291 - 26.12.05


Cerca nel sito
Cerca WWW
Cronache di una
frontiera ineguale

Luca Sebastiani



Un fiasco. O forse ancor peggio. Il summit euro-mediterraneo del 27/28 novembre scorso, a Barcellona, si è chiuso con la constatazione del niente di fatto, colla presa d’atto che dopo dieci anni dal lancio del partenariato Euromed passi non se ne sono fatti, in nessuna direzione. Il Mediterraneo resta la frontiera più ineguale del mondo. E lo resterà a lungo. Con tutti i suoi corollari.

Alla vigilia dell’incontro nessuno si era fatto illusioni. Dei capi di governo dei dieci paesi dell’altra sponda del bacino mediterraneo solo la Turchia e l’Autorità palestinese avevano confermato la loro partecipazione. Gli altri, Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Siria e Tunisia, avevano già addotto scuse più o meno ricevibili per disertare il vertice; in verità tutti intenzionati a boicottarlo in virtù delle proprie posizioni critiche sui risultati economici e gli orientamenti politici del processo di Barcellona.

Alla fine neanche lo striminzito accordo su un “codice di condotta contro il terrorismo” uscito dai negoziati e brandito come un successo da Tony Blair, presidente di turno dell’Ue, è servito a coprire l’impasse della collaborazione tra le due rive del Mediterraneo.

Lanciato nella stessa capitale spagnola esattamente dieci anni fa, nel 1995, il partenariato prevedeva una cooperazione in tre punti tra Unione Europea (più Bulgaria, Romania e Croazia) e i confinanti del Sud: partenariato politico e di sicurezza; economico e finanziario; sociale e culturale. Per sostenerli l’Ue aveva stanziato 20 miliardi di euro, 9 direttamente dal proprio bilancio e 11 sotto forma di prestiti della Banca europea d’investimento.

Gli europei, che allora avevano già intrapreso l’allargamento a Est, leggevano nella difficile situazione economica del Sud e nella fecondità dei paesi arabo musulmani, un doppio pericolo per il futuro prossimo: lo sbarco sulle proprie sponde di masse di diseredati alla ricerca di lavoro e benessere e la diffusione sempre più massiccia dell’islamismo. Bisognava allora avviare una strategia che permettesse di costruire una vasta zona di libero scambio regionale tra le due rive mediterranee con l’accompagnamento di fondi strutturali per facilitare le riforme e gli aggiustamenti necessari. Il Sud aveva bisogno di creare 100 milioni di posti di lavoro entro il 2020 per rispondere alla disoccupazione interna e ad una curva demografica in progressione. Per farlo necessitava di una crescita di almeno il doppio, del 6 o 7%.

Dieci anni dopo, nel 2005, i due continenti sembrano sempre più alla deriva. Invece di diminuire le disuguaglianze si sono accentuate e se il reddito medio per abitante nella zona Euro è passato da 20mila a 30mila dollari, nei paesi del Sud è restato praticamente lo stesso, intorno ai 5mila.

Molte le cause del fallimento che implicano la responsabilità di entrambe le controparti. L’Unione ha ottenuto l’apertura dei mercati industriali, ma ha mantenuto chiuso a doppia mandata il proprio mercato agricolo, custodito da barriere sanitarie e ambientali invalicabili. Gli scambi – a parte il petrolio – sono rimasti asimmetrici, mentre i capitali diretti a Sud rimangono rari (un magro 1,5%) e continuano a preferire la strada dell’Est e dell’Estremo Oriente. Da parte loro, d’altronde, i paesi partner meridionali hanno fatto ben poco per attirarli. Le riforme giuridiche, istituzionali e scolastiche hanno fatto solo timidi passi, mentre la chiusura atavica e la diffidenza reciproca hanno impedito l’apertura l’un l’altro dei mercati nazionali.

Insomma, troppo poco o niente affatto è stato fatto affinché il progetto di Barcellona diventasse operativo e ora il dibattito sembra impigliato sull’amletica questione se debbano venire prima i progressi democratici-istituzionali – posizione dell’Ue – o quelli economici – posizione dei paesi del Sud che leggono le pressioni europee come inaccettabili ingerenze.

Il fatto è che dallo sviluppo della cooperazione e dalla sua riuscita dipende il futuro non solo dell’area, bensì la sopravvivenza stessa dell’Europa come potenza economico-politica in grado di incidere sui processi della mondializzazione.

Secondo uno studio recente dell’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri), a causa dell’invecchiamento della sua popolazione e dell’insufficienza della sua produttività, nei prossimi anni l’Europa uscirà di fatto dal discorso internazionale stretta tra la crescita asiatica (in particolar modo la Cina) e la tenuta statunitense. Se la tendenza attuale rimarrà immutata, la crescita media dell’Ue si attesterà sul 2,3% annuo fino al 2020 per precipitare all’1,1% tra il 2021 e il 2050. A quell’altezza il peso europeo nella produzione mondiale passerà al 12% contro il 23% del 2000.

È in questo scenario che il Mediterraneo diventa centrale. Solo aprendo le porte all’immigrazione e creando un’area di libero scambio e di valori che vada da Est (Russia) a Sud (il Mediterraneo), l’Europa può invertire il proprio declino e immaginare di potersi far largo tra Asia e America. Immaginare di diventare attrattiva e poter dire la sua.

Per ora, tra un’Unione in panne di prospettive politiche ed economiche con una Costituzione appena sepolta e un bilancio non ancora disegnato, e un ancoraggio a Sud non ancora neanche iniziato, il futuro non appare certo roseo. Ci vorrebbe un’Europa che esprima una volontà politica comune, che esprima una visione del mondo che sappia abbracciare il futuro e che sia condivisa dai suoi membri prima e dai suoi partner poi.

Barcellona ci segnala che siamo in alto mare.

 

 

 

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it