293 - 03.02.06


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“L’Ue guidi il
processo di pace”

Sami Adwan con
Daniele Castellani Perelli



L’uscita di scena di Ariel Sharon divide il mondo palestinese. I leader politici si rammaricano per la perdita dell’uomo del clamoroso ritiro da Gaza, il popolo festeggia nelle strade. “Non possiamo dimenticare il suo passato, è responsabile del massacro del villaggio di Qibya e di Sabra e Chatila, e dell’uccisione dei prigionieri di guerra egiziani negli anni Sessanta”, ci dice Sami Adwan, professore dell’Università di Betlemme che, insieme al collega israeliano Dan Bar-On dirige a Beit Jalah il Peace Research Institute in the Middle East (un centro che, finanziato dal Peace Research Institute di Francoforte, intende proporre alle scuole israeliane e palestinesi un’unica versione della loro storia comune, affinché essa non sia più un’arma del conflitto). L’intellettuale palestinese, che proprio in Italia è stato insignito di un premio di pace per questo suo progetto (che ha attirato l’attenzione anche della stampa americana), al telefono da Betlemme sottovaluta il dispiacere con cui la dirigenza palestinese ha accolto la malattia di Sharon (“È solo dovuto a ragioni umane”) e pensa che il lascito politico del premier israeliano non sarà così memorabile (“La politica israeliana rimarrà la stessa, rimarrà una politica d’occupazione dei nostri territori: continuerà la costruzione del muro, l’assedio e la chiusura dei territori”). Per Adwan, che spera in un successo laburista alle prossime elezioni israeliane, contano tuttavia “più le pressioni internazionali che i singoli leader israeliani”, e per il futuro spera che sia l’Unione Europea a “prendere in mano il processo di pace”.
Quanto ad Hamas, che potrebbe vincere le elezioni palestinesi del 25 gennaio, “va incoraggiata a prendere parte alla nostra democrazia. Solo così abbandonerà la violenza e una piattaforma politica ideologica”.

Come si vive nei territori palestinesi la malattia di Sharon?

Il dibattito è anzitutto dominato, da noi, dalle elezioni palestinesi del 25 gennaio. Ma ci chiediamo anche, ovviamente, quali saranno le conseguenze della malattia di Sharon. Io credo che la politica israeliana rimarrà la stessa, rimarrà una politica d’occupazione dei nostri territori: continuerà la costruzione del muro, l’assedio e la chiusura dei territori. Noi palestinesi speriamo che Sharon possa sopravvivere e possa contribuire a far cambiare ai dirigenti israeliani la loro ideologia, come è già successo grazie al ritiro da Gaza. Noi speriamo in nuovi accordi di pace, ma non sappiamo se il successore di Sharon sarà disponibile al dialogo.

Oggi come giudicano i palestinesi Sharon? Anche per loro è un leader della grandezza di Yitzhak Rabin?

In questo momento Sharon è un uomo che combatte contro la morte, e noi proviamo pietà e solidarietà umana per le sue condizioni di salute. Tuttavia noi palestinesi non possiamo dimenticare la sua storia, non possiamo dimenticare che è stato un assassino. E’ responsabile del massacro di Qibya e di Sabra e Chatila, e dell’uccisione dei prigionieri di guerra egiziani negli anni sessanta. Negli ultimi anni ha cambiato idea e ha praticato un’altra politica, ma noi non possiamo dimenticare, e noi palestinesi temiamo che i progressi da lui compiuti negli ultimi anni non siano tali da far sperare, oggi, in un futuro migliore.

Però la leadership palestinese ha usato parole diverse verso Sharon. Il presidente Abu Mazen si è subito preoccupato delle condizioni del leader palestinese.

Come le ho detto, oggi i giudizi sono molto condizionati dal suo stato di salute. È solo una espressione di simpatia umana.

In campo israeliano, in vista delle prossime elezioni del 28 marzo, chi potrebbe avvantaggiarsi dell’uscita di scena del premier? I laburisti o i conservatori del Likud, l’ex partito di Sharon oggi guidato dal “falco” Benjamin Netanyahu?

Credo che il Labour potrebbe trarre vantaggio della situazione, ma temo che non potrà ottenere la maggioranza. Il Likud ha sofferto terribilmente l’uscita di Sharon e di quanti sono confluiti nel nuovo partito Kadìma, che, nonostante tutto, risulterà il partito di maggioranza relativa alla Knesset (parlamento israeliano, ndr).

Quindi lei crede che il processo di pace ha più speranze di successo se, da parte israeliana, sarà guidato dai laburisti di Amir Peretz?

Credo che dipenda molto di più dalle condizioni politiche internazionali. Le pressioni internazionali da parte di Usa e Europa sono più decisive dei singoli che si trovano ad occupare i vertici politici israeliani.

Una delle prime decisioni prese dal premier israeliano ad interim, Ehud Olmert, è stata quella di accettare che anche i cittadini arabi di Gerusalemme Est partecipino alle elezioni palestinesi. Lo considera un atto dovuto?

Più che un atto dovuto, è una decisione presa grazie alle pressioni del governo statunitense.

Veniamo al campo palestinese. Hamas minaccia la guerra civile nel caso in cui il governo, guidato dai rivali di al-Fatah, decidesse il rinvio delle elezioni.

Confermare le elezioni per il 25 gennaio sarebbe positivo per tutti i palestinesi, non solo per Hamas. Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha già promesso che le elezioni si terranno nella data prevista. Quanto a Hamas, è probabile che, dopo la vittoria alle amministrative di dicembre, possa conseguire un ottimo risultato anche alle elezioni parlamentari. Credo che avrà tra i 35 e i 40 seggi (su 134, ndr). La strategia di Hamas è quella di entrare nel mondo politico, costruirsi un’agenda politica. Se i suoi dirigenti sono intelligenti, ne approfitteranno per prendere parte al processo di pace. Se invece non abbandoneranno l’uso della forza, allora perderanno il sostegno dei propri elettori.

Pensa che il dialogo israeliano-palestinese sarebbe aiutato da una presenza più decisa dell’Unione Europea?

Gli europei sono molto più vicini alla regione di quanto lo siano gli americani, e sono molto più rispettati di loro, specialmente da parte dei palestinesi. Noi speriamo e ci aspettiamo che gli europei sappiano sviluppare sempre più un ruolo autonomo, che non si limitino ad essere l’ombra degli Stati Uniti. Per motivi storici e geografici, gli europei hanno una comprensione migliore del Medio Oriente, e specialmente i paesi meridionali come l’Italia, sono in grado di contribuire attivamente al processo politico. L’Unione Europea ora è più forte, e dovrebbe prendere in mano il processo di pace. Credo che possa farcela.

Però l’Europa, negli ultimi anni, ha preso una posizione molto dura nei confronti di Hamas...

Hamas va incoraggiata a prendere parte alla nostra democrazia. Solo così abbandonerà la violenza e una piattaforma politica ideologica. Hamas guadagnerà diversi seggi a queste elezioni, e spero che l’Europa capisca che non possiamo essere puniti due volte per questo. Noi palestinesi dovremo già assumerci il peso, delicato, dell’ingresso di Hamas nella nostra vita democratica. Non sarebbe facile dover subire anche sanzioni economiche e politiche internazionali.

 

 

 

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