Quando la
prima traduzione inglese de Les damnés de
la terre (I dannati della terra) di Fanon
fu pubblicata a Parigi nel 1963 da Présence
Africaine, si intitolava semplicemente The
Damned (I dannati). Quando venne pubblicata
a Londra, due anni dopo, il titolo venne sostituito
con quello con cui è attualmente conosciuta,
The Wretched of the Earth. L’anno seguente
fu pubblicata negli Usa con lo stesso titolo, ma con
un sottotitolo che recitava: A Negro Psychoanalyst’s
Study of the Problems of Racism & Colonialism in
the World Today (Studio di uno psicanalista negro sui
problemi del razzismo e del colonialismo nel mondo di
oggi). È stata senza dubbio questa l’origine
del malinteso secondo cui, nei paesi di lingua inglese,
si pensava che Fanon fosse uno psicanalista. Quando
il libro venne ripubblicato due anni dopo, nel 1968,
come paperback per il mercato di massa afro-americano,
il sottotitolo venne cambiato, e diventò The
Handbook For The Black Revolution That Is Changing The
Shape Of The World (Il manuale per la rivoluzione nera
che sta cambiando l’assetto del mondo) –
un riferimento indiretto al fatto che Fanon fosse diventato
lo scrittore preferito delle Pantere Nere. Pensate al
capovolgimento di agentività (agency)
che il libro e il suo gruppo di riferimento, i reietti
della terra, avevano guadagnato nell’arco di cinque
anni: da I dannati a Il manuale per la rivoluzione
nera che sta cambiando l’assetto del mondo.
Si dà il caso che questo ribaltamento di agentività
sia lo stesso capovolgimento che Fanon propone come
forma di traduzione e che fu centrale nella sua vita
e nelle sue scritture. Nel mio Introduzione al postcolonialismo
suggerivo quanto segue
Le due opere più note di Fanon sono testi di
traduzione o, più precisamente, di ritraduzione.
In Pelle nera. Maschere Bianche egli afferma
che l’uomo e la donna neri sono stati tradotti
non solo come soggetti coloniali nel regime dell’imperialismo
francese, ma anche internamente, psicologicamente: i
loro desideri sono stati cambiati, trasformati nel sogno
di divenire bianchi attraverso una sorta di metempsicosi.
I loro stessi desideri sono stati rovesciati, benché
essi non siano mai, ovviamente, diventati bianchi: hanno
la pelle nera, con maschere bianche, sono stati costretti
a guardare se stessi come l’altro, alienati dalla
propria cultura, lingua, terra. Il progetto di Fanon
è di comprendere questo processo in modo da trovare
la forma di una possibile contro-traduzione. Ciò
inizia con un rifiuto della traduzione stessa del nero
nei valori del bianco.
Ne I dannati della terra il compito che Fanon
attribuisce a se stesso è quello di conquistare
il diritto alla dignità attraverso la violenza
rivoluzionaria anti-colonialista, dove la violenza per
il nativo colonizzato è una forma di auto-traduzione,
afferrare la propria soggettività, costruire
il proprio agire (per Gandhi, ugualmente, sarebbe non-violenza).
In quanto medico, Fanon era ugualmente enfatico sulle
possibilità dell’auto-traduzione attraverso
un modello di educazione dialogico e dinamico, una pedagogia
degli oppressi che sollecitasse i soggetti tradotti
a divenire essi stessi traduttori, scrittori attivisti.
I soggetti, non gli oggetti della storia. Con Fanon
la traduzione diventa sinonimo di una scrittura attivista
e performativa, che cerca di produrre direttamente effetti
materiali sul lettore – di cui la sua scrittura
è uno dei maggiori esempi (Introduzione al
postcolonialismo, Meltemi).
La “combat literature” di Fanon
rappresenta, e al tempo stesso mette in atto, un impegno
totale verso la traduzione culturale come strategia
per l’empowerment subalterno.
Dopo aver sottolineato l’importanza della traduzione
per Fanon, a questo punto dovrei forse confessare che,
per quanto ne so, Fanon in realtà non ha mai
scritto nulla sulla traduzione. Non sono neanche del
tutto sicuro che adoperi questa parola. Fanon non si
muoveva tra due o più lingue. La sua lettera
a Richard Wright ci fa intendere che conoscesse un po’
di inglese. Quando era in Algeria faceva molto affidamento
sugli interpreti per comunicare con i suoi pazienti
algerini che non parlavano francese. Pare non abbia
fatto molti sforzi per imparare l’arabo, sebbene
i suoi ultimi scritti intreccino alcune parole arabe
alla prosa, nella stessa maniera in cui il suo appassionato
francese è inframmezzato dallo slang
martinicano e avviluppa dentro di sé il linguaggio
medicalizzato del corpo.
