Domenico
Losurdo
Controstoria del liberalismo
Laterza, pp. 376, euro 24
Quale rapporto esiste tra la teoria e le pratiche nell’ambito
della politica? È questo l’interrogativo
che muove il nuovo libro di Domenico Losurdo, una lunga
e dettagliata Controstoria del liberalismo.
Losurdo, ordinario di Storia della filosofia all’università
di Urbino, non è nuovo a questa tipologia di
tematica, avendo già dedicato alcune delle sue
ricerche precedenti alle implicazioni e ai risvolti
politici del pensiero di Nietzsche e Heidegger (La
comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger
e l’”ideologia della guerra” e Nietzsche,
il ribelle aristocratico) e alla dura polemica
contro la storiografia revisionista che nel nostro paese
gode di ampia risonanza (Il revisionismo storico.
Problemi e miti). Ora (e, naturalmente, non da
oggi), il bersaglio dello studioso di formazione e impianto
marxisti è il liberalismo, di cui Losurdo va
a cercare gli scheletri nell’armadio, che, nella
fattispecie, paiono fondamentalmente coincidere con
un’attitudine favorevole allo schiavismo (oltre
che, spesso, con interessi economici diretti nel traffico,
data l’estrazione sociale) di alcuni importanti
teorici e pensatori liberali. Si tratta di una storia
peraltro nota, anche se l’accuratezza e la sistematicità
del lavoro di Losurdo impressiona, rivelando nella sua
completezza l’obiettivo polemico che muove l’autore.
Quando non si tratta di giustificazione o apologia
dello schiavismo, subentra la legittimazione del dispotismo
in nome del razzismo, del colonialismo e del “primato
culturale” delle razze superiori su quelle minorenni
(una palese forma di “de-umanizzazione”),
con la liquidazione di quanti si opponevano a queste
tesi come “giacobinismo”. Oppure il maschilismo
o il classismo feroce delle classi proprietarie nei
confronti dei vagabondi e dei ceti sospinti ai margini
dall’industrialismo. Il liberalismo, insomma,
come produttore a ogni pié sospinto, nel corso
della sua storia, di quelle che l’autore chiama
“clausole di esclusione” di qualunque genere
e specie.
Mandeville, John C. Caloun (vicepresidente degli Stati
Uniti), John Locke, Adam Smith, Thomas Jefferson, Francis
Hutchenson, John Stuart Mill, i liberali animatori e
protagonisti della Rivoluzione francese, Sieyès
(considerato una sorta di apice del processo di de-umanizzazione
dei servi e dei “disgraziati votati ai lavori
faticosi”), fino a Theodore Roosevelt e a Gobineau
(assimilato in pieno dall’autore alla tradizione
liberale): tutti quanti vengono accomunati sulla base
della “cattiva coscienza” e delle parole
– inaccettabili e talora, nella fattispecie, davvero
ripugnanti – utilizzate nei confronti dell’Altro
rispetto al maschio bianco, possidente e acculturato.
Tutto vero, dunque, e documentato in maniera estremamente
puntuale da Losurdo. Ma c’è un però
(anzi, più di uno).
Per cominciare, va detto, infatti, che il liberalismo
è un vasto arcipelago, nel quale convivono tendenze
conservatrici e progressiste (oltre che liberalsocialiste),
famiglie assai differenti, talora antitetiche e non
di rado reciprocamente avverse (von Hayeck e Rawls,
von Mises e Bobbio). E che il “radicalismo”
all’origine della famiglia marxista e delle culture
critiche nasce, in realtà, come ci ha ricordato
in più occasioni Giulio Giorello, nel corso della
rivoluzione puritana di Oliver Cromwell – una
rivoluzione ovviamente liberale. E presenterà
sempre una matrice liberale, ça va sans dire,
che si indirizza in una direzione progressiva. Il pensiero
liberale è, dunque, un grande (innanzitutto quantitativamente)
contenitore.
Nessuno penserebbe mai di sottacere brutture, storture
e ignominie, ma il mostruoso biologismo (espressosi
in primis nell’eugenetica) non cancella sicuramente
il valore del liberalismo (di cui lo stesso Losurdo
si trova a dover riconoscere alcune caratteristiche
positive di emancipazione).
Vogliamo affermare che non esiste la società
liberale perfetta? Certamente; e proprio i liberali
sono i primi a riconoscerlo (innanzitutto, in nome dei
richiami al fallibilismo e alla pluralistica Open
society di cui è stato maestro Popper).
Allo stesso modo, le attitudini e i comportamenti privati
degli individui non inficiano affatto la forza di pensiero
e il carattere per noi democratico e progressivo di
molta parte della cultura e dell’ideologia liberali
– si tratta, ancora una volta, dell’annosa
e vexata quaestio del rapporto tra pensiero
e azione, che ci dovrebbe indurre a passare tutto il
tempo a rovistare tra le lenzuola dei grandi per censurarli
(e fin qui, siamo d’accordo), ma che non ci può
portare a gettare a mare le loro intuizioni e realizzazioni
intellettuali. Eh, no! Sarebbe fin troppo facile, e
pretestuoso…
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