Gli studi
sulle traduzioni, ai loro inizi, confinavano la nozione
di traduzione all’interno dei limiti assai ristretti
del modello che è stato definito con l’espressione
“lingua incontra lingua”, circoscrivendola
a rapporti tra testi nei processi di trasferimento interlinguistico.
Nella formulazione più semplice, e più
semplicistica, tali processi presuppongono l’unità
sia della fonte che del linguaggio di destinazione,
limitando l’attività di traduzione alla
ricerca di quelle equivalenze più adatte al trasferimento,
da un linguaggio a un altro, di un significato preformato
– in sostanza, il traduttore sarebbe un semplice
interprete che si colloca in un campo d’azione
assai ristretto e quasi privo di autonomia. E’
giusto dire che, allo stato attuale dei translation studies, il modello che ho appena descritto è
niente più che una mera caricatura. In effetti,
l’ambizione epistemologica di questi studi si
è andata ampiamente estendendo, ben oltre le
eccessive semplificazioni di quel modello. Ciò
ha comportato – tra le altre conseguenze –
uno spostamento dall’asse della linguistica applicata
a quello dei cultural studiese, contemporaneamente,
la definitiva attestazione della traduzione come interdisciplina.
Negli ultimi due decenni, la questione della definizione
della traduzione è divenuta sempre più
complessa. Un momento particolarmente significativo
di questo processo è consistito nella messa in
questione dell’universalismo univoco del concetto
di traduzione e nella sua ridefinizione dal punto di
vista contestuale. A questo proposito, secondo Maria
Tymoczko, è stato decisivo l’approccio
di Gideon Toury all’inizio degli anni Ottanta:
la traduzione, secondo la definizione di Toury, è
“qualsiasi testo linguistico d’arrivo che
viene presentato o considerato tale all’interno
dello stesso sistema d’arrivo, su qualsiasi base”.
Si apre così la strada – come evidenzia
la Tymoczko (2003) – al decentramento dei translation studies e, cioè, all’incorporazione di
prospettive non eurocentriche, dal momento che una definizione
come quella proposta da Toury si applica solo a posteriori:
la traduzione è ciò che funziona come
tale all’interno di un dato contesto, non ciò
che si conforma alla trascendenza di un modello predefinito
e sostanzialmente prescrittivo.
Il modello pluralizzante, che la definizione di Toury
implicava, si collocava all’interno dei confini
di un paradigma testuale. Più recentemente, tuttavia,
il concetto di traduzione è stato ridefinito
nel contesto dei cultural studies in un modo
che supera quel paradigma e che, sostanzialmente, ne
estende il campo di applicazione. Non c’è
bisogno di dire che, inevitabilmente, più ampio
è lo scopo, più diffuso e polisemico tende
a diventare il concetto. E quindi, per parafrasare uno
dei molti aforismi sul linguaggio dello scrittore austriaco
Karl Kraus, la verità è che, oggigiorno,
più è stretta l’angolatura da cui
si guarda al termine traduzione, più grande è
la distanza che si è percorsa. La difficoltà
crescente nel definire la traduzione è riconosciuta
chiaramente da Susan Bassnett – e lei non sembra
affatto esserne preoccupata. In effetti, è incontestabile
la produttività teoretica interdisciplinare di
un concetto di traduzione più ampio, il quale
occupa, ora, una posizione sempre più importante
non solo all’interno dei cultural studies,
ma anche nelle scienze sociali e umane in generale.
Perciò, la traduzione come oggetto di analisi
non può più essere trattata da un punto
di vista monodisciplinare ma richiede chiaramente un
approccio multidisciplinare.
Se, in ogni epoca, esistono concetti che a un certo
momento raggiungono una diffusione tale da sembrare
in grado di designare essi stessi i principali elementi
che caratterizzano quell’epoca, si può
sostenere che oggigiorno il concetto di traduzione appartenga
a questo genere. Si può infatti affermare, senza
alcuna riserva, che la traduzione è diventata
una metafora centrale, una delle parole-chiave del nostro
tempo. Potenzialmente, qualsiasi situazione in cui cerchiamo
di rapportarci significativamente alla differenza può
essere descritta come una situazione di traduzione.
