentatori sono accomunate dall’attenzione dedicata al nuovo anno e a come questo determinerà una svolta radicale nello scenario mediorientale, ma non si può non rilevare che la riduzione di tale svolta alle sole conseguenze geo-politiche dell’incerto cambio della guardia al governo d’Israele appare piuttosto miope.

Si accavallano in queste settimane sulla vita politica, sulla società israeliana e sulle dinamiche diplomatiche mediorientali, molti elementi che vanno compresi e analizzati nel loro complesso: ognuno di essi ha un peso significativo e determinerà le scelte future; far finta di non vederli può solo condurre a errori di valutazione e ad analisi semplicistiche. Rientrano nel numero di questi elementi di novità e di incertezza l’esito delle prossime elezioni legislative palestinesi, lo strutturarsi di una nuova leadership politica israeliana, l’evolversi della crisi internazionale legata ai piani nucleari di Ahmadinejad in Iran, l’evolversi della crisi di potere in Libano e in Siria. Già questi pochi elementi ci parlano di un quadro straordinariamente complesso. Tuttavia peseranno, e molto, anche elementi che sembrano apparentemente più marginali, e che invece ci paiono sostanziali. In particolare, dando uno sguardo alla realtà israeliana, vale la pena di riflettere da un lato su quella che potremmo definire una nuova questione sociale e dall’altro sul grande attivismo dei gruppi di fondamentalisti che operano nei territori occupati.

La “questione sociale” costituisce – a mio giudizio – la vera novità politica da tenere sotto osservazione. Si tratta di un elemento troppo spesso sottovalutato, ma che giocherà un peso significativo nel prossimo futuro. La società israeliana si trova oggi ad affrontare una crisi economica che non ha precedenti: anni di intifada (e quindi di guerra), che vanno ad assommarsi alla tendenziale recessione dell’economia mondiale seguita all’11/09 e alla recente speculazione sul prezzo del petrolio, hanno aumentato fortemente le tensioni sociali in Israele. Una percentuale che si avvicina rapidamente a un quarto della popolazione ebraica del paese vive oggi sotto la soglia di povertà. La classe media e – in generale – la classe di lavoratori a reddito fisso ha conosciuto negli ultimi anni un deciso peggioramento del proprio potere d’acquisto e (in maniera non dissimile da quel che avviene in Italia) vive sempre più l’angoscia di perdere il benessere acquisito nei decenni precedenti e di non riuscire più né a risparmiare, né a mantenere gli standard di vita a cui si era abituata. Per fronteggiare la crisi economica, la cosiddetta ricetta-Netanyahu – il liberismo thatcheriano con cui l’ex-ministro delle finanze (oggi a capo di quel che resta del Likud) aveva pensato di fronteggiare la crisi – se da un lato aveva assicurato al paese una buona crescita economica, dall’altro aveva esasperato le tensioni e le sperequazioni sociali andando a colpire il welfare che per decenni era stato uno degli elementi caratteristici del sistema economico israeliano. Non è un caso che a capo dei laburisti sia stato eletto un sindacalista come Amir Peretz. Il messaggio è forte e ineludibile: la questione sociale giocherà un ruolo centrale nelle prossime elezioni, e i cittadini israeliani chiederanno al prossimo governo sia una garanzia di sicurezza, sia una svolta nella politica economica e sociale. Lo ha capito molto bene Ehud Olmert che, assunto ad interim l’incarico di ministro delle finanze, ha subito tentato di ammorbidire alcune delle soluzioni proposte da Netanyahu.

Il secondo elemento di rilievo e parzialmente inedito che si impone nel dibattito politico odierno in Israele è il “fondamentalismo ebraico”. L’uscita da Gaza, con l’evacuazione delle colonie salutata giustamente da molti commentatori come un’operazione modello sul piano dell’efficienza organizzativa e militare, ha lasciato una ferita aperta nei rapporti fra destra israeliana (Sharon e i suoi eredi) e gruppi organizzati di coloni guidati da un’ideologia apertamente fondamentalista ebraica. Questi gruppi, piuttosto minoritari ma ben organizzati, hanno avuto in passato (si vedano le manifestazioni “arancioni” contro il ritiro da Gaza) e hanno oggi la capacità di mobilitare grandi masse di simpatizzanti attorno a parole d’ordine appartenute un tempo al movimento sionista nel suo insieme e oggi strumentalizzate ad uso e consumo di un disegno politico estremistico e potenzialmente destabilizzante. Abituati dalla compiacenza dello Sharon pre-Gaza a dettare l’agenda politica interna accendendo ad arte le tensioni con la popolazione palestinese (si ricordi la strage di Hebron perpetrata dal dottore-kamikaze Baruch Goldstein nel febbraio 1994), questi gruppi oggi si sentono “traditi” e tentano in ogni modo di sabotare con azioni unilaterali qualsiasi germe di dialogo fra Israele e l’Anp. Nell’attuale circostanza elettorale palestinese sono impegnati a favorire le liste che si oppongono al dialogo provocando di continuo la popolazione palestinese. Si passa dal taglio notturno di ulivi (migliaia) nei campi di proprietà palestinese, alle sassaiole contro abitazioni civili a Hebron, alle provocazioni nei mercati arabi. Si tratta di gruppi che si sono cullati per decenni nell’illusione di essere i veri e unici rappresentanti di un neo-sionismo fortemente religioso, ampiamente finanziati dalla destra per ragioni politiche: questi gruppi si sono resi conto, dopo Gaza, che la democrazia israeliana (anche a destra) è disposta ad ampia maggioranza a rinunciare almeno a parte dei territori occupati nel nome di una maggior sicurezza e di una pace duratura. La questione che si trovano a fronteggiare è quindi importante e centrale, soprattutto in un’area come il medioriente: la democrazia è o no superiore, come valore e come concreto agire politico, a quella che costoro ritengono essere la volontà divina?
Non si creda che il dibattito all’interno di questi gruppi non sia vivace: è certo, tuttavia, che numerosi gruppi organizzati ritengono la democrazia solo uno strumento provvisorio, e non esitano a usare la violenza per affermare i propri convincimenti sia contro la popolazione palestinese, sia contro le forze di sicurezza israeliane. Si tratta di capire se e in che misura la nuova leadeship israeliana – priva del carisma e del passato di condottiero di Ariel Sharon – troverà la forza e la capacità di imporsi e di trattare questi gruppi (che apertamente sfidano il potere dello Stato d’Israele per condurlo sul loro terreno) come una minaccia per la sicurezza dello Stato non dissimile da quella dei gruppi terroristi palestinesi.

 


 

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