“Non
c’è antinomia tra politiche per l’equità
sociale e politiche per l’efficienza economica”.
È molto netto il premio Nobel per l’economia
Joseph Stiglitz, stretto collaboratore della Casa Bianca
ai tempi dell’Amministrazione Clinton, nella sua
risposta alle domande poste a lui e al segretario generale
della Cgil, Guglielmo Epifani, da Marcello Messori e
Laura Pennacchi in occasione di un recente iniziativa
della Fondazione Di Vittorio sul modello sociale europeo.
Per l’economista americano esiste “complementarietà”
tra coesione sociale e sviluppo; un’evidenza dimostrata
proprio dalla situazione americana. Detassando i ricchi
e disinteressandosi degli strati più bassi della
società, infatti, George W. Bush “non ha
stimolato l’economia ma creato deficit”,
mentre gli aumenti di produttività e del Pil
registrati durante gli ultimi anni sono il frutto della
crescita di Internet e delle biotecnologie, settori
nei quali gli Stati Uniti detengono una quota preponderante
del mercato mondiale, e del comparto dell’industria
militare, che, nell’epoca delle guerra al terrorismo,
deve rispondere alle imponenti commesse del ministero
della Difesa.
In sostanza, Stiglitz, che è stato tra l’altro
vice presidente della Banca Mondiale, come d’altronde
altri suo illustri colleghi d’oltreoceano, mette
in luce quanto i successi della politica neoliberista
propagandati dall’attuale amministrazione (alta
crescita, bassa disoccupazione) siano soprattutto il
frutto di una forte presenza dello Stato in economia.
Stridente contraddizione che Epifani sottolinea affermando
che “la domanda militare americana corrisponde
a tutta la spesa pubblica italiana con importanti ricadute
su tutta l’economia e sulla ricerca”.
Il panorama mondiale propone due soli altri modelli
di successo negli ultimi dieci anni, quello cinese,
un liberismo oligarchico guidato dallo Stato, e quello
scandinavo che per entrambi gli interlocutori rappresenta
un contraltare adeguato capace di far convivere equità
e crescita. Due i tratti caratteristici del sistema
nordeuropeo: alta imposizione fiscale e alti investimenti
pubblici in ricerca, scuola e industria innovativa,
che hanno consentito alla Finlandia, per esempio, di
diventare il più grande produttore di telefoni
cellulari al mondo. Stiglitz ha poi notato come “quelle
società abbiano accettato un tasso di tecnologia
e di innovazione più alto grazie proprio alle
prestazioni sociali di cui godono” (contro la
disoccupazione, per la vecchiaia, per la maternità
e sanitarie). Paesi, ha ricordato l’economista,
che possono vantare, inoltre, “un indice di sviluppo
umano (indice promosso dall’Onu che classifica
gli stati in base al benessere dei cittadini, ndr) ben
superiore a quello statunitense dove tasso di istruzione
e redditi della classe media risultano in calo, mentre
la criminalità è in crescita con una popolazione
carceraria dieci volte superiore a quella degli altri
paesi avanzati”.
Guardare al modello scandinavo, quindi, dimenticando
quello americano perché troppo ineguale, e non
essere ossessionati nemmeno dal Pil, “come indicatore
di ricchezza in quanto può crescere anche con
l’aumento delle divaricazioni sociali” è
quanto affermano all’unisono il sindacalista e
l’economista, che negli ultimi anni ha approfondito
i suoi studi sulle cause e sulle conseguenze delle crisi
finanziarie degli anni ’90 (La globalizzazione
e i suoi oppositori, Einaudi, 2002); d’accordo
anche sulle politiche da adottare nel breve periodo
per rilanciare l’economia in Europa ed in Italia
in particolare: un no all’aumento del costo del
danaro (deciso, invece, in questi giorni dalla Banca
Centrale Europea) ed un sì ad investimenti pubblici
nei settori strategici e sull’istruzione superiore
che rimane “uno dei punti di forza del sistema
americano”.
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