La Conferenza
di Barcellona ha inaugurato una nuova fase, ma ha soprattutto
segnato una svolta all’interno della politica
comunitaria, ponendosi come obiettivo fondamentale quello
di assicurare la pace e la stabilità nel Mediterraneo.
Si è connotata come il punto di superamento di
una politica “rinnovata” che non aveva avuto
l’incidenza auspicata. Ha ampliato e approfondito
le proposte presentate negli anni passati dai vari paesi
mediterranei, come per esempio quelle avanzate dalla
CSCM (Conference on Security and Cooperation in the
Mediterranean), quali l’inviolabilità dei
confini, il rispetto dell’integrità territoriale,
la solidarietà economica e finanziaria, la tolleranza
fra culture e religioni. L’incontro di Barcellona
si è posto come uno spartiacque tra la politica
degli interventi parziali e settoriali e la politica
rivolta all’integrazione nello spazio europeo
dei paesi della riva sud del Mediterraneo. Per la prima
volta l’Europa comunitaria, attraverso Barcellona,
ha affrontato il rapporto tra le due rive del Mediterraneo
in maniera articolata, con riferimento allo squilibrio
economico e sociale, e alla necessità di favorire
il processo d’integrazione regionale tramite nuovi
strumenti operativi in materia di cooperazione decentrata.
Ai concetti tradizionali di aiuto e cooperazione ha
sostituito quello di partenariato, capace di chiarire
meglio il significato della nuova politica mediterranea.
Sottolineando l’importanza strategica del Mediterraneo,
Barcellona ha espresso la volontà di operare
in un ambito multilaterale, fondato su uno spirito di
partenariato nel rispetto delle caratteristiche, dei
valori e delle specificità di ogni paese. Inoltre,
è stato sottolineato dai vari partecipanti che
tale iniziativa non si voleva sostituire alle altre
azioni volte a ripristinare la stabilità e la
pace nell’area: l’intento era quello di
contribuire a questo obiettivo, in piena sintonia con
il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con
i principi espressi nel corso della Conferenza di Madrid,
dove era stata avanzata l’ipotesi dei “territori
in cambio della pace”.
Se l’obiettivo principale era stato allora quello
di rendere l’area mediterranea una “zona
di dialogo, di scambi e di cooperazione che garantiscano
la pace e la stabilità”, bisognava lavorare
per la crescita della democrazia e della difesa dei
diritti dell’uomo nel rispetto delle differenti
culture. Barcellona si è dunque connotata come
un progetto globale che per la prima volta ha riconosciuto
pari dignità ai partner e ha posto l’accento
sui reali squilibri tra Europa e paesi della riva sud
del Mediterraneo, nel tentativo di superare, attraverso
una trasformazione profonda della natura dei rapporti
fino ad allora intercorsi e un’integrazione molteplice
nel campo economico, sociale e culturale, i limiti dell’assistenzialismo
e della nozione stessa della cooperazione.
Tuttavia questo progetto così ambizioso si è
imbattuto in numerosi ostacoli: molte sono state le
posizioni scettiche e pessimistiche nei confronti di
una realizzazione positiva dalla quale potessero trarre
beneficio i paesi mediterranei non comunitari. Innanzitutto
è stato criticato il concetto stesso di partenariato
euromediterraneo, il termine infatti avrebbe messo in
relazione una regione, l’Europa per l’appunto,
e un mare, il Mediterraneo. Questa critica sottendeva
da parte di alcuni paesi arabi un timore: quello secondo
il quale, attraverso l’instaurazione di un accordo,
ovvero di un partenariato euromediterraneo, i rapporti
diretti tra Europa e mondo arabo venissero ancora una
volta accantonati. In tale prospettiva, soprattutto
la Siria e il Libano hanno espresso il timore che la
Conferenza di Barcellona diventasse un escamotage per
dare vita a una sorta di “negoziazione multilaterale
simulata” che avrebbe aggirato i problemi derivanti
dalle questioni diplomatiche tra Israele e i paesi arabi.
In seconda analisi, da parte araba è stato evidenziato
il timore di fare parte di un meccanismo burocratico
sempre meno governabile e funzionale, dove i responsabili
e gli attori principali difficilmente sarebbero entrati
in una stretta e fruttuosa collaborazione. La precarietà
dei rapporti e l’opportunismo di cui l’Occidente
aveva spesso dato prova, hanno fatto avanzare altri
problemi, quali ad esempio quello posto dalla Lega araba,
che si è considerata trattata ingiustamente perché
alla Conferenza erano stati invitati a partecipare tutti
i paesi dell’Ue, compresi quelli che non si affacciavano
direttamente sul Mediterraneo, mentre non altrettanto
era stato fatto per i membri non mediterranei della
Lega. Anche la Giordania ha espresso le proprie riserve,
nel timore che Barcellona offuscasse la portata di un
altro importante evento realizzatosi all’interno
del mondo arabo: la Conferenza economica tenutasi ad
Amman nell’ottobre di quello stesso anno.
