Questo
articolo è stato pubblicato sul quotidiano
Il Secolo XIX il 27 gennaio 2006.
È finita come molti, in queste settimane, auspicavano
che non finisse. Con Hamas che vince e la generazione
dei padri dell’esilio che chiude la sua avventura
politica iniziata quaranta anni fa quando il giovane
Arafat fondava Al Fatah. La creatura del rais non ha
retto alla sua morte.
Domandarsi perché abbia vinto Hamas oggi forse
è un facile esercizio Qualcuno dirà che
ha vinto l’antipolitica contro il potere corrotto
dei clan locali; contro i signori della guerra che hanno
a lungo espresso scelte senza costruire una società
civile; che hanno governato il malcontento ma non hanno
costruito un futuro migliore; che, infine, sono rimasti
prigionieri di una politica “politicante che manteneva
la signora Arafat, ma che lasciava molti senza un domani.
Ora, tuttavia, è già domani. E il domani
è fatto delle scelte che farà Hamas: se
preferirà cavalcare l’antipolitica o governarla.
Se deciderà di mobilitare populisticamente la
società civile ed esalterà i martiri della
fede o adotterà il realismo politico della mediazione,
della trattativa, dell’accordo politico.
Il problema di oggi è: se lo sbocco sarà
la guerra civile simulata per ridurre a zero l’avversario
interno incrementando l’asse del rifiuto alla
trattativa con Israele. In questo caso si scatenerà
una nuova attività di attentati. Lo scenario
alternativo vede invece l’abbandono della politica
del terrorismo e l’apertura del confronto con
il nemico di sempre. Questa scelta non sarà un
dettaglio.
Dalle ultime elezioni, i palestinesi non sono più
figli di un dio minore. Il futuro di uno Stato e di
una classe politica di governo è ora nelle loro
mani senza scusanti. Dopo il successo di Hamas i palestinesi
hanno l’obbligo di maturare una scelta politica
e di assumersene la responsabilità, visto che
il significato ultimo del voto di mercoledì è
proprio questo: la fine della tutela politica.
Nello scenario del Medio Oriente certo non ci sono solo
loro. Ci sono anche gli israeliani. Vedremo cosa uscirà
dalle loro elezioni il 29 marzo. L’esito di quel
confronto elettorale si costruirà anche in queste
settimane in conseguenza delle decisioni e delle azioni
dei palestinesi a partire da oggi.
Infine, ci siamo noi europei: il triangolo tra il Mediterraneo
e il Giordano è oggi uno scenario caldo che chiede
decisioni cui sarà impossibile sottrarsi. La
possibilità di un futuro è anche nelle
nostre mani, nelle mani di un’Europa che sappia
finalmente pensare un progetto per il Mediterraneo e
che abbandoni la politica del tifo. L’Europa,
già adesso, deve affrontare con consapevolezza
e determinazione una politica di governo per il Medio
Oriente che ancora non c’è e che non può
risolversi né nell’invocazione generica
alla pace, né in un ruolo di intervento umanitario.
Non si tratta di mettersi in mezzo tra due figure nemiche,
ovvero di svolgere una funzione cuscinetto. Si tratta
di decidere se e in che modo sarà governabile
un processo economico e politico che di fatto modifica
la costruzione delle classi dirigenti post-coloniali
degli ultimi cinquant’anni.
Forse, per molti, le elezioni palestinesi avevano un
colore e un valore locali. Se qualcuno lo ha pensato
ha sbagliato analisi. L’esito elettorale ha mandato
a dire che la prova delle urne in situazioni politiche
a libertà limitata e in regime di autocrazia
riserva sorprese e indica uno scarso controllo da parte
delle élite politiche consolidate. Se questo
risultato è confortante in nome dell’elettore
che decide lo è meno in termini di governabilità
dei processi (sarà il caso, a questo punto, che
qualcuno per esempio pensi a cosa sarà l’Egitto
dopo Mubarak).
Noi manchiamo ancora di molti dati. Per esempio: come
ha votato il corpo dei cristiani palestinesi? Qual è
la geografia dell’astensionismo o del non voto?
Qual è il futuro della cooperazione economica
o delle presenza dell’intero settore europeo –
ovvero dei progetti di cooperazione allo sviluppo –
ora, in quell’area?
Tutto questo forse dice, al di là dei numeri
grezzi, che lo scenario è complesso, che governarlo
non sarà facile e che scendere in pazza per festeggiare
va bene la prima sera, ma poi toccherà governare
per davvero.
È il tempo della politica quello che abbiamo
di fronte e forse non è un tempo infinito. Né
per i palestinesi, né per chi governerà
Israele domani, né infine per noi europei, sia
per la destra sia per la sinistra.
Il Medio Oriente da oggi non è più un
gioco, semmai qualcuno avesse pensato che lo fosse stato.
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