In questo senso, la traduzione evidenzia come linguaggi
differenti, culture differenti, contesti politici diversi
possano essere messi in contatto tenendo conto dell’intelligibilità
reciproca ma senza dover sacrificare le differenze nell’interesse
di un’assimilazione cieca. Ciò spiega anche
perché le questioni dell’etica e della
politica della traduzione siano divenute, oggi, tanto
più urgenti.
Si potrebbe, ovviamente, sostenere che nell’era
della globalizzazione, la traduzione sia sempre più
superflua e la necessità di tradurre sempre meno
evidente. L’uso dell’inglese come lingua
franca, come avviene in tantissimi incontri internazionali
in tutto il mondo, può – è vero
– significare la creazione di uno spazio comunicativo
“neutrale” al servizio di uno scopo strumentale,
evidente nel luogo comune che considera la lingua inglese
l’esperanto del nostro tempo. Ma l’inglese
è la lingua franca della globalizzazione perché
è la lingua dell’Impero, del solo impero
che continua a esistere sulla scena mondiale contemporanea.
E la logica dell’impero, di un centro che tutto
racchiude, governato dall’obiettivo di un’assimilazione
totale, è essenzialmente monolingue e monologica.
Secondo una tale prospettiva unificante, per cui la
differenza non va riconosciuta o semplicemente non esiste,
la traduzione è, in effetti, irrilevante. Ne
emerge così che una possibile definizione della
globalizzazione egemonica è quella di una globalizzazione
senza traduzione che, a un altro livello, equivale al
processo attraverso cui un Paese egemone si trova nella
posizione di promuovere i propri localismi sotto forma
dell’universale o del globale.
E’ comunque assolutamente necessario tener conto
del fatto che, come ha più volte sostenuto la
teoria della globalizzazione, il comparire dell’omogeneità
è, per molti versi, ingannevole. Le nuove tecnologie
e la capacità praticamente infinita di manipolare
le informazioni che esse offrono permettono l’adattamento
dei prodotti culturali globali alle logiche locali.
E permettono, di conseguenza, l’aumento delle
possibilità di un intervento attivo da parte
dei destinatari, costruendo una sfera dove l’interpenetrazione
del globale e del locale può avvenire in molteplici
modi non sempre prevedibili. Da questo punto di vista,
i processi di globalizzazione sono eterogenei e frammentati;
la “globalizzazione” denota, anche in campo
culturale, un processo che non è uniforme ma
intrinsecamente complesso, contraddittorio e conflittuale.
In altre parole, i confini e, in questo caso, i confini
culturali non stanno scomparendo, ma, al contrario,
si moltiplicano e si spostano. Perciò, l’illusione
dell’omogeneità è semplicemente
una finzione attraverso cui la globalizzazione egemonica
rende invisibili quelle differenze, disuguaglianze e
contraddizioni che la globalizzazione anti-egemonica
cerca di svelare. In questo senso, se concepiamo la
globalizzazione come una globalizzazione senza traduzione,
l’idea di una globalizzazione anti-egemonica dipende
completamente dal concetto di traduzione poiché,
per definizione, essa deve essere critica su ogni forma
di centralismo o universalismo e non può dipendere
da alcun principio trascendente ma, al contrario, deve
continuare a fornire gli strumenti per l’articolazione
delle culture e per l’interscambio culturale.
Questo ci porta, inevitabilmente, alla questione dell’identità.
Secondo Stuart Hall, l’identità non è
tanto un problema di tradizione ma di traduzione, poiché
il concetto di identità può essere concepito
non solo come nucleo sostanziale ma in termini della
posizione occupata in una rete relazionale. In altre
parole, la semplice equazione “cultura = identità”
– per dirla come Terry Eagleton – non è
in alcun modo ammissibile. Tale equazione si basa, infatti,
su una definizione di cultura come contenuto sostanziale
sovra-storico legittimato dal corpo della tradizione
e circoscritto a una sorta di territorio interno. Al
contrario, come ci ricorda Bakhtin: “Il regno
della cultura non dovrebbe essere concepito come un
complesso spaziale delimitato da confini e in possesso
di un territorio suo proprio. Nel regno della cultura
non esiste alcun territorio interno: essa si colloca
interamente nei confini, i confini passano ovunque,
attraverso ciascuno dei suoi elementi (…). Ogni
atto culturale avviene, in effetti, sui confini”.
