291 - 26.12.05


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Ma non abbiamo
la bacchetta magica

Mohamed Aziza con
Francesca Pacifici



Luci e ombre, passi avanti e ristagni che faticano a smuoversi, Mohamed Aziza racconta il processo di Barcellona visto dalla sponda meridionale del Mediterraneo. Intellettuale e scrittore tunisino, ma anche Direttore generale dell’Osservatorio del Mediterraneo di Roma, Aziza non vuole fare bilanci, perché a Barcellona, dieci anni fa, non nacque un intesa, non ci fu un semplice accordo politico, ma si vide l’inizio di un processo, di un work in progress che procede a volte lentamente a volte più rapidamente, una rivoluzione mentale che ha scavalcato la “vecchia logica e europea della dominazione” ma che si trova di fronte spesso ostacoli difficili da aggirare, soprattutto se sono invisibili come stereotipi e preconcetti.

“L’intera storia del Mediterraneo è una molteplicità di conoscenze che rappresenta una provocazione per ogni ragionevole sintesi”, queste le parole di Fernand Braudel.
Per Mohamed Aziza che cosa è il Mediterraneo?


Il Mediterraneo è uno spazio geografico e allo stesso tempo un messaggio. Esso ha diverse dimensioni: una dimensione fisica, ma anche una dimensione culturale e spirituale. Nel senso che il Mediterraneo è stato il luogo di produzione di un insieme di valori, tra i quali spiccano i valori delle tre religioni monoteistiche, che a volte sono entrati in conflitto ma in generale si sono completati a vicenda. Sono questi valori che hanno dato al Mediterraneo una dimensione che va oltre quella geografica.

Che spazio ha la realtà mediterranea negli equilibri internazionali?

Se si pensa alla realtà mediterranea di oggi si deve fare i conti con la complessità che la caratterizza. Per prendere in considerazione con lucidità il presente non si può prescindere dalla dimensione storica. Ma per analizzare il Mediterraneo di oggi è fondamentale guardare al fenomeno della mondializzazione.
Il Mediterraneo deve accettare di essere una regione periferica nel panorama internazionale, oppure deve ricercare una nuova centralità? Già all’epoca della scoperta del Nuovo continente, secoli fa, il Mediterraneo perse la sua centralità nel panorama internazionale. Ora può accadere la stessa cosa con la globalizzazione. Ma credo sia importante ricordare che molte questioni e problematiche che riguardano il mondo e le società contemporanee nascono proprio nel Mediterraneo.

L’attenzione dell’Europa ai paesi terzi mediterranei non è stata sempre la stessa, ma la Conferenza di Barcellona del 1995 ha dato il via a un processo in cui i paesi della riva nord e quelli della riva sud si collocano sullo stesso piano politico all’interno di un partenariato. Sono passati dieci anni dall’inizio del processo di Barcellona, è il momento di fare un bilancio?

Per fare un bilancio del processo di Barcellona dieci anni sono allo stesso tempo molti e troppo pochi. Molti, se si pensa alla nostra legittima impazienza di vedere gli eventi evolversi più in fretta possibile. Ma sono pochi se li si inserisce in un contesto storico. Per fare una valutazione giusta sul processo di Barcellona conviene dunque essere prudenti, e prendere in considerazione i cambiamenti di questi dieci anni.
Sottolineerei innanzitutto l’importanza della parola “processo”: il senso rimanda a qualcosa di non concluso, a qualcosa ancora in movimento. E nessuno parla di Accordo di Barcellona, ma appunto di processo. Io ho partecipato a una discussione preliminare alla Conferenza del 1995, e ricordo esattamente il dibattito sulla scelta del termine. Ricordo che a tutti sembrò più giusto il termine processo, per restituire la dimensione di work in progress.
Per un bilancio di Barcellona, credo che sia importante soffermarsi sulla rivoluzione mentale che c’è stata nel 1995. Una rivoluzione mentale che ha superato la vecchia logica europea della dominazione, per rimpiazzarla con un altro tipo di rapporto fondato sul dialogo, sulla discussione, sul compromesso e sul partenariato.

La riva sud come ha accolto questo nuovo atteggiamento europeo?

Dal punto di vista della riva sud questa rivoluzione è stata uno degli aspetti più importanti di Barcellona. Il cambiamento della mentalità della vecchia Europa dominatrice per i paesi arabi mediterranei rappresenta il vero spirito del processo.
Ma Barcellona non è la bacchetta magica che fa sparire in un solo colpo i problemi del Mediterraneo. Ci sono state e ci sono molte difficoltà, concrete e invisibili.
Le difficoltà concrete dei paesi della riva sud del Mediterraneo sono legate ai problemi politici non ancora risolti. La questione israelo-palestinese ne è un esempio. Ma anche la divisione di Cipro, e ora il conflitto in Iraq.
Un altro scoglio da superare per i paesi della riva sud è l’unilateralismo delle decisioni: non si è arrivati a un nuovo metodo di lavoro per prendere decisioni nel Mediterraneo. Se la vecchia mentalità dominatrice europea è cambiata, questo non ha ancora avuto risultati sul metodo di lavoro.

