291 - 26.12.05


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La cattiva coscienza
del liberalismo

Massimiliano Panarari



Domenico Losurdo
Controstoria del liberalismo
Laterza, pp. 376, euro 24

Quale rapporto esiste tra la teoria e le pratiche nell’ambito della politica? È questo l’interrogativo che muove il nuovo libro di Domenico Losurdo, una lunga e dettagliata Controstoria del liberalismo.
Losurdo, ordinario di Storia della filosofia all’università di Urbino, non è nuovo a questa tipologia di tematica, avendo già dedicato alcune delle sue ricerche precedenti alle implicazioni e ai risvolti politici del pensiero di Nietzsche e Heidegger (La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’”ideologia della guerra” e Nietzsche, il ribelle aristocratico) e alla dura polemica contro la storiografia revisionista che nel nostro paese gode di ampia risonanza (Il revisionismo storico. Problemi e miti). Ora (e, naturalmente, non da oggi), il bersaglio dello studioso di formazione e impianto marxisti è il liberalismo, di cui Losurdo va a cercare gli scheletri nell’armadio, che, nella fattispecie, paiono fondamentalmente coincidere con un’attitudine favorevole allo schiavismo (oltre che, spesso, con interessi economici diretti nel traffico, data l’estrazione sociale) di alcuni importanti teorici e pensatori liberali. Si tratta di una storia peraltro nota, anche se l’accuratezza e la sistematicità del lavoro di Losurdo impressiona, rivelando nella sua completezza l’obiettivo polemico che muove l’autore.

Quando non si tratta di giustificazione o apologia dello schiavismo, subentra la legittimazione del dispotismo in nome del razzismo, del colonialismo e del “primato culturale” delle razze superiori su quelle minorenni (una palese forma di “de-umanizzazione”), con la liquidazione di quanti si opponevano a queste tesi come “giacobinismo”. Oppure il maschilismo o il classismo feroce delle classi proprietarie nei confronti dei vagabondi e dei ceti sospinti ai margini dall’industrialismo. Il liberalismo, insomma, come produttore a ogni pié sospinto, nel corso della sua storia, di quelle che l’autore chiama “clausole di esclusione” di qualunque genere e specie.

Mandeville, John C. Caloun (vicepresidente degli Stati Uniti), John Locke, Adam Smith, Thomas Jefferson, Francis Hutchenson, John Stuart Mill, i liberali animatori e protagonisti della Rivoluzione francese, Sieyès (considerato una sorta di apice del processo di de-umanizzazione dei servi e dei “disgraziati votati ai lavori faticosi”), fino a Theodore Roosevelt e a Gobineau (assimilato in pieno dall’autore alla tradizione liberale): tutti quanti vengono accomunati sulla base della “cattiva coscienza” e delle parole – inaccettabili e talora, nella fattispecie, davvero ripugnanti – utilizzate nei confronti dell’Altro rispetto al maschio bianco, possidente e acculturato.
Tutto vero, dunque, e documentato in maniera estremamente puntuale da Losurdo. Ma c’è un però (anzi, più di uno).

Per cominciare, va detto, infatti, che il liberalismo è un vasto arcipelago, nel quale convivono tendenze conservatrici e progressiste (oltre che liberalsocialiste), famiglie assai differenti, talora antitetiche e non di rado reciprocamente avverse (von Hayeck e Rawls, von Mises e Bobbio). E che il “radicalismo” all’origine della famiglia marxista e delle culture critiche nasce, in realtà, come ci ha ricordato in più occasioni Giulio Giorello, nel corso della rivoluzione puritana di Oliver Cromwell – una rivoluzione ovviamente liberale. E presenterà sempre una matrice liberale, ça va sans dire, che si indirizza in una direzione progressiva. Il pensiero liberale è, dunque, un grande (innanzitutto quantitativamente) contenitore.

Nessuno penserebbe mai di sottacere brutture, storture e ignominie, ma il mostruoso biologismo (espressosi in primis nell’eugenetica) non cancella sicuramente il valore del liberalismo (di cui lo stesso Losurdo si trova a dover riconoscere alcune caratteristiche positive di emancipazione).
Vogliamo affermare che non esiste la società liberale perfetta? Certamente; e proprio i liberali sono i primi a riconoscerlo (innanzitutto, in nome dei richiami al fallibilismo e alla pluralistica Open society di cui è stato maestro Popper). Allo stesso modo, le attitudini e i comportamenti privati degli individui non inficiano affatto la forza di pensiero e il carattere per noi democratico e progressivo di molta parte della cultura e dell’ideologia liberali – si tratta, ancora una volta, dell’annosa e vexata quaestio del rapporto tra pensiero e azione, che ci dovrebbe indurre a passare tutto il tempo a rovistare tra le lenzuola dei grandi per censurarli (e fin qui, siamo d’accordo), ma che non ci può portare a gettare a mare le loro intuizioni e realizzazioni intellettuali. Eh, no! Sarebbe fin troppo facile, e pretestuoso…

 

 

 

 

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