A partire
dagli anni Novanta, la scala mediterranea ha assunto
un’importanza sempre maggiore nel campo delle
relazioni internazionali e, in particolare, nella definizione
di politiche macroregionali da parte di numerosi attori:
dai singoli Stati europei rivieraschi all’Unione
Europea nel suo insieme, sino, a titolo diverso, alle
grandi organizzazioni internazionali (come
la Nato e l’Onu) e sovranazionali, quali
la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale
ecc.
Nonostante il moltiplicarsi dei dibattiti e delle analisi,
la fondazione di centri studi dedicati al Mediterraneo
e la ridondanza di iniziative istituzionali, la scala
mediterranea appare di una complessità difficilmente
gestibile con gli strumenti propri delle relazioni internazionali.
La molteplicità dei discorsi possibili sul Mediterraneo
corrode infatti dalle fondamenta la possibilità
di un punto di vista unitario e rende la domanda “esiste
una regione mediterranea?” tutt’altro che
oziosa. Intendiamo quindi soffermarci sulla possibilità
che la scala mediterranea possa svolgere il ruolo di
un vero e proprio “campo di azione”, cioè
di un quadro unitario di intervento all’interno
di un più generale processo di riorganizzazione
delle relazioni internazionali alla scala globale, o
che, in alternativa, non sia invece condannata a una
marginalità crescente, a vantaggio di altre scale
che si presentano maggiormente compatte e omogenee.
Non essendo questa la sede per una discussione approfondita
del concetto di scala, ci limitiamo ad alcune notazioni
necessarie per comprendere per quali ragioni e in quali
termini questo concetto assume una rilevanza centrale
nella lettura delle relazioni fra Europa (e Italia)
e gli altri paesi che si affacciano sul bacino mediterraneo.
In primo luogo, interrogarsi sulla scala mediterranea
significa interrogarsi sulle condizioni di omogeneità
al suo interno, vale a dire sulle caratteristiche che
lo unificano al di là delle innegabili differenze
che separano gli innumerevoli luoghi che lo compongono.
In altri termini, ci stiamo interrogando sul significato
che quel senso di vicinanza e di prossimità –
così presente nelle evocazioni culturali del
“mare nostro” – assume nella vita
quotidiana delle due rive. Sappiamo con certezza che
parlare di scala mediterranea non equivale a negare
la molteplicità dei luoghi e le distanze che
li separano. Nemmeno vuole esprimere un’istanza
assoluta di unificazione e di omogeneizzazione, quasi
che il farsi del Mediterraneo debba ricalcare le orme
di una certa discutibile globalizzazione. Interrogarsi
sul – e interrogare il – Mediterraneo significa
cercare un difficile equilibrio tra omogeneità
e diversità, tra identità e differenza,
tra prossimità e distanza che rappresenta il
dono miracoloso che proprio il Mediterraneo ha elargito
all’unanimità nei suoi momenti di splendore.
La seconda caratteristica è data dal fatto che
ogni scala è il prodotto di processi sociali,
economici, culturali, politici, religiosi che nel tempo
danno origine a specifici spazi che sono riconosciuti
come scale rilevanti per l’analisi. In altri termini,
non esistono scale “oggettive” che sono
necessariamente utili per analizzare i fenomeni umani:
il fatto che alcune scale, come quella nazionale o quella
urbana, siano a tal punto condivise e strutturate da
apparire come cristallizzate e maggiormente “vere”
di altre scale dipende dal fatto che esse sono il frutto
di processi di costruzione del territorio – cioè
che viene comunemente denominato “territorializzazione”
– maggiormente intensi e di lunga durata. Non
esistono scale «naturali» ma solamente scale
“umane”: questo significa che, con il tempo,
alcune di queste possono mutare di importanza, sino
a scomparire, per poi tornare a essere significative
in momenti storici successivi. Tutto ciò assume
particolare importanza per il Mediterraneo. Se è
vero che le scale sono socialmente costruite, la rilevanza
della scala mediterranea non può essere dedotta
dalla semplice esistenza del relativo bacino geomorfologico.
Nemmeno è garanzia sufficiente il fatto che per
molti secoli è stata la scala macroregionale
per antonomasia, vale a dire lo spazio dove i rapporti
tra le società e le comunità umane hanno
trovato, come ha sostenuto Braudel, lo scenario primario
del loro divenire sociale, economico, culturale, politico
e religioso, sino a possedere forme complesse di unità
politica ed economica. La sua rilevanza è un
qualcosa che deve essere valutato nel presente: la questione
non è, infatti, se il Mediterraneo sia stato
nel passato una scala, ma se è, oggi, una scala
rilevante per l’analisi delle relazioni internazionali.
Ciò significa chiedersi se, allo stato attuale,
il Mediterraneo è semplicemente un’area
– vale a dire uno spazio composto da luoghi contrapposti
e irriducibili gli uni agli altri, come vorrebbe lo
scenario del conflitto tra civiltà elaborato
da Huntington – oppure se, almeno parzialmente,
questo spazio presenta quei caratteri minimi di unitarietà
e condivisione che permettono di qualificarlo come un
luogo.
Nel caso del Mediterraneo la questione della unitarietà
appare immediatamente problematica, al punto che appare
difficile persino giungere a una definizione condivisa
dei suoi confini geografici. L’esistenza della
regione mediterranea è, di solito, ricavata per
induzione dalla geomorfologia dell’area, dall’esistenza
di un mare relativamente chiuso, dal clima o ancora
dalla diffusione di alcune coltivazioni: dalla presenza-assenza
di flora peculiare (come l’olivo o il basilico)
al clima, all’estensione degli imperi che si sono
storicamente succeduti, dal bacino idrografico ai confini
delle nazioni che vi si affacciano. Per esempio, può
essere oggetto di discussione se l’intera area
balcanica – e quindi anche Romania e Bulgaria
– o addirittura l’intero bacino del Mar
Nero non debbano essere ricompresi nell’analisi
delle dinamiche mediterranee. In termini ancor più
radicali, assumendo le fondamentali questioni dello
sviluppo economico, dei comportamenti demografici, dell’accesso
a istruzione e sanità, dell’aspettativa
di vita e della qualità della vita, difficilmente
possiamo sottrarci a quelle rappresentazioni che leggono
il Mediterraneo come una vera e propria “geografia
della frattura”.
Tratto da L’Italia nel Mediterraneo,
Rapporto Annuale 2005 della Società Geografica
Italiana.
© Società Geografica Italiana
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