293 - 03.02.06


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La terza via dello stratega

Fred Dallmayr
con Martina Toti



La scomparsa di Ariel Sharon dalla scena politica israeliana e internazionale solleva numerose questioni. Innanzitutto sul futuro politico di Israele e del processo di pace. Chi si caricherà dell’eredità lasciata da Sharon? Olmert? Il neonato partito di Kadìma? E soprattutto qual è l’eredità che Sharon lascia? Quella di un falco quasi trasformato in colomba o quella di uno scaltro uomo politico e militare? Ne abbiamo parlato con Fred Dallmayr, teorico politico e docente presso la Notre Dame University in Indiana, che ha dedicato molti dei suoi studi al tema del dialogo tra civiltà.

Gli ultimi sviluppi della politica di Sharon, specialmente per quanto riguarda l’evacuazione della Striscia di Gaza, sono in un certo senso considerati un cambiamento verso una politica “da colomba”. Lei come li definirebbe? Alcuni sostengono che si sia trattato di un’iniziativa unilaterale. E’ d’accordo? E se non lo è, perché?

L’evacuazione della Striscia di Gaza è stata certamente un passo positivo per il cosiddetto “processo di pace”. Si può immaginare che questo passo possa farne muovere altri nella stessa direzione. Comunque, non credo che, per quanto riguarda Ariel Sharon, esso abbia significato un cambiamento verso una politica “da colomba”. Alcuni esponenti della destra hanno accusato Sharon di essere diventato una colomba; altri, a sinistra, per questo stesso motivo lo hanno elogiato. Personalmente, non ritengo affatto che si sia trattato di una trasformazione di questo genere. Sharon è sempre stato uno scaltro stratega politico, ha sempre mosso le proprie pedine politiche su una scacchiera rigidamente machiavellica. Per uno stratega l’unica ragione è di tipo razionale: massimizzare i guadagni, minimizzare le perdite. Sono convinto che, a lungo termine, per Sharon l’evacuazione della Striscia di Gaza promettesse più utili riducendo i costi. È questo il cuore del pensiero strategico. Per uno stratega politico, il solo “valore” (se si vuole chiamarlo così) è la sopravvivenza – in questo caso la sopravvivenza di Israele come Paese. Nessuno può dubitare del fatto che si tratti di una considerazione importante in politica, specialmente nel caso di un Paese come Israele che è circondato da vicini perlopiù ostili. Ma ovviamente, in politica, la sopravvivenza o la conservazione della vita fisica è solo una dimensione (assolutamente non trascurabile); l’altra dimensione è etica: promuovere la giustizia e la “vita buona” come la chiamava Aristotele. Un leader politico che è capace di combinare sopravvivenza strategica e promozione della “vita buona” è giustamente detto “statista”. Sharon era ed è uno stratega e l’evacuazione deve essere considerata sotto questa luce. C’è sempre una grande carenza di statisti, ovunque.

Dopo la scomparsa di Ariel Sharon dalla scena politica israeliana, quale potrebbe essere il futuro di Kadìma? Pensa che Olmert sarà in grado di sostituire la figura e la personalità politiche di Sharon? Inoltre, non sarà difficile per Kadìma – partito in cui molti membri provengono dal Likud – conquistare la fiducia dei laburisti.

Il futuro di Kadìma è oggetto di riflessione. Il nuovo partito era l’ultimo figlio di Sharon; solo lui poteva dire quale tipo di visione lo avrebbe guidato (e io non sono al corrente di cosa pensasse). La mia sensazione è che lui volesse qualcosa di simile a una “terza via” tra il Likud e il partito Laburista (un po’ come la “terza via” di Blair). È troppo presto per dire se Olmert potrà sostituire Sharon come figura politica; certamente non riuscirà a eguagliare la sua personalità esuberante. Con Sharon che svanisce nello sfondo, il futuro di Kadìma è incerto. Dubito che molti sostenitori del Partito Laburista vorranno abbandonare un’organizzazione funzionante e nota per un partito che non ha obiettivi politici chiari e nessun passato.

Da parte palestinese, c’è un’evidente mancanza di interlocutori. Pensa che la scomparsa politica di Sharon possa rafforzare Hamas come partito?

Non è che da parte palestinese non ci siano interlocutori; ma pochi hanno un seguito sufficientemente ampio e/o si qualificano come grandi leader. Ai palestinesi non solo mancano statisti, ma sembra che essi non abbiano neppure strateghi sufficientemente abili e familiari con la scacchiera machiavellica. Essi agiscono troppo spesso impulsivamente o sull’onda dell’emozione – cosa che negli scacchi è quasi sempre una pessima mossa. Inoltre, la parte palestinese è molto divisa e frammentata al proprio interno (cosa che non può non essere stata gradita a uno stratega come Sharon). C’è la possibilità e persino la probabilità che, date le incertezze esistenti, tra le varie fazioni concorrenti, Hamas si rafforzerà per via del suo maggiore radicalismo e del suo richiamo populista. Se ciò dovesse accadere, la destra radicale israeliana si sentirà giustificata e legittimata nell’irrigidire le proprie politiche. (Perciò tornando agli scacchi: l’ascesa di Hamas sarà una mossa per niente ottimale).

Cosa si aspetta da Unione Europea e Stati Uniti?

Le mie aspettative riguardo l’Unione Europea e gli Stati Uniti sono molto modeste. Riguardo gli Stati Uniti, sono addirittura minime. Dopo l’invasione dell’Iraq, il “processo di pace” è stato pressoché abbandonato o messo in secondo piano; non mi aspetto che questa politica cambi nel prossimo futuro. Riguardo l’Unione Europea, le mie attese sono un po’ più alte. Data la sua vicinanza con Israele, l’Ue potrebbe svolgere un ruolo potenzialmente significativo in termini di peace-making e peace-keeping. Ciò richiederebbe da parte dei leader dell’Unione alcune qualità degli statisti (di cui, come ho detto prima, c’è carenza).

Per concludere, quali sono le sue speranze per Israele e per i Palestinesi? Esiste ancora la possibilità di un dialogo tra civiltà?

Non bisognerebbe mai abbandonare la speranza. Con un po’ di buona volontà da entrambe le parti, il dialogo può ancora essere possibile. A questo proposito, è importante ricordare quanto segue: il cosiddetto “dialogo tra civiltà” (come antidoto allo “scontro”) è un impegno etico e perciò implica un certo autocontrollo o una certa autolimitazione (o quantomeno una riduzione dell’egoismo unilaterale). Come impegno etico, il dialogo richiede il riconoscimento reciproco e, da ambo i lati, un impegno in favore della giustizia e della “vita buona”. Inizialmente potrebbe essere un obiettivo troppo alto. Fortunatamente, man mano che il dialogo inizia e prosegue, c’è la possibilità che le persone arrivino a comprendersi e apprezzarsi reciprocamente sempre di più e vogliano che il dialogo continui. Nel dialogo il percorso è in salita, perciò quello che all’inizio è difficile diventa facile con il tempo. I bravi statisti possono e devono sostenere questo cammino in salita.


 

 

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