C’è cultura dove ci sono interazione e
un rapporto con il diverso, nei termini di quella che
Bakhtin definisce l’autonomia partecipativa di
ogni atto culturale. In altre parole, i concetti di
“cultura” e di “confine” implicano
l’uno l’altro, ma in modo dinamico e non
statico, eterogeneo e non omogeneo. D’altro lato,
riflettere sull’eterogeneità interna delle
cultura implica concepire la traduzione non solo come
rapporto interculturale, ma anche intraculturale.
A questo punto, è inevitabile fare riferimento
alla questione del multiculturalismo. In effetti, esiste
– paradossalmente – una versione del multiculturalismo
che fa anch’essa a meno della traduzione e che
è, in questo senso, nient’altro che l’immagine
rovesciata dell’atteggiamento imperialista. Se
si concepisce il multiculturalismo come la semplice
coesistenza di culture autosufficienti che non devono
interagire – a questo proposito, un’immagine
comune, giustamente criticata da Susan Friedman, è
quella del mosaico i cui pezzi hanno confini ben definiti,
indipendenti e sono semplicemente giustapposti tra loro,
se il multiculturalismo viene considerato in questo
modo, allora, certo, non c’è alcun bisogno
di traduzioni. Le conseguenze politiche di tutto ciò
sono ben note: esse portano a una versione di destra
del multiculturalismo ben resa dal discorso di un politico
populista come Le Pen in Francia. Ma, alla fine, questa
stessa versione evidenzia anche il noto e molto discusso
modello dello “scontro di civiltà”
proposto da Samuel Huntington. Questo modello si fonda
sull’assunto dell’essenziale intraducibilità
delle culture. Esso rappresenta perciò, a mio
parere, la forma ultima di una irragionevolezza dell’identità
– come è stata giustamente definita da
Thomas Meyer – una irragionevolezza fondata su
una visione della cultura come una sorta di blocco monolitico,
il cui unico modo per relazionarsi con altre culture,
analogamente considerate dei monoliti, è, nel
migliore dei casi, la semplice coesistenza e, nel peggiore,
la guerra di civiltà. Come dice Huntington: “Sappiamo
chi siamo solo quando sappiano chi non siamo e spesso
solo quando sappiamo contro chi stiamo”. Sulla
base di questa prospettiva di esclusione reciproca e
della definizione del confine come linea divisoria e
non come spazio di incontro e articolazione, non può
essere fondata alcuna teoria della traduzione.
Se, al contrario, condividiamo l’assunto che
ogni cultura è necessariamente incompleta in
sé e che non esiste niente di simile a una cultura
indipendente e omogenea, allora la definizione stessa
di una data cultura deve comprendere quella che io definirei
“intertraducibilità”. In altre parole,
essere-in-traduzione è una caratteristica essenziale
del concetto stesso di cultura se, come ci ricorda Wolfang
Iser, la traducibilità “implica la traduzione
dell’alterità senza che essa venga sussunta
sulla base di nozioni preconcette”. In altre parole,
citando nuovamente Iser, nell’atto della traduzione
“una cultura straniera non viene semplicemente
assunta all’interno del proprio quadro di riferimento;
ma, il quadro stesso è soggetto ad alterazioni
per poter adattare ciò che non si adatta”.
