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Terrorismo o politica.
È il momento delle scelte

David Bidussa



Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano
Il Secolo XIX
il 27 gennaio 2006.

È finita come molti, in queste settimane, auspicavano che non finisse. Con Hamas che vince e la generazione dei padri dell’esilio che chiude la sua avventura politica iniziata quaranta anni fa quando il giovane Arafat fondava Al Fatah. La creatura del rais non ha retto alla sua morte.
Domandarsi perché abbia vinto Hamas oggi forse è un facile esercizio Qualcuno dirà che ha vinto l’antipolitica contro il potere corrotto dei clan locali; contro i signori della guerra che hanno a lungo espresso scelte senza costruire una società civile; che hanno governato il malcontento ma non hanno costruito un futuro migliore; che, infine, sono rimasti prigionieri di una politica “politicante che manteneva la signora Arafat, ma che lasciava molti senza un domani.

Ora, tuttavia, è già domani. E il domani è fatto delle scelte che farà Hamas: se preferirà cavalcare l’antipolitica o governarla. Se deciderà di mobilitare populisticamente la società civile ed esalterà i martiri della fede o adotterà il realismo politico della mediazione, della trattativa, dell’accordo politico.
Il problema di oggi è: se lo sbocco sarà la guerra civile simulata per ridurre a zero l’avversario interno incrementando l’asse del rifiuto alla trattativa con Israele. In questo caso si scatenerà una nuova attività di attentati. Lo scenario alternativo vede invece l’abbandono della politica del terrorismo e l’apertura del confronto con il nemico di sempre. Questa scelta non sarà un dettaglio.

Dalle ultime elezioni, i palestinesi non sono più figli di un dio minore. Il futuro di uno Stato e di una classe politica di governo è ora nelle loro mani senza scusanti. Dopo il successo di Hamas i palestinesi hanno l’obbligo di maturare una scelta politica e di assumersene la responsabilità, visto che il significato ultimo del voto di mercoledì è proprio questo: la fine della tutela politica.
Nello scenario del Medio Oriente certo non ci sono solo loro. Ci sono anche gli israeliani. Vedremo cosa uscirà dalle loro elezioni il 29 marzo. L’esito di quel confronto elettorale si costruirà anche in queste settimane in conseguenza delle decisioni e delle azioni dei palestinesi a partire da oggi.

Infine, ci siamo noi europei: il triangolo tra il Mediterraneo e il Giordano è oggi uno scenario caldo che chiede decisioni cui sarà impossibile sottrarsi. La possibilità di un futuro è anche nelle nostre mani, nelle mani di un’Europa che sappia finalmente pensare un progetto per il Mediterraneo e che abbandoni la politica del tifo. L’Europa, già adesso, deve affrontare con consapevolezza e determinazione una politica di governo per il Medio Oriente che ancora non c’è e che non può risolversi né nell’invocazione generica alla pace, né in un ruolo di intervento umanitario.
Non si tratta di mettersi in mezzo tra due figure nemiche, ovvero di svolgere una funzione cuscinetto. Si tratta di decidere se e in che modo sarà governabile un processo economico e politico che di fatto modifica la costruzione delle classi dirigenti post-coloniali degli ultimi cinquant’anni.

Forse, per molti, le elezioni palestinesi avevano un colore e un valore locali. Se qualcuno lo ha pensato ha sbagliato analisi. L’esito elettorale ha mandato a dire che la prova delle urne in situazioni politiche a libertà limitata e in regime di autocrazia riserva sorprese e indica uno scarso controllo da parte delle élite politiche consolidate. Se questo risultato è confortante in nome dell’elettore che decide lo è meno in termini di governabilità dei processi (sarà il caso, a questo punto, che qualcuno per esempio pensi a cosa sarà l’Egitto dopo Mubarak).
Noi manchiamo ancora di molti dati. Per esempio: come ha votato il corpo dei cristiani palestinesi? Qual è la geografia dell’astensionismo o del non voto? Qual è il futuro della cooperazione economica o delle presenza dell’intero settore europeo – ovvero dei progetti di cooperazione allo sviluppo – ora, in quell’area?

Tutto questo forse dice, al di là dei numeri grezzi, che lo scenario è complesso, che governarlo non sarà facile e che scendere in pazza per festeggiare va bene la prima sera, ma poi toccherà governare per davvero.
È il tempo della politica quello che abbiamo di fronte e forse non è un tempo infinito. Né per i palestinesi, né per chi governerà Israele domani, né infine per noi europei, sia per la destra sia per la sinistra.
Il Medio Oriente da oggi non è più un gioco, semmai qualcuno avesse pensato che lo fosse stato.

 

 

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