La scomparsa
di Ariel Sharon dalla scena politica israeliana e internazionale
solleva numerose questioni. Innanzitutto sul futuro
politico di Israele e del processo di pace. Chi si caricherà
dell’eredità lasciata da Sharon? Olmert?
Il neonato partito di Kadìma? E soprattutto qual
è l’eredità che Sharon lascia? Quella
di un falco quasi trasformato in colomba o quella di
uno scaltro uomo politico e militare? Ne abbiamo parlato
con Fred Dallmayr, teorico politico e docente presso
la Notre Dame University in Indiana, che ha dedicato
molti dei suoi studi al tema del dialogo tra civiltà.
Gli ultimi sviluppi della politica di Sharon,
specialmente per quanto riguarda l’evacuazione
della Striscia di Gaza, sono in un certo senso considerati
un cambiamento verso una politica “da colomba”.
Lei come li definirebbe? Alcuni sostengono che si sia
trattato di un’iniziativa unilaterale. E’
d’accordo? E se non lo è, perché?
L’evacuazione della Striscia di Gaza è
stata certamente un passo positivo per il cosiddetto
“processo di pace”. Si può immaginare
che questo passo possa farne muovere altri nella stessa
direzione. Comunque, non credo che, per quanto riguarda
Ariel Sharon, esso abbia significato un cambiamento
verso una politica “da colomba”. Alcuni
esponenti della destra hanno accusato Sharon di essere
diventato una colomba; altri, a sinistra, per questo
stesso motivo lo hanno elogiato. Personalmente, non
ritengo affatto che si sia trattato di una trasformazione
di questo genere. Sharon è sempre stato uno scaltro
stratega politico, ha sempre mosso le proprie pedine
politiche su una scacchiera rigidamente machiavellica.
Per uno stratega l’unica ragione è di tipo
razionale: massimizzare i guadagni, minimizzare le perdite.
Sono convinto che, a lungo termine, per Sharon l’evacuazione
della Striscia di Gaza promettesse più utili
riducendo i costi. È questo il cuore del pensiero
strategico. Per uno stratega politico, il solo “valore”
(se si vuole chiamarlo così) è la sopravvivenza
– in questo caso la sopravvivenza di Israele come
Paese. Nessuno può dubitare del fatto che si
tratti di una considerazione importante in politica,
specialmente nel caso di un Paese come Israele che è
circondato da vicini perlopiù ostili. Ma ovviamente,
in politica, la sopravvivenza o la conservazione della
vita fisica è solo una dimensione (assolutamente
non trascurabile); l’altra dimensione è
etica: promuovere la giustizia e la “vita buona”
come la chiamava Aristotele. Un leader politico che
è capace di combinare sopravvivenza strategica
e promozione della “vita buona” è
giustamente detto “statista”. Sharon era
ed è uno stratega e l’evacuazione deve
essere considerata sotto questa luce. C’è
sempre una grande carenza di statisti, ovunque.
Dopo la scomparsa di Ariel Sharon dalla scena
politica israeliana, quale potrebbe essere il futuro
di Kadìma? Pensa che Olmert sarà in grado
di sostituire la figura e la personalità politiche
di Sharon? Inoltre, non sarà difficile per Kadìma
– partito in cui molti membri provengono dal Likud
– conquistare la fiducia dei laburisti.
Il futuro di Kadìma è oggetto di riflessione.
Il nuovo partito era l’ultimo figlio di Sharon;
solo lui poteva dire quale tipo di visione lo avrebbe
guidato (e io non sono al corrente di cosa pensasse).
La mia sensazione è che lui volesse qualcosa
di simile a una “terza via” tra il Likud
e il partito Laburista (un po’ come la “terza
via” di Blair). È troppo presto per dire
se Olmert potrà sostituire Sharon come figura
politica; certamente non riuscirà a eguagliare
la sua personalità esuberante. Con Sharon che
svanisce nello sfondo, il futuro di Kadìma è
incerto. Dubito che molti sostenitori del Partito Laburista
vorranno abbandonare un’organizzazione funzionante
e nota per un partito che non ha obiettivi politici
chiari e nessun passato.
Da parte palestinese, c’è un’evidente
mancanza di interlocutori. Pensa che la scomparsa politica
di Sharon possa rafforzare Hamas come partito?
Non è che da parte palestinese non ci siano
interlocutori; ma pochi hanno un seguito sufficientemente
ampio e/o si qualificano come grandi leader. Ai palestinesi
non solo mancano statisti, ma sembra che essi non abbiano
neppure strateghi sufficientemente abili e familiari
con la scacchiera machiavellica. Essi agiscono troppo
spesso impulsivamente o sull’onda dell’emozione
– cosa che negli scacchi è quasi sempre
una pessima mossa. Inoltre, la parte palestinese è
molto divisa e frammentata al proprio interno (cosa
che non può non essere stata gradita a uno stratega
come Sharon). C’è la possibilità
e persino la probabilità che, date le incertezze
esistenti, tra le varie fazioni concorrenti, Hamas si
rafforzerà per via del suo maggiore radicalismo
e del suo richiamo populista. Se ciò dovesse
accadere, la destra radicale israeliana si sentirà
giustificata e legittimata nell’irrigidire le
proprie politiche. (Perciò tornando agli scacchi:
l’ascesa di Hamas sarà una mossa per niente
ottimale).
Cosa si aspetta da Unione Europea e Stati Uniti?
Le mie aspettative riguardo l’Unione Europea
e gli Stati Uniti sono molto modeste. Riguardo gli Stati
Uniti, sono addirittura minime. Dopo l’invasione
dell’Iraq, il “processo di pace” è
stato pressoché abbandonato o messo in secondo
piano; non mi aspetto che questa politica cambi nel
prossimo futuro. Riguardo l’Unione Europea, le
mie attese sono un po’ più alte. Data la
sua vicinanza con Israele, l’Ue potrebbe svolgere
un ruolo potenzialmente significativo in termini di
peace-making e peace-keeping. Ciò richiederebbe
da parte dei leader dell’Unione alcune qualità
degli statisti (di cui, come ho detto prima, c’è
carenza).
Per concludere, quali sono le sue speranze
per Israele e per i Palestinesi? Esiste ancora la possibilità
di un dialogo tra civiltà?
Non bisognerebbe mai abbandonare la speranza. Con un
po’ di buona volontà da entrambe le parti,
il dialogo può ancora essere possibile. A questo
proposito, è importante ricordare quanto segue:
il cosiddetto “dialogo tra civiltà”
(come antidoto allo “scontro”) è
un impegno etico e perciò implica un certo autocontrollo
o una certa autolimitazione (o quantomeno una riduzione
dell’egoismo unilaterale). Come impegno etico,
il dialogo richiede il riconoscimento reciproco e, da
ambo i lati, un impegno in favore della giustizia e
della “vita buona”. Inizialmente potrebbe
essere un obiettivo troppo alto. Fortunatamente, man
mano che il dialogo inizia e prosegue, c’è
la possibilità che le persone arrivino a comprendersi
e apprezzarsi reciprocamente sempre di più e
vogliano che il dialogo continui. Nel dialogo il percorso
è in salita, perciò quello che all’inizio
è difficile diventa facile con il tempo. I bravi
statisti possono e devono sostenere questo cammino in
salita.
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