Tuttavia se è il quadro stesso a dover essere
messo in questione e ridefinito in ogni atto di traduzione,
allora anche i rapporti di potere vanno messi in questione
e ridefiniti. L’atto di assumere o assimilare
corrisponde – come ha sostenuto ripetutamente
Adorno – all’esercitare potere nel regno
concettuale. Aníbal Quijano e Walter Mignolo,
tra gli altri, hanno proposto il concetto di colonialidad
o colonialità per indicare una tale operazione
di sussunzione del presunto subalterno. Nel suo studio
che porta il significativo sottotitolo Per un’etica
della differenza, Lawrence Venuti offre alcuni
esempi estremamente illuminanti del modo in cui la ricerca
di trasparenza, di una assimilazione perfetta al contesto
di destinazione, si esprime attraverso modi di familiarizzazione
che implicano processi di elisione e una trasformazione
forzata che corrisponde all’imposizione delle
ideologie o dei valori e degli schemi del centro che,
in ultima analisi, sono di tipo coloniale. Uno degli
esempi più sconvolgenti citato da Venuti parla
di una storia dei popoli del Messico pubblica in versione
bilingue, inglese e spagnola nel Corriere dell’Unesco.
Nella versione inglese, antiguos mexicanos
(antichi messicani) viene tradotto indiani (“Indians”);
sabios (saggi) “indovini” (“diviners”);
testimonias (testimonianze) “documentazioni
scritte” (“written records”), dimostrando
scarsa considerazione per la conoscenza trasmessa attraverso
la tradizione orale. Si tratta di esempi significativi
del modo in cui il razionalismo eurocentrico, non riconoscendo
un sapere concorrente, non può valutarlo nell’atto
della traduzione ma, invece, lo modella semplicemente
secondo gli schemi della modernità occidentale,
assunti implicitamente come gli unici validi.
Un’etica della differenza nei termini di Venuti
richiederebbe una critica del termine dialogo, molto
abusato. In realtà, non basta usare questa parola
come una sorta di soluzione magica. Ciò che è
di cruciale importanza, ovviamente, è come sono
definiti i termini del dialogo. Come si può facilmente
osservare nei contesti postcoloniali, l’offerta
di impegnarsi nel dialogo, se non è accompagnata
dalla volontà di mettere in questione i quadri
di riferimento dominanti, si risolve spesso solo in
un ulteriore atto di potere – non sorprende che
spesso colonizzati o subalterni non siano disposti ad
accettare un dono del genere, con grande stupore (tutto
sommato ingiustificato) da parte dell’offerente.
Fu senza dubbio avendo in mente una pratica della traduzione
di questo tipo – già esposta nell’analisi
classica di Edward Said in Orientalismo, che,
in larga misura, anche se non esplicitamente, tratta
della traduzione – che Michael Dutton ha intitolato
Lead us not into translation un saggio degno
di nota, pubblicato nel 2002 sulla rivista Nepantla:
Views from the South. Dalla prospettiva degli
Studi sull’Asia postcoloniale e a partire dalle
tesi di Said, Dutton sviluppa nel suo saggio una critica
ben fondata del modello di traduzione cui la figura
dell’Altro è stata tradizionalmente sottoposta
dal discorso scientifico occidentale. Si trattava di
un modello che, in definitiva, si preoccupava di corroborare
le proprie tesi e che era, perciò, teso a svalutare,
ignorare o ridurre al silenzio qualsiasi cosa che, nell’Altro,
si presentasse eterogenea o si discostasse dalle tesi
implicite nel modello stesso.
L’articolo di Michael Dutton segue la linea di
molteplici altri studi che si sono impegnati in una
critica dell’epistemologia coloniale, epistemologia
che opera sistematicamente attraverso la costruzione
di una topografia del mondo basata su una retorica dell’universale
che è, allo stesso tempo, una retorica della
traduzione intesa come riduzione dell’altro al
sé. Il concetto di traduzione che risulta ex
negativo dalla critica di questa epistemologia
– concetto che coincide con l’ampia definizione
a cui ho fatto riferimento attraverso l’intero
saggio – deve superare la semplice nozione di
dialogo tra culture. Dal momento che il dialogo, per
forza di cose, implica una negoziazione delle differenze,
la traduzione riguarda qualcosa di diverso dal dialogo,
che vuol dire anche che essa rifiuta la posizione ermeneutica
fondata su una “fusione di orizzonti” gadameriana.
