Luci e ombre,
passi avanti e ristagni che faticano a smuoversi, Mohamed
Aziza racconta il processo di Barcellona visto dalla
sponda meridionale del Mediterraneo. Intellettuale e
scrittore tunisino, ma anche Direttore generale dell’Osservatorio
del Mediterraneo di Roma, Aziza non vuole fare bilanci,
perché a Barcellona, dieci anni fa, non nacque
un intesa, non ci fu un semplice accordo politico, ma
si vide l’inizio di un processo, di un work
in progress che procede a volte lentamente a volte
più rapidamente, una rivoluzione mentale che
ha scavalcato la “vecchia logica e europea della
dominazione” ma che si trova di fronte spesso
ostacoli difficili da aggirare, soprattutto se sono
invisibili come stereotipi e preconcetti.
“L’intera storia del Mediterraneo
è una molteplicità di conoscenze che rappresenta
una provocazione per ogni ragionevole sintesi”,
queste le parole di Fernand Braudel.
Per Mohamed Aziza che cosa è il Mediterraneo?
Il Mediterraneo è uno spazio geografico e allo
stesso tempo un messaggio. Esso ha diverse dimensioni:
una dimensione fisica, ma anche una dimensione culturale
e spirituale. Nel senso che il Mediterraneo è
stato il luogo di produzione di un insieme di valori,
tra i quali spiccano i valori delle tre religioni monoteistiche,
che a volte sono entrati in conflitto ma in generale
si sono completati a vicenda. Sono questi valori che
hanno dato al Mediterraneo una dimensione che va oltre
quella geografica.
Che spazio ha la realtà mediterranea
negli equilibri internazionali?
Se si pensa alla realtà mediterranea di oggi
si deve fare i conti con la complessità che la
caratterizza. Per prendere in considerazione con lucidità
il presente non si può prescindere dalla dimensione
storica. Ma per analizzare il Mediterraneo di oggi è
fondamentale guardare al fenomeno della mondializzazione.
Il Mediterraneo deve accettare di essere una regione
periferica nel panorama internazionale, oppure deve
ricercare una nuova centralità? Già all’epoca
della scoperta del Nuovo continente, secoli fa, il Mediterraneo
perse la sua centralità nel panorama internazionale.
Ora può accadere la stessa cosa con la globalizzazione.
Ma credo sia importante ricordare che molte questioni
e problematiche che riguardano il mondo e le società
contemporanee nascono proprio nel Mediterraneo.
L’attenzione dell’Europa ai paesi
terzi mediterranei non è stata sempre la stessa,
ma la Conferenza di Barcellona del 1995 ha dato il via
a un processo in cui i paesi della riva nord e quelli
della riva sud si collocano sullo stesso piano politico
all’interno di un partenariato. Sono passati dieci
anni dall’inizio del processo di Barcellona, è
il momento di fare un bilancio?
Per fare un bilancio del processo di Barcellona dieci
anni sono allo stesso tempo molti e troppo pochi. Molti,
se si pensa alla nostra legittima impazienza di vedere
gli eventi evolversi più in fretta possibile.
Ma sono pochi se li si inserisce in un contesto storico.
Per fare una valutazione giusta sul processo di Barcellona
conviene dunque essere prudenti, e prendere in considerazione
i cambiamenti di questi dieci anni.
Sottolineerei innanzitutto l’importanza della
parola “processo”: il senso rimanda a qualcosa
di non concluso, a qualcosa ancora in movimento. E nessuno
parla di Accordo di Barcellona, ma appunto di processo.
Io ho partecipato a una discussione preliminare alla
Conferenza del 1995, e ricordo esattamente il dibattito
sulla scelta del termine. Ricordo che a tutti sembrò
più giusto il termine processo, per restituire
la dimensione di work in progress.
Per un bilancio di Barcellona, credo che sia importante
soffermarsi sulla rivoluzione mentale che c’è
stata nel 1995. Una rivoluzione mentale che ha superato
la vecchia logica europea della dominazione, per rimpiazzarla
con un altro tipo di rapporto fondato sul dialogo, sulla
discussione, sul compromesso e sul partenariato.
La riva sud come ha accolto questo nuovo atteggiamento
europeo?
Dal punto di vista della riva sud questa rivoluzione
è stata uno degli aspetti più importanti
di Barcellona. Il cambiamento della mentalità
della vecchia Europa dominatrice per i paesi arabi mediterranei
rappresenta il vero spirito del processo.
Ma Barcellona non è la bacchetta magica che fa
sparire in un solo colpo i problemi del Mediterraneo.
Ci sono state e ci sono molte difficoltà, concrete
e invisibili.
Le difficoltà concrete dei paesi della riva sud
del Mediterraneo sono legate ai problemi politici non
ancora risolti. La questione israelo-palestinese ne
è un esempio. Ma anche la divisione di Cipro,
e ora il conflitto in Iraq.
