291 - 26.12.05


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Esiste una regione
mediterranea?

 



A partire dagli anni Novanta, la scala mediterranea ha assunto un’importanza sempre maggiore nel campo delle relazioni internazionali e, in particolare, nella definizione di politiche macroregionali da parte di numerosi attori: dai singoli Stati europei rivieraschi all’Unione Europea nel suo insieme, sino, a titolo diverso, alle grandi organizzazioni internazionali (come la Nato e l’Onu) e sovranazionali, quali la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale ecc.
Nonostante il moltiplicarsi dei dibattiti e delle analisi, la fondazione di centri studi dedicati al Mediterraneo e la ridondanza di iniziative istituzionali, la scala mediterranea appare di una complessità difficilmente gestibile con gli strumenti propri delle relazioni internazionali. La molteplicità dei discorsi possibili sul Mediterraneo corrode infatti dalle fondamenta la possibilità di un punto di vista unitario e rende la domanda “esiste una regione mediterranea?” tutt’altro che oziosa. Intendiamo quindi soffermarci sulla possibilità che la scala mediterranea possa svolgere il ruolo di un vero e proprio “campo di azione”, cioè di un quadro unitario di intervento all’interno di un più generale processo di riorganizzazione delle relazioni internazionali alla scala globale, o che, in alternativa, non sia invece condannata a una marginalità crescente, a vantaggio di altre scale che si presentano maggiormente compatte e omogenee.

Non essendo questa la sede per una discussione approfondita del concetto di scala, ci limitiamo ad alcune notazioni necessarie per comprendere per quali ragioni e in quali termini questo concetto assume una rilevanza centrale nella lettura delle relazioni fra Europa (e Italia) e gli altri paesi che si affacciano sul bacino mediterraneo. In primo luogo, interrogarsi sulla scala mediterranea significa interrogarsi sulle condizioni di omogeneità al suo interno, vale a dire sulle caratteristiche che lo unificano al di là delle innegabili differenze che separano gli innumerevoli luoghi che lo compongono. In altri termini, ci stiamo interrogando sul significato che quel senso di vicinanza e di prossimità – così presente nelle evocazioni culturali del “mare nostro” – assume nella vita quotidiana delle due rive. Sappiamo con certezza che parlare di scala mediterranea non equivale a negare la molteplicità dei luoghi e le distanze che li separano. Nemmeno vuole esprimere un’istanza assoluta di unificazione e di omogeneizzazione, quasi che il farsi del Mediterraneo debba ricalcare le orme di una certa discutibile globalizzazione. Interrogarsi sul – e interrogare il – Mediterraneo significa cercare un difficile equilibrio tra omogeneità e diversità, tra identità e differenza, tra prossimità e distanza che rappresenta il dono miracoloso che proprio il Mediterraneo ha elargito all’unanimità nei suoi momenti di splendore.

La seconda caratteristica è data dal fatto che ogni scala è il prodotto di processi sociali, economici, culturali, politici, religiosi che nel tempo danno origine a specifici spazi che sono riconosciuti come scale rilevanti per l’analisi. In altri termini, non esistono scale “oggettive” che sono necessariamente utili per analizzare i fenomeni umani: il fatto che alcune scale, come quella nazionale o quella urbana, siano a tal punto condivise e strutturate da apparire come cristallizzate e maggiormente “vere” di altre scale dipende dal fatto che esse sono il frutto di processi di costruzione del territorio – cioè che viene comunemente denominato “territorializzazione” – maggiormente intensi e di lunga durata. Non esistono scale «naturali» ma solamente scale “umane”: questo significa che, con il tempo, alcune di queste possono mutare di importanza, sino a scomparire, per poi tornare a essere significative in momenti storici successivi. Tutto ciò assume particolare importanza per il Mediterraneo. Se è vero che le scale sono socialmente costruite, la rilevanza della scala mediterranea non può essere dedotta dalla semplice esistenza del relativo bacino geomorfologico. Nemmeno è garanzia sufficiente il fatto che per molti secoli è stata la scala macroregionale per antonomasia, vale a dire lo spazio dove i rapporti tra le società e le comunità umane hanno trovato, come ha sostenuto Braudel, lo scenario primario del loro divenire sociale, economico, culturale, politico e religioso, sino a possedere forme complesse di unità politica ed economica. La sua rilevanza è un qualcosa che deve essere valutato nel presente: la questione non è, infatti, se il Mediterraneo sia stato nel passato una scala, ma se è, oggi, una scala rilevante per l’analisi delle relazioni internazionali. Ciò significa chiedersi se, allo stato attuale, il Mediterraneo è semplicemente un’area – vale a dire uno spazio composto da luoghi contrapposti e irriducibili gli uni agli altri, come vorrebbe lo scenario del conflitto tra civiltà elaborato da Huntington – oppure se, almeno parzialmente, questo spazio presenta quei caratteri minimi di unitarietà e condivisione che permettono di qualificarlo come un luogo.

Nel caso del Mediterraneo la questione della unitarietà appare immediatamente problematica, al punto che appare difficile persino giungere a una definizione condivisa dei suoi confini geografici. L’esistenza della regione mediterranea è, di solito, ricavata per induzione dalla geomorfologia dell’area, dall’esistenza di un mare relativamente chiuso, dal clima o ancora dalla diffusione di alcune coltivazioni: dalla presenza-assenza di flora peculiare (come l’olivo o il basilico) al clima, all’estensione degli imperi che si sono storicamente succeduti, dal bacino idrografico ai confini delle nazioni che vi si affacciano. Per esempio, può essere oggetto di discussione se l’intera area balcanica – e quindi anche Romania e Bulgaria – o addirittura l’intero bacino del Mar Nero non debbano essere ricompresi nell’analisi delle dinamiche mediterranee. In termini ancor più radicali, assumendo le fondamentali questioni dello sviluppo economico, dei comportamenti demografici, dell’accesso a istruzione e sanità, dell’aspettativa di vita e della qualità della vita, difficilmente possiamo sottrarci a quelle rappresentazioni che leggono il Mediterraneo come una vera e propria “geografia della frattura”.


Tratto da L’Italia nel Mediterraneo, Rapporto Annuale 2005 della Società Geografica Italiana.
© Società Geografica Italiana

 

 

 

 

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