E’ vero che, come ci ricorda John Frow, la figura
dell’altro è il prodotto inevitabile di
una costruzione culturale che è il risultato
della logica immanente di ogni specifica configurazione
culturale: “(…) non può esserci alcun
contrasto tra il loro quadro culturale e il
nostro poiché il primo è generato
come oggetto conoscibile a partire dall’interno
del nostro quadro culturale. La divisione tra noi
e loro funziona come un’immagine allo specchio
– un’inversione che ci dice solo ciò
che vogliamo sapere di noi stessi”.
In senso analogo la semiotica culturale di Jurij Lotman
sviluppa il concetto di confine come un elemento fondamentale
di ogni pratica culturale, come una forma di organizzazione
del mondo che costruisce l’io nel processo
di definizione dell’altro come estraneo
e straniero. Ma affermare ciò significa dire
che il concetto di alterità è sempre inseparabile
dai processi di traduzione che permettono di relazionarsi
con quell’alterità. La questione centrale
è, precisamente, la modalità di quella
traduzione, la questione se questi processi tendono
semplicemente all’assimilazione e alla riduzione
dell’identico o se, al contrario, essi sono capaci
di proporre il non-identico, cosa che può essere
fatta solo mantenendo viva un rapporto di tensione ed
estraneità reciproche.
E’ in relazione a questo problema che, secondo
il mio punto di vista, il concetto di confine mostra
la propria piena produttività. La ragione traduttiva
è una ragione cosmopolita, ma non semplicemente
nel senso che essa procede aldilà dei confini;
ciò che è determinante è la sua
capacità di situarsi sul confine, di occupare
gli spazi di articolazione e di negoziare continuamente
le condizioni di questa articolazione. In altre parole,
la ragione cosmopolita, che è la ragione del
traduttore, è essenzialmente una ragione di confine.
In questo senso, la funzione del traduttore, per utilizzare
la formula suggestiva proposta da Tobias Döring,
non è quella dell’andare tra ma
di arrivare tra, di chi non solo porta e prende
ma di chi, letteralmente, arriva nel mezzo.
In effetti, quando parliamo della traduzione nei termini
che ho indicato, parliamo di un “terzo spazio”.
Bisogna essere consapevoli dei rischi insiti in questo
concetto che dipendono, in primo luogo, dall’uso
di una metafora spaziale. In questo contesto, non parliamo,
ovviamente, dello “spazio” in senso letterale,
né di una qualche entità trascendentale
o di un principio regolatore, ma semplicemente dell’arrivare
tra che ho appena menzionato. Il “terzo spazio”
della traduzione segna il punto di contatto tra l’identico
e l’altro – il confine – e mostra
il prevalere di un rapporto di tensione tra i due quadri
di riferimento. Perciò, si può evitare
qualsiasi sintesi o assimilazione che abbia come risultato
una semplice cannibalizzazione e si può attivare
l’intera gamma delle interazioni. A questa relazione
di confine possiamo dare nomi diversi. Doris Bachmann-Medick,
insieme a molti altri, la definisce un testo ibrido,
sulle orme di Homi Bhabha; Lawrence Venuti, a sua volta,
ricorre al concetto di letteratura minore sviluppato
da Deleuze e Guattari per suggerire che l’obiettivo
del traduttore è la produzione di testi “minori”,
ovvero, di testi che rifiutano la comunicazione trasparente
e stabiliscono la densità di un linguaggio che
è estraneo ai codici di discorso dominanti nel
contesto d’arrivo. In ogni caso, la tesi sottostante
è il rifiuto di una retorica dell’autenticità
– che il traduttore sia un traditore è
fatto pienamente accettato in senso positivo come una
caratteristica dell’arrivare tra che
è inseparabile dal suo compito. E, naturalmente,
la concezione attuale secondo cui nel processo di traduzione
qualcosa andrà inevitabilmente perduto perde
peso se paragonata alla percezione che parecchio possa
anche essere guadagnato.
