L’uscita
di scena di Ariel Sharon divide il mondo palestinese.
I leader politici si rammaricano per la perdita dell’uomo
del clamoroso ritiro da Gaza, il popolo festeggia nelle
strade. “Non possiamo dimenticare il suo passato,
è responsabile del massacro del villaggio di
Qibya e di Sabra e Chatila, e dell’uccisione dei
prigionieri di guerra egiziani negli anni Sessanta”,
ci dice Sami Adwan, professore dell’Università
di Betlemme che, insieme al collega israeliano Dan Bar-On
dirige a Beit Jalah il Peace Research Institute in the
Middle East (un centro che, finanziato dal Peace Research
Institute di Francoforte, intende proporre alle scuole
israeliane e palestinesi un’unica versione della
loro storia comune, affinché essa non sia più
un’arma del conflitto). L’intellettuale
palestinese, che proprio in Italia è stato insignito
di un premio di pace per questo suo progetto (che ha
attirato l’attenzione anche della stampa americana),
al telefono da Betlemme sottovaluta il dispiacere con
cui la dirigenza palestinese ha accolto la malattia
di Sharon (“È solo dovuto a ragioni umane”)
e pensa che il lascito politico del premier israeliano
non sarà così memorabile (“La politica
israeliana rimarrà la stessa, rimarrà
una politica d’occupazione dei nostri territori:
continuerà la costruzione del muro, l’assedio
e la chiusura dei territori”). Per Adwan, che
spera in un successo laburista alle prossime elezioni
israeliane, contano tuttavia “più le pressioni
internazionali che i singoli leader israeliani”,
e per il futuro spera che sia l’Unione Europea
a “prendere in mano il processo di pace”.
Quanto ad Hamas, che potrebbe vincere le elezioni palestinesi
del 25 gennaio, “va incoraggiata a prendere parte
alla nostra democrazia. Solo così abbandonerà
la violenza e una piattaforma politica ideologica”.
Come si vive nei territori palestinesi la malattia
di Sharon?
Il dibattito è anzitutto dominato, da noi, dalle
elezioni palestinesi del 25 gennaio. Ma ci chiediamo
anche, ovviamente, quali saranno le conseguenze della
malattia di Sharon. Io credo che la politica israeliana
rimarrà la stessa, rimarrà una politica
d’occupazione dei nostri territori: continuerà
la costruzione del muro, l’assedio e la chiusura
dei territori. Noi palestinesi speriamo che Sharon possa
sopravvivere e possa contribuire a far cambiare ai dirigenti
israeliani la loro ideologia, come è già
successo grazie al ritiro da Gaza. Noi speriamo in nuovi
accordi di pace, ma non sappiamo se il successore di
Sharon sarà disponibile al dialogo.
Oggi come giudicano i palestinesi Sharon? Anche
per loro è un leader della grandezza di Yitzhak
Rabin?
In questo momento Sharon è un uomo che combatte
contro la morte, e noi proviamo pietà e solidarietà
umana per le sue condizioni di salute. Tuttavia noi
palestinesi non possiamo dimenticare la sua storia,
non possiamo dimenticare che è stato un assassino.
E’ responsabile del massacro di Qibya e di Sabra
e Chatila, e dell’uccisione dei prigionieri di
guerra egiziani negli anni sessanta. Negli ultimi anni
ha cambiato idea e ha praticato un’altra politica,
ma noi non possiamo dimenticare, e noi palestinesi temiamo
che i progressi da lui compiuti negli ultimi anni non
siano tali da far sperare, oggi, in un futuro migliore.
Però la leadership palestinese ha usato
parole diverse verso Sharon. Il presidente Abu Mazen
si è subito preoccupato delle condizioni del
leader palestinese.
Come le ho detto, oggi i giudizi sono molto condizionati
dal suo stato di salute. È solo una espressione
di simpatia umana.
In campo israeliano, in vista delle prossime
elezioni del 28 marzo, chi potrebbe avvantaggiarsi dell’uscita
di scena del premier? I laburisti o i conservatori del
Likud, l’ex partito di Sharon oggi guidato dal
“falco” Benjamin Netanyahu?
Credo che il Labour potrebbe trarre vantaggio della
situazione, ma temo che non potrà ottenere la
maggioranza. Il Likud ha sofferto terribilmente l’uscita
di Sharon e di quanti sono confluiti nel nuovo partito
Kadìma, che, nonostante tutto, risulterà
il partito di maggioranza relativa alla Knesset (parlamento
israeliano, ndr).
Quindi lei crede che il processo di pace ha
più speranze di successo se, da parte israeliana,
sarà guidato dai laburisti di Amir Peretz?
Credo che dipenda molto di più dalle condizioni
politiche internazionali. Le pressioni internazionali
da parte di Usa e Europa sono più decisive dei
singoli che si trovano ad occupare i vertici politici
israeliani.
Una delle prime decisioni prese dal premier
israeliano ad interim, Ehud Olmert, è stata quella
di accettare che anche i cittadini arabi di Gerusalemme
Est partecipino alle elezioni palestinesi. Lo considera
un atto dovuto?
Più che un atto dovuto, è una decisione
presa grazie alle pressioni del governo statunitense.
Veniamo al campo palestinese. Hamas minaccia
la guerra civile nel caso in cui il governo, guidato
dai rivali di al-Fatah, decidesse il rinvio delle elezioni.
Confermare le elezioni per il 25 gennaio sarebbe positivo
per tutti i palestinesi, non solo per Hamas. Mahmoud
Abbas (Abu Mazen) ha già promesso che le elezioni
si terranno nella data prevista. Quanto a Hamas, è
probabile che, dopo la vittoria alle amministrative
di dicembre, possa conseguire un ottimo risultato anche
alle elezioni parlamentari. Credo che avrà tra
i 35 e i 40 seggi (su 134, ndr). La strategia
di Hamas è quella di entrare nel mondo politico,
costruirsi un’agenda politica. Se i suoi dirigenti
sono intelligenti, ne approfitteranno per prendere parte
al processo di pace. Se invece non abbandoneranno l’uso
della forza, allora perderanno il sostegno dei propri
elettori.
Pensa che il dialogo israeliano-palestinese
sarebbe aiutato da una presenza più decisa dell’Unione
Europea?
Gli europei sono molto più vicini alla regione
di quanto lo siano gli americani, e sono molto più
rispettati di loro, specialmente da parte dei palestinesi.
Noi speriamo e ci aspettiamo che gli europei sappiano
sviluppare sempre più un ruolo autonomo, che
non si limitino ad essere l’ombra degli Stati
Uniti. Per motivi storici e geografici, gli europei
hanno una comprensione migliore del Medio Oriente, e
specialmente i paesi meridionali come l’Italia,
sono in grado di contribuire attivamente al processo
politico. L’Unione Europea ora è più
forte, e dovrebbe prendere in mano il processo di pace.
Credo che possa farcela.
Però l’Europa, negli ultimi anni,
ha preso una posizione molto dura nei confronti di Hamas...
Hamas va incoraggiata a prendere parte alla nostra
democrazia. Solo così abbandonerà la violenza
e una piattaforma politica ideologica. Hamas guadagnerà
diversi seggi a queste elezioni, e spero che l’Europa
capisca che non possiamo essere puniti due volte per
questo. Noi palestinesi dovremo già assumerci
il peso, delicato, dell’ingresso di Hamas nella
nostra vita democratica. Non sarebbe facile dover subire
anche sanzioni economiche e politiche internazionali.
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