“La
lingua dell’Europa è la traduzione, questa
Europa nasce coltivando le proprie differenze anche
linguistiche”, ha detto una volta, in visita a
Trieste, l’allora presidente della Commissione
europea Romano Prodi. Una bella formula, ma andatela
a spiegare allora agli europarlamentari italiani e a
tutti quelli che nell’anno appena trascorso si
sono impegnati in due battaglie di politica linguistica
non da poco, e che hanno rilanciato una domanda che
ancora non trova risposta: che lingua parla l’Europa?
La polemica nasce a febbraio, quando diversi deputati
italiani del Parlamento europeo e di quello nazionale
contestano la Commissione per due presunte offese all’Italia
e alla sua lingua: non aver previsto nessun italiano
tra i portavoce e l’aver tagliato, per motivi
di bilancio, alcune traduzioni delle conferenze stampa.
Nella Commissione Barroso ci sono 6 portavoce francesi,
5 tedeschi, 5 britannici, 3 portoghesi, 2 polacchi,
e uno ciascuno per altri 9 paesi. Visto che nelle conferenze
stampa tutti i portavoce devono usare inglese e francese,
la questione è soprattutto politica: meno portavoce
significa una riduzione della rappresentanza nazionale
in posti di indubbia visibilità nella Commissione,
oltre a qualche facilitazione in meno per i giornalisti
italiani. L’Italia, paese fondatore, ha anche
perduto negli ultimi tempi alcune importanti direzioni
generali.
Nel caso delle traduzioni, l’italiano faceva
parte di un gruppo di lingue aggiunte, a rotazione,
al francese e all’inglese. La nuova Commissione
aveva deciso di mantenere la traduzione in tutte le
lingue dell’Unione per le conferenze stampa del
mercoledì, giorno in cui si riunisce l’eurogoverno
e vengono annunciati i maggiori provvedimenti. Negli
altri giorni erano assicurate quelle che la portavoce
di Barroso, Françoise Le Bail, ha definito le
“tre lingue base” (francese, inglese e tedesco),
aggiungendo a turno quelle dei commissari impegnati
nella conferenza e dei paesi più interessati
ai temi trattati. L’innovazione andava incontro
a esigenze di bilancio reali: l’allargamento ha
fatto salire le lingue ufficiali da 11 a 21, il numero
dei traduttori sta lievitando dagli 800 dello scorso
anno ai 2.070 previsti entro il 2008. Le spese per gli
aspetti linguistici sono pari a 807 milioni di euro
l’anno e potrebbero salire fino a un miliardo
dopo l’ingresso degli altri paesi in lista di
attesa.
Dopo la protesta ufficiale del rappresentante permanente
presso l’Ue Rocco Cangelosi e dopo che Roma ha
ottenuto l’appoggio di Madrid, il 15 marzo il
problema delle traduzioni trova una soluzione ufficiale.
L’italiano torna ad essere presente nelle conferenze
della Commissione europea, non solo in quelle del mercoledì.
La questione del portavoce italiano rimane invece tuttora
in sospeso, anche se il 6 dicembre scorso il vicepresidente
della Commissione Franco Frattini ha annunciato che
l’Italia ne avrà presto due.
Destra e sinistra si sono ritrovati unite in questa
doppia difesa della presunta italianità offesa,
pochi mesi prima che scoppiasse un’altra polemica
di retroguardia su un’altra “italianità”
a rischio, quella delle banche. Il 12 dicembre scorso
due eurodeputati di Forza Italia, Mario Mantovani ed
Alfredo Antoniozzi, hanno cominciato una raccolta di
firme in favore di una dichiarazione scritta in difesa
del multilinguismo nelle istituzioni europee. Questa
la loro motivazione: “La nostra azione è
in linea con un maggior rispetto del nostro paese, della
sua cultura e dei suoi cittadini”. Insomma, non
può sfuggire che questa battaglia per il multilingusimo
celi in realtà una battaglia nazionalista.