In questo panorama, allora e tuttora politicamente
instabile, s’inserisce l’azione dell’Unione
europea, che non poteva (e ancora non può) continuare
ad assistere inerme agli avvenimenti degli Stati a essa
prossimi e dai quali dipendeva e dipende il destino
comune. L’Unione europea ha dovuto quindi inscrivere
la propria politica in un quadro globale, capace di
coinvolgere tutta l’area senza estromettere i
paesi non strettamente confinanti con il bacino del
Mediterraneo. È infatti necessario estendere
piuttosto che limitare la partecipazione a tale partenariato,
invitando i paesi del Golfo e della penisola arabica
a intervenire, nonché coinvolgendo l’Ue
nel suo insieme, e non solo i paesi mediterranei e latini
che comunque hanno interessi strategici e tradizioni
legate alla dimensione mediterranea. Questo perché,
in confronto alla spinta data all’adesione dei
paesi dell’Est europeo e alla solidarietà
nei loro confronti ampiamente dimostrata anche dai paesi
non direttamente favoriti dall’allargamento, un
impegno serio dell’Unione europea nella riva sud
non potrà prescindere da una collaborazione e
da un avvallo politico-economico anche da parte degli
Stati europei nordici, quali la Germania e l’Inghilterra,
capaci di mobilitare risorse politiche ed economiche
essenziali. Per essere efficace nella sua azione all’esterno,
l’Unione europea ha bisogno di essere forte al
suo interno e di elaborare una politica comunitaria
capace di svolgere il suo ruolo con autorevolezza e
convinzione per risolvere i problemi dell’area,
primo fra tutti il conflitto israelo-palestinese.
I paesi dell’area devono infatti affrontare tutta
una serie di problemi, quali l’urbanizzazione
incontrollata, l’incapacità dei regimi
politici di aprirsi alla società civile, il basso
livello degli investimenti stranieri, il lento progresso
tecnico, un flusso emigratorio troppo consistente, il
boom demografico, una dipendenza dai paesi industrializzati,
una crescita di violenza nei movimenti di opposizione,
che richiedono, da parte dell’Ue, di essere fronteggiati
con un approccio unitario e sistematico, non semplicemente
con misure occasionali ed emergenziali.
Un altro aspetto criticato dell’approccio europeo
nei confronti dei paesi mediterranei non comunitari
è stato quello del concetto di sicurezza. Il
mondo arabo ha ritenuto che per l’Europa fossero
il timore di proteggersi da un’emigrazione incontrollata,
così come il rischio di vedere in pericolo i
numerosi approvvigionamenti di energia primaria (gas,
fosfati, petrolio) a rappresentare la spinta decisiva
alla realizzazione di una più stretta collaborazione
da attuarsi attraverso la costituzione di un partenariato.
Tuttavia la critica all’eurocentrismo è
intesa anche in senso più vasto, come “barriera
invisibile” interposta tra Ue e paesi Ptm, creata
da una diffidenza e da un rifiuto sostanziali verso
l’Altro, il mondo islamico. Per quanto alcune
ricostruzioni o percezioni dei paesi arabi della riva
sud siano in un certo senso viziate anch’esse
da un pregiudizio anti-occidentale, è impossibile
non evidenziare che sussistono delle ottime ragioni
di diffidenza nei confronti delle politiche Ue. Questo
perché in più occasioni l’Unione
europea nel suo complesso è sembrata guardare
all’insieme dei Ptm più come a un “problema”
da risolvere e a un “disturbo” da alleggerire,
che in un’ottica effettivamente multilaterale.
Al di là delle critiche e delle considerazioni
negative riguardo al nuovo approccio dell’Unione
europea, che sicuramente hanno fornito indicazioni utili
alla politica europea, le scelte fatte dai paesi che
si sono riuniti a Barcellona apparivano necessarie poiché
rappresentavano le linee fondamentali su cui costruire
un nuovo tipo di rapporto fra le due rive del Mediterraneo,
così da sostituire definitivamente i modelli
ereditati dal colonialismo e dal postcolonialismo.
Il progetto di partenariato euromediterraneo è
sicuramente difficile da realizzare, tuttavia l’Europa
di Barcellona ha individuato quelli che potrebbero essere
i cardini di un importante cambiamento, soprattutto
attraverso il superamento della visione eurocentrica
della “fortezza” da difendere.
*Tratto dal libro Un mediterraneo di conflitti.
Storia di un dialogo mancato, di Franco Rizzi,
Meltemi Editore.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|