Se la traduzione interlinguistica non sembra essere
una questione per cui Fanon abbia mostrato interesse,
la traduzione endolinguistica, per usare il primo dei
ben noti tre tipi di traduzione di Jakobson, figura
dunque in maniera predominante nella modalità
della sua scrittura, a cominciare dai modi in cui flette
la sua potente prosa attraverso una varietà di
dialetti e discorsi per produrre effetti somatici.
Se ci spostiamo dalla lingua alla sfera della cultura,
Fanon sembra occuparsi più attivamente della
traduzione, considerata da un punto di vista metaforico.
Ovviamente la traduzione non può mai evitare
di ricorrere a metafore per esprimersi e, a sua volta,
non può evitare di essere usata come metafora
per altri tipi di traduzione, per esempio quella che
ora abbiamo definito come traduzione culturale. La traduzione
culturale non è un termine alternativo per il
terzo tipo di traduzione di Jakobson, la traduzione
intersemiotica, perché non comporta la traduzione
della lingua in un sistema di segni differente, né
delle traduzioni tra diversi sistemi segnici. Jakobson
presuppone sempre che la traduzione concerna delle relazioni
di esatta equivalenza, come se la traduzione fosse una
sorta di pulsantiera, in grado di realizzare agilmente
un’equivalenza tra differenze; quasi come quando
si impara che in Inghilterra si accende la luce portando
l’interruttore verso il basso, mentre in America
si accende portandolo verso l’alto. È difficile
dispiegare un concetto di traduzione senza presupporre
una qualche sorta di equivalenza fissa, di stabilità
persistente. Anche se abbandoniamo l’idea di tradurre
un testo A in un testo B, e pensiamo alla traduzione
come maggiormente performativa, un processo in cui il
testo B rifletta anche l’esperienza della lettura
di A in una lingua straniera e porti, diremmo con Schleiermacher,
i segni ossessivi del proprio essere straniero (foreignness),
il testo A rimarrà sempre un testo, cioè
qualcosa di fissato sulla pagina, a meno che non prendiamo
in considerazione le ambiguità del processo di
lettura, in seguito al quale tutti i testi divengono
meno stabili di quanto appaiano. La traduzione culturale,
dal canto suo, riguarda sempre delle traduzioni tra
parole, categorie, pratiche che aleggiano nel regno
dell’intraducibile, giustapponendo bruscamente
lo straniero contro lo straniero. La traduzione culturale
riguarda sempre quelle incespicanti incertezze che rimangono
in gola, le traduzioni che hanno luogo tra non-equivalenze
che rimangono ostinatamente non-equivalenti e mediano
la creazione di nuove forme.
La “traduzione culturale”, tuttavia, è
una sorta di ossimoro, o un complesso di non-equivalenze
in se stessa. Perché mette insieme due concetti
particolarmente problematici: la cultura e la traduzione.
Se vi aggiungiamo il politico, poi, otteniamo un pantano
di soggetti controversi: cultura, politica, traduzione.
Ciascun termine è talmente complesso, conteso,
al punto da lasciarci con l’interrogativo: quale
potrebbe mai essere una politica della traduzione culturale?
Uno dei problemi è che il concetto di traduzione
culturale implicitamente compie un’analogia tra
i testi e le culture. Nel modello classico, il traduttore
è la persona che trasforma un testo da una lingua
in un’altra, di modo che il testo tradotto suoni
idealmente come se fosse stato originariamente scritto
nella lingua di arrivo. I testi, standosene per conto
proprio sulla pagina, danno l’impressione di una
stabilità e di una fissità: traducete
“vino” in “wine” e avrete una
delle equivalenze di Jakobson, per quanto anche nel
caso di una singola parola come “brot”,
“bread”, “pain”, “pane”,
come notava Walter Benjamin, l’equivalenza non
è così esatta come potrebbe sembrare.