La ragione di tutto ciò è che l’italiano
sta perdendo peso nell’Ue a 25. Lo dice più
di una ricerca. Secondo l’ultimo sondaggio Eurobarometro
pubblicato dalla Commissione europea, l’inglese
è la lingua più parlata in Europa al di
fuori del proprio paese (dal 34% dei cittadini europei),
il tedesco (12%) e il francese (11%) si contendono il
secondo e terzo posto, lo spagnolo (5%) si conferma
al quarto e il russo (5) fa il suo ingresso in quinta
posizione, scalzando l’italiano che retrocede
al sesto posto (2%), appena sopra a polacco e olandese
(1%). La mappa della diffusione dell’italiano
nell’Ue si limita a quattro paesi in tutto: è
la seconda lingua più parlata a Malta, e la terza
a Cipro, in Grecia e in Austria.
Ma dietro c’è una questione ancora più
importante. L’italiano perde peso politico perché
l’Italia e la cultura italiana perdono peso politico.
È la cultura che decide la diffusione delle lingue.
Le imposizioni dall’alto possono aiutare, ma in
regimi non dittatoriali ogni lingua si fa strada da
sé, senza aiuti. Se le istituzioni di Bruxelles,
per paradosso, vietassero l’uso dell’inglese,
oltre a funzionare peggio (masochismo), non impedirebbero
certo lo sviluppo dell’inglese in Europa. Il quale
passa infatti da altri canali: l’economia, la
musica, il cinema, i libri, i rapporti tra gli uomini.
Se il cinema, la letteratura, la politica e l’economia
italiana sapessero farsi esempio europeo crescerebbe
naturalmente il numero di quanti vogliono studiare l’italiano.
L’inglese è prima lingua del continente
per tanti motivi storici, ma anche perché la
cultura anglosassone ha informato di sé il mondo
occidentale e europeo degli ultimi 50 anni. Anche il
francese, che tra ‘700 e ’800 era la lingua
della cultura, ha perso peso politico e ora è
stata superata anche dal tedesco. E’ quello che
in qualche modo ha ammesso lo stesso Prodi, quando a
maggio ha denunciato che “il potere dei media
inglesi” condiziona l’azione di Bruxelles:
“Quando sono partito credevo che ci fosse il potere
della burocrazia franco-tedesca. Quando sono tornato
mi sono accorto che c’è il potere dei media
inglesi che hanno il dominio della lingua”.
L’inglese è stato ammesso come lingua
ufficiale solo 10 anni fa, ma ora la fa da padrone nelle
istituzioni di Bruxelles, dove il francese conserva
un suo peso soprattutto grazie al fatto che le due sedi
del Parlamento sono in territorio francofono. Uno studio
della Eurydice mostra che la lingua di Shakespeare è
la più insegnata nelle scuole primarie (con le
sole esclusioni del Belgio e del Lussemburgo) e nell’insegnamento
secondario, dove tra il 1998 e il 2002 ha avuto una
forte diffusione anche nei paesi dell’Europa centrale
e orientale.
Invece di chiedere privilegi alle istituzioni, l’Italia
dovrebbe pensare a tornare faro dell’Europa, magari
spendendo di più in cultura all’estero,
attraverso gli istituti italiani di cultura. A quel
punto non si dovranno più mendicare favori, perché
i cittadini dell’Europa vorranno naturalmente
parlare (anche) la nostra lingua. Le ricerche dicono
che i ragazzi europei sono sempre più poliglotti,
viaggiano molto, e partecipano sempre più al
progetto Erasmus per lo studio universitario all’estero:
nell’anno accademico 2003/2004 sono stati oltre
135.000 gli studenti che ne hanno approfittato, con
un aumento del 9,4% rispetto all’anno precedente.
Proprio i dati Erasmus confermano il declino del nostro
paese. La destinazione preferita dagli universitari
europei è infatti la Spagna, che ha ospitato
oltre 22.000 studenti, seguita dalla Francia (19.000)
e dalla Germania (16.000), mentre a scegliere il Belpaese
sono stati solo 12.000 allievi, e così l’Italia
è al quinto posto. Gli italiani, in tutti questi
dati, non brillano, e questo è un altro segnale
di declino. Se da Germania, Francia e Gran Bretagna
partono ogni anno più di 20.000 studenti Erasmus,
dall’Italia espatriano solo in 17.000. Se in media
il 50% degli europei conosce un’altra lingua,
in Italia la percentuale è solo del 36%, terz’ultima
prestazione nell’Ue a 25. Che lingua parla l’Europa?
Alcuni secoli fa parlava l’italiano. Ora se l’è
dimenticato, perché non le serve più.
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