Un fiasco.
O forse ancor peggio. Il summit euro-mediterraneo del
27/28 novembre scorso, a Barcellona, si è chiuso
con la constatazione del niente di fatto, colla presa
d’atto che dopo dieci anni dal lancio del partenariato
Euromed passi non se ne sono fatti, in nessuna direzione.
Il Mediterraneo resta la frontiera più ineguale
del mondo. E lo resterà a lungo. Con tutti i
suoi corollari.
Alla vigilia dell’incontro nessuno si era fatto
illusioni. Dei capi di governo dei dieci paesi dell’altra
sponda del bacino mediterraneo solo la Turchia e l’Autorità
palestinese avevano confermato la loro partecipazione.
Gli altri, Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano,
Marocco, Siria e Tunisia, avevano già addotto
scuse più o meno ricevibili per disertare il
vertice; in verità tutti intenzionati a boicottarlo
in virtù delle proprie posizioni critiche sui
risultati economici e gli orientamenti politici del
processo di Barcellona.
Alla fine neanche lo striminzito accordo su un “codice
di condotta contro il terrorismo” uscito dai negoziati
e brandito come un successo da Tony Blair, presidente
di turno dell’Ue, è servito a coprire l’impasse
della collaborazione tra le due rive del Mediterraneo.
Lanciato nella stessa capitale spagnola esattamente
dieci anni fa, nel 1995, il partenariato prevedeva una
cooperazione in tre punti tra Unione Europea (più
Bulgaria, Romania e Croazia) e i confinanti del Sud:
partenariato politico e di sicurezza; economico e finanziario;
sociale e culturale. Per sostenerli l’Ue aveva
stanziato 20 miliardi di euro, 9 direttamente dal proprio
bilancio e 11 sotto forma di prestiti della Banca europea
d’investimento.
Gli europei, che allora avevano già intrapreso
l’allargamento a Est, leggevano nella difficile
situazione economica del Sud e nella fecondità
dei paesi arabo musulmani, un doppio pericolo per il
futuro prossimo: lo sbarco sulle proprie sponde di masse
di diseredati alla ricerca di lavoro e benessere e la
diffusione sempre più massiccia dell’islamismo.
Bisognava allora avviare una strategia che permettesse
di costruire una vasta zona di libero scambio regionale
tra le due rive mediterranee con l’accompagnamento
di fondi strutturali per facilitare le riforme e gli
aggiustamenti necessari. Il Sud aveva bisogno di creare
100 milioni di posti di lavoro entro il 2020 per rispondere
alla disoccupazione interna e ad una curva demografica
in progressione. Per farlo necessitava di una crescita
di almeno il doppio, del 6 o 7%.
Dieci anni dopo, nel 2005, i due continenti sembrano
sempre più alla deriva. Invece di diminuire le
disuguaglianze si sono accentuate e se il reddito medio
per abitante nella zona Euro è passato da 20mila
a 30mila dollari, nei paesi del Sud è restato
praticamente lo stesso, intorno ai 5mila.
Molte le cause del fallimento che implicano la responsabilità
di entrambe le controparti. L’Unione ha ottenuto
l’apertura dei mercati industriali, ma ha mantenuto
chiuso a doppia mandata il proprio mercato agricolo,
custodito da barriere sanitarie e ambientali invalicabili.
Gli scambi – a parte il petrolio – sono
rimasti asimmetrici, mentre i capitali diretti a Sud
rimangono rari (un magro 1,5%) e continuano a preferire
la strada dell’Est e dell’Estremo Oriente.
Da parte loro, d’altronde, i paesi partner meridionali
hanno fatto ben poco per attirarli. Le riforme giuridiche,
istituzionali e scolastiche hanno fatto solo timidi
passi, mentre la chiusura atavica e la diffidenza reciproca
hanno impedito l’apertura l’un l’altro
dei mercati nazionali.
Insomma, troppo poco o niente affatto è stato
fatto affinché il progetto di Barcellona diventasse
operativo e ora il dibattito sembra impigliato sull’amletica
questione se debbano venire prima i progressi democratici-istituzionali
– posizione dell’Ue – o quelli economici
– posizione dei paesi del Sud che leggono le pressioni
europee come inaccettabili ingerenze.
Il fatto è che dallo sviluppo della cooperazione
e dalla sua riuscita dipende il futuro non solo dell’area,
bensì la sopravvivenza stessa dell’Europa
come potenza economico-politica in grado di incidere
sui processi della mondializzazione.
Secondo uno studio recente dell’Istituto francese
di relazioni internazionali (Ifri), a causa dell’invecchiamento
della sua popolazione e dell’insufficienza della
sua produttività, nei prossimi anni l’Europa
uscirà di fatto dal discorso internazionale stretta
tra la crescita asiatica (in particolar modo la Cina)
e la tenuta statunitense. Se la tendenza attuale rimarrà
immutata, la crescita media dell’Ue si attesterà
sul 2,3% annuo fino al 2020 per precipitare all’1,1%
tra il 2021 e il 2050. A quell’altezza il peso
europeo nella produzione mondiale passerà al
12% contro il 23% del 2000.
È in questo scenario che il Mediterraneo diventa
centrale. Solo aprendo le porte all’immigrazione
e creando un’area di libero scambio e di valori
che vada da Est (Russia) a Sud (il Mediterraneo), l’Europa
può invertire il proprio declino e immaginare
di potersi far largo tra Asia e America. Immaginare
di diventare attrattiva e poter dire la sua.
Per ora, tra un’Unione in panne di prospettive
politiche ed economiche con una Costituzione appena
sepolta e un bilancio non ancora disegnato, e un ancoraggio
a Sud non ancora neanche iniziato, il futuro non appare
certo roseo. Ci vorrebbe un’Europa che esprima
una volontà politica comune, che esprima una
visione del mondo che sappia abbracciare il futuro e
che sia condivisa dai suoi membri prima e dai suoi partner
poi.
Barcellona ci segnala che siamo in alto mare.
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