C’è un’intera panoplia di bagagli
storico-culturali legati ai diversi ruoli che il pane
ha e ha avuto nelle diverse società. Spostiamoci
dal campo della singola parola alla dimensione della
frase, del paragrafo, del capitolo o del canto, e qualsiasi
fissità immaginata del testo viene definitivamente
minata alla base dalle incertezze dell’interpretazione
e dalla produzione di significato. In maniera simile,
la cultura inizialmente rappresenta qualcosa che appare
relativamente stabile: si pensi alla cultura francese
e verranno alla mente oggetti e beni di consumo –
il vino, di nuovo, la baguette, il basco, la
Torre Eiffel. Ma la cultura ha meno a che fare con gli
oggetti rispetto a un’esperienza comune di una
società nel presente – anche il suo passato
deve essere continuamente riprodotto. La cultura, come
ci suggeriscono i fatti recentemente accaduti nelle
banlieues parigine, un processo di produzione di significato
e di distruzione dei vecchi significati del passato.
Mentre i testi funzionano primariamente come parte della
produzione di significato, gran parte della cultura
comporta l’evanescenza del significato, il suo
svanire nella storia. Dimenticare, come ha osservato
Renan, è un processo essenziale per ogni nazione.
Il contributo dato da Fanon con il suo magnifico saggio,
o meglio i suoi due saggi Sulla cultura nazionale
(On National Culture), è stato quello di
sviluppare quest’idea. Comincia criticando l’idea
nazionalistica di cultura che si volge sempre indietro
per recuperare il passato, cercando di ripopolare il
presente vivo con i propri fantasmi svaniti. Così
facendo, sviluppa una critica dei presupposti della
négritude, e cioè del fatto che
l’assenza di una nazione potesse essere compensata
dalla ri-scoperta di una cultura e talvolta la negitude
veniva raffigurata come una cultura nazionale. Il presupposto
secondo cui è la cultura a realizzare e produrre
la nazione è alla base di tutte le forme di nazionalismo:
la nazione diventa l’espressione, l’anima,
secondo la formulazione di Renan, della cultura comune.
Era essenzialmente questo il genere di visione espresso
all’epoca di Fanon, per esempio, nel saggio di
Diop del 1955 sul Colonialismo e il nazionalismo
culturale (Colonialism and Cultural Nationalism).
Ma Fanon lo respinge, critica le nozioni secondo cui
la cultura comprende essenzialmente la sfera del necroforo
e del patologo, e suggerisce, invece, che non sia affatto
una cultura pre-esistente a fare o definire una nazione,
ma che sia la lotta per la nazione ciò che fa
e definisce la sua cultura: “L’esistenza
di una nazione non è provata dalla cultura, ma
dalla lotta del popolo contro le forze di occupazione”.
La cultura diviene un’espressione del processo
dinamico attraverso cui la nazione combatte per se stessa
e, così facendo, crea se stessa; un insieme di
pratiche popolari nel presente, anziché un recupero
accademico di un passato che deve essere ricordato e
commemorato attraverso i morti e le istituzioni ad essi
consacrate.
Non è sufficiente ricongiungersi al popolo in
un passato in cui esso non esiste più. Dobbiamo
invece unirci a esso nella sua contromossa recente che
inaspettatamente metterà tutto in questione;
dobbiamo concentrarci su quella zona di fluttuazione
nascosta in cui si può trovare il popolo.
Con la nuova traduzione inglese de I dannati della
terra, di per sé splendida, si perde quella
espressione evocativa presente nella vecchia versione,
e che non descrive una zona di fluttuazione nascosta,
bensì una “zona di instabilità occulta”.
Sebbene in realtà definiscano letteralmente una
disabilità muscolare, una sublussazione o una
parziale slogatura della spalla, queste parole evocative,
che potremmo ritradurre con “questo luogo di inosservabile
disequilibrio”, vengono adoperate da Fanon per
descrivere quel processo trasformativo, quel fermento
sotto la superficie, di una cultura nazionale in formazione
come parte della lotta di liberazione popolare.
Fanon illustra questo modello dinamico di cultura citando
Aube Africaine, una lunga poesia del poeta
guineano Keita Fodeba (regista dei meravigliosi Ballets
Africains), nella quale si narra la storia di un
villaggio africano che invia Naman, il suo uomo più
forte, a combattere nell’esercito francese contro
i tedeschi, durante la Seconda Guerra Mondiale. Naman
sopravvive alla guerra e finanche alla prigionia di
guerra, ma viene “colpito dalle mitragliatrici
delle forze di polizia nel momento esatto in cui fa
ritorno al proprio paese natale”. La poesia presenta
con potenza i doppi standard delle culture coloniali,
la sublussazione della cultura locale e del suo popolo,
le instabilità nascoste delle pratiche del dominio
coloniale e la repressione dei movimenti di indipendenza
dopo la guerra.