In dieci anni il panorama internazionale è cambiato molto. Le relazioni tra l’Europa e il mondo arabo non sono più le stesse, e altri fenomeni, come il terrorismo e l’immigrazione, sembrano avere messo in crisi i sogni di Barcellona.

Come dicevo, nel Mediterraneo non si è ancora riusciti a realizzare un sistema concreto per lavorare insieme, riva nord e riva sud. Oggi poi, rispetto al 1995, c’è il problema del terrorismo, che rimette in discussione tutto e che minaccia le basi del dialogo. Perché il terrorismo si fonda su un rifiuto dell’altro, ma anche la difesa dal terrorismo dei paesi occidentali ha creato seri problemi al dialogo euro-arabo. E il processo di Barcellona ne risente.
C’è poi la dimensione economica: il livello di sviluppo è ancora troppo diverso tra le due rive del Mediterraneo. Non siamo riusciti a trovare uno strumento per superare questa difficoltà. E poi c’è la questione dell’immigrazione, per la cui gestione c’è bisogno di uno sforzo comune.
Ecco dunque una serie di ostacoli concreti per lo sviluppo armonico del processo di Barcellona.

Lei ha parlato di difficoltà invisibili, che cosa intendeva?

Alcuni miei amici le hanno denominate le “barriere invisibili”. La mancanza di simmetria tra le percezioni e i valori dei popoli delle due rive è una di queste. La concezione e la percezione della storia non è la stessa, la maniera di affrontare i problemi non è la stessa, e così le differenze culturali troppo spesso sono motivo di divisione.
L’altro, da entrambe le parti, è visto ancora come potenziale nemico. Prendiamo nello specifico la relazione tra Occidente e Islam, che in fondo racchiude quasi completamente la relazione tra le due rive del Mediterraneo. Le diverse concezioni del mondo sono tanto differenti, che risulta difficile trovare un denominatore comune. La democrazia, la funzione della religione nelle società sono molto diverse al nord e al sud. Tra gli ostacoli invisibili non dimenticherei infine gli stereotipi. In entrambe le rive del Mediterraneo le persone hanno un’idea precostituita delle altre culture, e questo è un problema che può essere risolto solo dal dialogo interculturale.
C’è da dire però che a Barcellona non si cercava una unificazione di valori, ma un terreno di intesa tra queste differenze, nel rispetto delle stesse.

Dopo dieci anni, il processo di Barcellona può essere rilanciato?

Credo di sì. Ma sarà necessario rilanciarlo attraverso una ridefinizione degli obiettivi e dei metodi. In primo luogo è necessario collocare l’impresa della cooperazione euro-mediterranea in un quadro internazionale allargato e profondamente rinnovato. La mondializzazione e l’ascesa di nuovi attori nella vita politica ed economica – paesi emergenti come la Cina, l’India, il Brasile e l’Africa del Sud – hanno modificato lo scacchiere internazionale. Bisogna convincere i governi della riva sud che è loro interesse impegnarsi per un’alleanza rinnovata con l’Europa. Per esistere e per resistere alle sfide economico-sociali che fenomeni come l’emigrazione di massa e clandestina creano. E per cercare di avere un ruolo nei cambiamenti internazionali in corso.

Perché secondo lei alla celebrazione del decennale di Barcellona i governi arabi erano assenti?

È difficile rispondere al loro posto. Ma la loro assenza è una constatazione oggettiva che non può essere nascosta né minimizzata ma va presa in seria considerazione. Io credo che l’ordine del giorno del summit euro-mediterraneo per i dieci anni di Barcellona sia stato un po’ troppo negativo per i partner arabi. Credo che essi abbiano potuto sentirsi in soggezione per i temi principali proposti: terrorismo, immigrazione, sicurezza.
Sarebbe stato meglio aggiungere forse argomenti di discussione più positivi: concezione e metodi per lo sviluppo condiviso, rafforzamento della politica di buon vicinato, creazione di un fondo europeo per l’integrazione delle comunità immigrate, potenziamento e sostegno delle associazioni della società civile e del loro ruolo nelle decisioni e nelle azioni a favore della cooperazione euro-mediterranea.
La Commissione Europea dovrà dare spiegazioni per riavvicinare le prospettive e i punti di vista dei paesi della riva nord e della riva sud. Ma non dimentichiamo che la parola «processo» sottintende uno sforzo continuo.

 

 

 

 

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