Non c’è bisogno di sottolineare che il
confine, per definizione, indica una condizione di precarietà
e instabilità. Una delle conseguenze dell’accettazione
di questa condizione interspaziale e interstiziale è
che i topoi accettati – vale a dire i
luoghi comuni di una data cultura – non si applicano
più come premesse ma diventano piuttosto essi
stessi un oggetto di discussione, dibattito, negoziazione.
Ciò viene sottolineato da Boaventura de Sousa
Santos in un testo che prova con forza l’importanza
che il concetto di traduzione ha assunto per la teoria
contemporanea e, in particolare, per la teoria sociale.
Mi riferisco a un articolo intitolata Para uma sociologia
das ausências e uma sociologia das emergências
(Verso una sociologia dell’assenza e una
sociologia dell’emergenza). Il concetto sottostante
alla tesi sviluppata in questo testo, sulle orme di
precedenti opere del sociologo portoghese, è
quello di un’ermeneutica diatonica, definita come
una posizione epistemologica che, quando si trova di
fronte a culture differenti, riconosce l’incompletezza
reciproca delle culture, rifiuta di stabilire una gerarchia
tra di esse e, invece, sceglie di valutare selettivamente
ciò che, in esse può contribuire più
significativamente ad intensificare una relazione dialogica.
In corrispondenza di ciò, la traduzione è
definita come “una procedura che non attribuisce
a qualsiasi insieme di esperienze dato né lo
status di una totalità esclusiva né quello
di una parte omogenea”.
Il saggio di Santos attribuisce al concetto di traduzione
un ruolo centrale. Esso è considerato al centro
della nozione di cambiamento sociale, poiché
è attraverso la traduzione che si può
“ampliare il campo dell’esperienza”
in modo tale da “valutare meglio quali sono le
alternative possibili e oggi praticabili”.
Contemporaneamente, una prospettiva postcoloniale della
traduzione permette di dare spazio alla conoscenza e
a campi d’azione che sono stati troppo a lungo
circoscritti nei termini di dicotomie che si escludevano
l’una l’altra. Uno dei numerosi esempi addotti
da Santos riguarda la questione delle cosiddette conoscenze
concorrenti. Le riformulazioni postcoloniali, basate
sulla preoccupazione per la biodiversità, della
relazione tra biomedicina e biotecnologie sviluppata
nei Paesi centrali e il sapere medico tradizionale nel
Sud hanno portato alla creazione di intelligibilità
reciproche e alla rivalutazione del sapere che era precedentemente
rimasto vittima dell’epistemicidio colonialista
o imperialista. E questo processo può, naturalmente,
essere trattata come un processo di traduzione.
Sembra che, nell’intera sezione finale del suo
testo, in cui egli affronta “condizioni e procedure
della traduzione”, Boaventura de Sousa Santos
entri in dialogo – a volte esplicitamente come
quando fa riferimento alla nozione di “zona di
contatto” presa in prestito da Mary Louise Pratt,
altre volte in maniera implicita – con percezioni
centrali degli studi sulle tradizioni contemporanei,
le stesse percezioni che ho cercato di presentare in
questo testo. Mi riferisco a questioni come la problematizzazione
del concetto di originale e della priorità di
quest’ultimo, la nozione della traduzione come
modo di negoziare differenze e di rendere la differenza
manifesta, come fenomeno non solo interculturale ma
anche intraculturale, come condizione dell’auto-riflessività
delle culture. La presenza di questi argomenti, elencati
qui senza alcun intento sistematico, testimonia la centralità
del concetto di traduzione come punto di incontro vitale
allo stato attuale delle conoscenze delle scienze umanistiche
e sociali. Esiste senza alcun dubbio un’intera
gamma di configurazioni possibili di questo punto di
incontro: per esaminare, nei loro contesti specifici,
le differenti modalità di traduzione del concetto
stesso di traduzione.
Questo testo è una versione corretta e ampliata
del discorso tenuto in occasione del XVI Meeting dei
Giornali Cultura a Belgrado, in Serbia e in Montenegro
dal titolo “Europa e i Balcani: Una politica della
traduzione” che si è svolto 24 –27
ottobre 2003
Traduzione dall’inglese di Martina Toti
© Eurozine
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