Fanon trae dalla poesia l’idea che la cultura
nazionale in un certo senso non abbia nulla a che vedere
con la cultura: combattere per la cultura nazionale
significa innanzitutto combattere per la liberazione
della nazione, la matrice tangibile da cui la cultura
può crescere. Non si può scindere la battaglia
per la cultura dalla lotta di liberazione del popolo.
Il punto di Fanon è molto chiaro: la lotta del
popolo è la cultura nazionale, la cultura è
la lotta, ciò che Fanon chiama “il terribile
schiacciasassi, la feroce impastatrice” della
rivoluzione popolare. Essa è anche parte del
processo di guarigione di una cultura che, con il tempo,
si curerà da sé come la spalla instabile,
slogata.
Quali sono le implicazioni di questa instabilità
nascosta e della lotta per qualunque idea di traduzione
culturale? La nozione di traduzione culturale sembra
collocare ogni movimento sul versante della traduzione
anziché su quello della cultura, che diventa
quindi qualcosa di più simile alla cultura statica
del nazionalismo culturale. Ma come si traduce, a sua
volta, una cultura in formazione come risultato continuo
della lotta? E come si traduce tra più culture
se queste consistono di due differenti forme di lotta?
Come possiamo articolare questi tre processi simultanei,
dinamici e instabili? Come possiamo mutare queste instabilità
in un progetto politico che vada al di là di
una totale destabilizzazione? Se la cultura è
essa stessa una forma di traduzione, e se entrambi i
versanti di una traduzione culturale costituiscono pratiche
dinamiche di lotta, come possiamo pensarle insieme come
processo comune, o come un particolare tipo di intervento?
La procedura diventa così destabilizzata che,
a questo punto, ci è di aiuto pensare alla traduzione
culturale in un contesto differente, cioè quello
del famoso saggio di Walter Benjamin Die Aufgabe
des Übersetzers, Il compito del traduttore (1923).
In questo saggio Benjamin sminuisce con disinvoltura
le nozioni normative di traduzione, per suggerire che
tutti i testi contengano in sé potenzialmente
le proprie forme di traducibilità; tale effetto
è ciò che protrarrà la sopravvivenza
del testo e anzi, continua Benjamin, saranno proprio
le traduzioni a costituire la sopravvivenza dei testi,
la loro ripetizione-come-differenza attraverso una traduzione
che li mette in condizione di vivere oltre il loro particolare
momento. Un testo, nella visione dello studioso tedesco,
diviene una sorta di macchina di riproduzione o, più
precisamente, un corpo riproduttivo che produce costantemente
effetti traduttivi, che si riproduce nuovamente in nuove
lingue e in nuovi momenti storici. Se pensiamo alla
traduzione culturale secondo il modello storico dinamico
di Benjamin, possiamo pensarla non come la trasformazione
di una cultura in un’altra, o come l’intervento
di uno o più agenti culturali in un’altra
cultura; possiamo invece pensare la traduzione culturale
come comprendente le conseguenze storiche di una cultura
originale sulla lingua e sulle pratiche della seconda.
Ciò consentirebbe dunque qualcosa di più
simile a una visione post-coloniale di traduzione culturale,
che non concepisca più la traduzione sulla base
di un modello di trasformazione spaziale, ma come un
effetto di ripetizione storica – in cui la cultura
coloniale traducente riemerge come differente decenni,
secoli più tardi, per ritrovarsi tradotta dal
proprio altro colonizzato.
A questo punto la traduzione diventa un atto di reiterazione
trasformativa, il riconoscibile ma non più medesimo
che si ritrova ripetuto nella lingua dello straniero,
la quale, in un contrappunto, diviene a sua volta mediata
contemporaneamente dall’intraducibilità
e dall’inserimento, o dalla salvaguardia, del
proprio essere straniera [foreignness]. Ancora
una volta, ciò che appare centrale per questa
nozione di traduzione è una modalità dell’instabilità,
della fluttuazione, dell’oscillazione. La traduzione
culturale perciò implicherà sempre un
processo bidirezionale – attraverso cui la traduzione
culturale dell’altro trasformerà anche
il medesimo che compie la traduzione, traducendo entrambe
le culture fuori da se stesse, verso nuove modalità
operative. Così la traduzione culturale come
forma della cultura migrante minorizzante, non solo
interverrà e muterà – renderà
estranea – la cultura in cui i migranti si trovano,
ma nel tempo vivrà anche un contraccolpo che
trasformerà i suoi originali.
