Con l’assassinio
di Gebran Tueni, vittima dell’agguato di una autobomba
il 12 dicembre scorso, salgono a 58 i giornalisti uccisi
nel corso del 2005. Tueni – direttore ed editore
del quotidiano libanese Al-Nahar – era stato eletto
deputato a giugno, all’inizio dello stesso mese
in cui Samir Kassir era saltato in aria accendendo la
propria automobile. Anche Kassir, professore universitario
e collaboratore dello stesso giornale, era stato ucciso
per aver manifestato contro la presenza siriana, durante
la “primavera libanese” sbocciata dal sangue
dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.
L’ennesimo annus horribilis della libertà
di stampa conta così 58 giornalisti e 5 assistenti
uccisi, 115 giornalisti imprigionati e 70 cyber-dissidenti
arrestati. Il luogo più pericoloso rimane l’Iraq,
24 morti in un solo anno, 73 dall’inizio del conflitto
nel 2003; solo la seconda guerra mondiale ne aveva fatti
di più. Seguono le Filippine, con sei; e poi
Afghanistan, Azerbaijan, Congo, Haiti, Pakistan, Russia,
Somalia con due morti ciascuno. Il numero dei giornalisti
uccisi è più che raddoppiato in quattro
anni: 25 nel 2002, 40 nel 2003, 53 l’anno passato.
Il perché la statistica non può dirlo,
ma è chiaro tra le righe. Là dove c’è
conflitto il giornalista è inviso ai governi,
ma è anche merce di scambio, come spiegano i
rapimenti iracheni prima, e i più recenti inediti
rapimenti palestinesi, poi.
Ben oltre il conteggio delle vittime, è possibile
ricostruire una geografia dei luoghi in cui la libera
espressione è a rischio.
Due miliardi e 800 milioni – dati dell’associazione
americana Freedom house, fondata più di sessant’anni
fa da Eleanor Roosevelt – le persone che vivono
in luoghi totalmente privi di stampa libera; 2 miliardi
e 400 milioni quelli soggetti ad una libertà
parziale, tra cui la contestata presenza dell’Italia,
segnalata anche da Reporters sans frontieres.
Solo un miliardo e 100 milioni, appena il 17% della
popolazione mondiale, può completamente godere
della libertà di informare e essere informata.
Pur non esente da condizionamenti, questa minoranza
è prevalentemente collocata nel Nord del mondo:
Europa (Finlandia, Svezia, Islanda e Norvegia in testa),
Canada, Stati Uniti, le democrazie orientali come la
Corea del Sud e il Giappone, ma anche alcuni stati africani,
come il Ghana, la Namibia e il Mali. Simboli questi
ultimi, secondo Rsf, di come la ricchezza economica
non sia l’unico prerequisito per la libertà,
ma anche delle contraddizioni in seno ad interi continenti
come l’Africa, il Sud America e l’Asia,
dove permangono situazioni altamente rischiose per l’esercizio
della professione.
Emblema di questa condizione è la Tunisia, recente
teatro del Summit mondiale sulla società dell’informazione,
duramente condannata per l’atteggiamento repressivo
del suo presidente Ben Ali nei confronti del dissenso.
Allo stesso modo l’Algeria o la Libia, in cui,
nonostante la recente riabilitazione politica, il regime
di Gheddafi continua ad essere il peggior nemico della
libertà d’informazione.
Meritano un capitolo a parte la Cina e la Russia, prime
responsabili per numero di abitanti delle statistiche
sul degrado della libertà di stampa.
La prima per la costante evoluzione tecnologica e la
conseguente diffusione dell’utilizzo di Internet
– 103 milioni gli utenti censiti dal ministero
dell’Informazione e dell’Industria –
cui tuttavia la libera circolazione delle informazioni
continua a fare scarso seguito. Note sono le perplessità
sugli accordi fra multinazionali del software e Pechino
per la fornitura di sistemi in grado di filtrare le
informazioni. Meno i dati reali sul numero di coloro
che sono reclusi nelle carceri cinesi per i più
diversi reati: ufficialmente 32 giornalisti e una settantina
di cyber-dissidenti.
Diverso discorso vale per la Russia, in cui formalmente
esiste una libera stampa privata. Nei fatti, Rsf contesta
al presidente Putin un forte controllo sul mezzo televisivo
e una serie di indebite pressioni e minacce verso chiunque
si occupi della questione cecena. Una recente prova
di questo atteggiamento, pur se non indirizzata esplicitamente
alla stampa, è l’approvazione da parte
della Duma (la camera bassa del Parlamento russo) di
una legge che impedisce di fatto la presenza di Ong
straniere sul suolo russo, e ridimensiona il margine
operativo di quelle locali.
Altri luoghi meritano un accenno. Al di là dell’Atlantico
sono la Colombia e il Messico i Paesi più a rischio.
Non solo per l’ingerenza dei governi, quanto per
il conflitto costante con i cartelli del narcotraffico.
E poi Cuba, dove la stampa “al servizio dei lavoratori”
– 23 i giornalisti incarcerati – merita
da anni il fondo della classifica tanto di Rsf che di
Freedom house assieme agli altri regimi del pianeta:
Arabia Saudita, Bangladesh, Bielorussia, Burma, Corea
del Nord, Sudan, Turkmenistan e Yemen.
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