Un altro scoglio da superare per i paesi della riva
sud è l’unilateralismo delle decisioni:
non si è arrivati a un nuovo metodo di lavoro
per prendere decisioni nel Mediterraneo. Se la vecchia
mentalità dominatrice europea è cambiata,
questo non ha ancora avuto risultati sul metodo di lavoro.
In dieci anni il panorama internazionale è
cambiato molto. Le relazioni tra l’Europa e il
mondo arabo non sono più le stesse, e altri fenomeni,
come il terrorismo e l’immigrazione, sembrano
avere messo in crisi i sogni di Barcellona.
Come dicevo, nel Mediterraneo non si è ancora
riusciti a realizzare un sistema concreto per lavorare
insieme, riva nord e riva sud. Oggi poi, rispetto al
1995, c’è il problema del terrorismo, che
rimette in discussione tutto e che minaccia le basi
del dialogo. Perché il terrorismo si fonda su
un rifiuto dell’altro, ma anche la difesa dal
terrorismo dei paesi occidentali ha creato seri problemi
al dialogo euro-arabo. E il processo di Barcellona ne
risente.
C’è poi la dimensione economica: il livello
di sviluppo è ancora troppo diverso tra le due
rive del Mediterraneo. Non siamo riusciti a trovare
uno strumento per superare questa difficoltà.
E poi c’è la questione dell’immigrazione,
per la cui gestione c’è bisogno di uno
sforzo comune.
Ecco dunque una serie di ostacoli concreti per lo sviluppo
armonico del processo di Barcellona.
Lei ha parlato di difficoltà invisibili,
che cosa intendeva?
Alcuni miei amici le hanno denominate le “barriere
invisibili”. La mancanza di simmetria tra le percezioni
e i valori dei popoli delle due rive è una di
queste. La concezione e la percezione della storia non
è la stessa, la maniera di affrontare i problemi
non è la stessa, e così le differenze
culturali troppo spesso sono motivo di divisione.
L’altro, da entrambe le parti, è visto
ancora come potenziale nemico. Prendiamo nello specifico
la relazione tra Occidente e Islam, che in fondo racchiude
quasi completamente la relazione tra le due rive del
Mediterraneo. Le diverse concezioni del mondo sono tanto
differenti, che risulta difficile trovare un denominatore
comune. La democrazia, la funzione della religione nelle
società sono molto diverse al nord e al sud.
Tra gli ostacoli invisibili non dimenticherei infine
gli stereotipi. In entrambe le rive del Mediterraneo
le persone hanno un’idea precostituita delle altre
culture, e questo è un problema che può
essere risolto solo dal dialogo interculturale.
C’è da dire però che a Barcellona
non si cercava una unificazione di valori, ma un terreno
di intesa tra queste differenze, nel rispetto delle
stesse.
Dopo dieci anni, il processo di Barcellona
può essere rilanciato?
Credo di sì. Ma sarà necessario rilanciarlo
attraverso una ridefinizione degli obiettivi e dei metodi.
In primo luogo è necessario collocare l’impresa
della cooperazione euro-mediterranea in un quadro internazionale
allargato e profondamente rinnovato. La mondializzazione
e l’ascesa di nuovi attori nella vita politica
ed economica – paesi emergenti come la Cina, l’India,
il Brasile e l’Africa del Sud – hanno modificato
lo scacchiere internazionale. Bisogna convincere i governi
della riva sud che è loro interesse impegnarsi
per un’alleanza rinnovata con l’Europa.
Per esistere e per resistere alle sfide economico-sociali
che fenomeni come l’emigrazione di massa e clandestina
creano. E per cercare di avere un ruolo nei cambiamenti
internazionali in corso.
Perché secondo lei alla celebrazione
del decennale di Barcellona i governi arabi erano assenti?
È difficile rispondere al loro posto. Ma la
loro assenza è una constatazione oggettiva che
non può essere nascosta né minimizzata
ma va presa in seria considerazione. Io credo che l’ordine
del giorno del summit euro-mediterraneo per i dieci
anni di Barcellona sia stato un po’ troppo negativo
per i partner arabi. Credo che essi abbiano potuto sentirsi
in soggezione per i temi principali proposti: terrorismo,
immigrazione, sicurezza.
Sarebbe stato meglio aggiungere forse argomenti di discussione
più positivi: concezione e metodi per lo sviluppo
condiviso, rafforzamento della politica di buon vicinato,
creazione di un fondo europeo per l’integrazione
delle comunità immigrate, potenziamento e sostegno
delle associazioni della società civile e del
loro ruolo nelle decisioni e nelle azioni a favore della
cooperazione euro-mediterranea.
La Commissione Europea dovrà dare spiegazioni
per riavvicinare le prospettive e i punti di vista dei
paesi della riva nord e della riva sud. Ma non dimentichiamo
che la parola «processo» sottintende uno
sforzo continuo.
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