Possiamo collegare tutto questo alle dinamiche della
politica globale contemporanea, dinamiche afferrate
da movimenti che resistono alle trasformazioni culturali
apparentemente inflitte loro dagli interessi occidentali.
Certo, questo in parte avviene secondo le più
ovvie procedure del potere economico e militare globale,
ma le dinamiche della traduzione culturale suggeriscono
che gli interventi in corso per trasformare il primo
mondo, stanno contemporaneamente anche operando, spesso
in temporalità dislocate, in forma di contrappunto
o transculturazione del terzo.
In Cuban counterpoint: tobacco and sugar (1940)
(Contrappunto cubano: del tabacco e dello
zucchero), l’antropologo cubano Fernando
Ortiz introduceva il concetto di trasnculturazione in
antitesi al modello dominante di acculturazione adoperato
dalla Scuola di Chicago e che si riferiva al processo
di assimilazione della cultura americana, dato come
trasparente, da parte degli immigrati in ingresso. In
realtà, oltre alla politica culturale che proponeva,
c’era un’altra ragione per cui Ortiz era
riluttante a usare il termine acculturazione; in spagnolo
il prefisso a- potenzialmente capovolge il senso dell’inglese,
cosicché anziché descrivere l’acquisizione
di cultura, questa parola evoca una perdita di cultura
e, così facendo, segnala segretamente l’altro
lato represso del modello della Scuola di Chicago. Ortiz
presenta la transculturazione principalmente nei termini
delle successive ondate di immigrati che diventarono
parte dei processi dinamici della cultura materiale
di Cuba – il tabacco e le industrie dello zucchero
– che, come mostra Ortiz nelle sue bellissime
e ammalianti evocazioni, operano in una dialettica di
contrappunto l’uno rispetto all’altro. Secondo
il processo descritto dallo studioso cubano, i nuovi
migranti hanno influenzato la cultura di Cuba nello
stesso momento in cui sono stati risucchiati nelle duplicate
dinamiche dell’economia materiale cubana. Questa
trasformazione subita e messa in atto dagli operai,
in seguito al loro arrivo a Cuba, non è difficile
da comprendere. In realtà il libro è suddiviso
in due parti, diseguali: inaspettatamente, la storia
più lunga della transculturazione cubana è
dedicata al modo in cui il dono del tabacco, offerto
dai benevoli nativi indigeni di Guanahanì a Colombo
nel corso delle primissime relazioni tra Europa e America
quando questi mise piede sul suolo americano, non solo
abbia creato un nuovo milieu sociale locale
dei conquistadores spagnoli che sarebbero giunti a breve,
ma abbia trasformato molto rapidamente l’intero
mondo sociale dell’Europa e (altrettanto rapidamente)
del Medio Oriente e dell’Africa, e sia diventato
un fenomeno culturale globale.
La prima e più effettiva forma di globalizzazione
dei consumatori, al cui confronto McDonald impallidisce,
fu il dono dei sigari attraverso cui gli indigeni caribi
hanno trasformato le pratiche sociali mondiali più
radicalmente di quanto nessun popolo avesse fatto sino
ad allora, né abbia fatto dopo. I doni, come
è noto, comportano di per sé un movimento
bi-direzionale che implica un ritorno. E una sigaretta,
come osservava Oscar Wilde, è la forma perfetta
di piacere: è squisita e lascia insoddisfatti.
Lo stesso Ortiz nota, molto accuratamente, come ci sia
qualcosa di radicale nella natura di questo particolare
dono: “Nella fabbricazione, nel fuoco e nella
spirale del fumo di un sigaro c’è sempre
stato qualcosa di rivoluzionario, una sorta di protesta
contro l’oppressione, la fiamma struggente e il
volo liberatorio verso il blu dei sogni”.
La traduzione culturale, in maniera simile, implica
un processo dialettico in cui i processi trasformativi
si muovono simultaneamente in entrambe le direzioni:
bruciando il passato nello stesso momento in cui rilasciano
sogni di liberazione e di futuro possibile (futurity).
traduzione di Angela D’Ottavio
Questo testo, pubblicato per gentile concessione
di Meltemi editore, costituisce l’intervento dell’autore
al convegno “La traduzione culturale come progetto
politico” e sarà parte di un volume dal
medesimo titolo prossimamente edito da Meltemi.
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