Questo scritto è l’introduzione al
libro, Credere,
di Slavoj iek, Meltemi editore, 234 pagg,
euro 19,50.
Nella sua Antologia minima dei clichés hollywoodiani
(1995) Roger Ebert raccoglie centinaia di stereotipi
e scene immancabili. Si va dalla famosa regola del “Carretto
della frutta” (durante una tipica scena di inseguimento
che si svolge in un paese straniero o in un ambiente
etnico, un carretto della frutta viene rovesciato e
un fruttivendolo arrabbiato corre per la strada minacciando
col pugno l’auto del protagonista che scappa via)
ai casi più raffinati della regola del “Grazie,
non c’è di che” (quando due personaggi
hanno appena finito di confidarsi l’un l’altro,
non appena il personaggio A sta per lasciare la stanza,
B dice (più o meno) “Bob (o qualunque sia
il nome di A)?”, A si ferma, si gira e dice “Sì?”
e B allora di rimando “Grazie”) o alla regola
della “Borsa della spesa” (tutte le volte
che una donna cinica, ma fragile, che non vuole più
innamorarsi, viene inseguita da un pretendente che vorrebbe
abbattere il muro della sua solitudine, lei va a fare
la spesa; le borse a quel punto si rompono sempre e
la frutta e la verdura si rovesciano dappertutto, a
simbolizzare la confusione in cui si trova la sua vita,
e così il corteggiatore può aiutarla a
raccogliere non solo le sue arance e le sue mele, ma
anche i pezzi della sua vita).
Ecco qui che cosa è veramente il “Grande
Altro” di Lacan, la sostanza simbolica delle nostre
vite: non semplicemente le norme simboliche esplicite
che regolano l’interazione sociale, ma anche l’intricata
ragnatela di “implicite” norme non scritte
che regolano di fatto le nostre parole e le nostre azioni.
Non meno che la stessa vita sociale, il mondo accademico
di oggi, che si auto-definisce “radicale”,
è permeato da regole e proibizioni non scritte
– sebbene tali regole non siano mai dichiarate
esplicitamente, il disobbedirvi può avere conseguenze
terribili. Una di queste regole non scritte riguarda
l’indiscussa onnipresenza della necessità
di “contestualizzare” o di “situare”
la propria posizione: il modo più facile per
acquisire automaticamente punti in un dibattito è
quello di protestare dicendo che la posizione dell’avversario
non è correttamente “situata” in
un contesto storico – “Parli di donne –
quali donne? Non c’è la ‘donna’
in quanto tale, e quindi non è che il tuo generico
parlare di donne, nella sua apparente neutralità
onnicomprensiva, privilegia certe specifiche figure
della femminilità e ne esclude altre?”.
Perché una tale storicizzazione radicale è
falsa, a dispetto dell’ovvio momento di verità
che contiene? Perché la stessa realtà
sociale di oggi (il mercato globale tardo capitalista)
è dominata da ciò a cui Marx alludeva
come potenza dell’“astrazione reale”:
la circolazione del Capitale è la forza di una
radicale “deterritorializzazione” (per usare
il termine di Deleuze) che, proprio nel suo funzionamento
reale, ignora attivamente le condizioni specifiche e
non può “radicarsi” in esse. Non
è più, come nell’ideologia tradizionale,
l’universale che rimuove l’elemento della
propria parzialità, del proprio privilegiare
un contenuto particolare; piuttosto, è proprio
il tentativo di localizzare delle radici particolari
che nasconde ideologicamente la realtà sociale
del dominio dell’“astrazione reale”.
Un’altra di queste regole è, nell’ultimo
decennio, l’aver elevato Hannah Arendt ad autorità
intoccabile, a “oggetto di transfert”. Fino
a vent’anni fa i radicali di sinistra la rifiutavano
in quanto autrice dell’idea di “totalitarismo”,
l’arma chiave dell’Occidente nello scontro
ideologico della guerra fredda: se, in una riunione
di Cultural Studies negli anni Settanta, a qualcuno
fosse stato chiesto in tono innocente “La tua
linea argomentativa non è simile a quella di
Arendt?”, sarebbe stato un segno sicuro che quel
qualcuno era in grossi guai. Oggi, invece, ci si aspetta
che la si tratti con rispetto – persino gli accademici
il cui orientamento di fondo potrebbe spingerli contro
Arendt (psicoanalisti come Julia Kristeva, a causa del
rifiuto della Arendt per la teoria psicoanalitica; seguaci
della Scuola di Francoforte come Richard Bernstein,
a causa dell’eccessiva animosità della
Arendt nei confronti di Adorno), perseguono l’impossibile
obiettivo di riconciliarla con i propri fondamenti teoretici.
Questa elevazione di Hannah Arendt è forse il
più chiaro indice della disfatta teoretica della
sinistra, cioè di come la sinistra abbia accettato
le coordinate di fondo della democrazia liberale (“democrazia”
contro “totalitarismo”, ecc.) e ora cerchi
di ridefinire la propria (op)posizione entro questo
spazio. La prima cosa da fare è perciò
violare coraggiosamente questi tabù liberali:
CHI SE NE FREGA se si viene accusati di essere “anti-democratici”,
“totalitaristi”…
Un’altra regola non scritta riguarda il credo
religioso: si deve simulare di non credere, cioè
un’aperta ammissione pubblica del proprio credo
religioso è sentita quasi come qualcosa di vergognoso
ed esibizionistico. Sembriamo tutti nella posizione
del Faust di Goethe che fornisce prontamente una serie
di contro-domande evasive quando Margherita, dopo che
hanno consumato il loro amore, gli chiede “Qual
è la tua posizione nei confronti della religione?”:
si deve veramente avere fede? Chi può dire: credo
in Dio? ecc., ecc. (Faust, I, vv. 3415 sgg.). Il lato
nascosto di questa resistenza è che nessuno sfugge
davvero al credere – un fatto che merita di essere
sottolineato soprattutto oggi, nella nostra epoca che
si presume atea. Sarebbe a dire, nella nostra secolare
cultura post-tradizionale ufficialmente atea ed edonistica,
in cui nessuno è pronto a confessare pubblicamente
la propria fede, la struttura soggiacente del credere
è tanto più pervasiva – noi tutti,
segretamente, crediamo. La posizione di Lacan è
qui chiara e univoca: “Dio è inconscio”,
cioè è naturale per l’essere umano
cedere alla tentazione di credere. Proprio questo predominio
del credere, il fatto che la necessità di credere
sia consustanziale alla soggettività umana, è
ciò che rende problematico il classico argomento
evocato dai credenti per disarmare i loro oppositori:
solo coloro che credono possono comprendere cosa significa
credere, dunque gli atei non sono in grado a priori
di argomentare contro di noi… Ciò che è
falso in questo ragionamento è la sua premessa:
l’ateismo non è il livello zero che chiunque
può comprendere, dal momento che significa semplicemente
la mancanza di (fede in) Dio – probabilmente,
niente è più difficile che sostenere questa
posizione, essere un vero materialista. In quanto la
struttura del credere è quella del feticista
Spaltung und Verleugnung1 (“So che non esiste
il Grande Altro, ma ciò nonostante [...] credo
segretamente in Lui”), solo lo psicanalista che
si fa carico dell’inesistenza del Grande Altro
è un vero ateo. Persino gli stalinisti erano
dei credenti, in quanto hanno sempre evocato il Giudizio
finale della Storia che determinerà il “significato
oggettivo” delle loro azioni. Anche un trasgressore
radicale come de Sade non era un ateo coerente; la logica
segreta della sua trasgressione è un atto di
sfida rivolto a Dio, cioè l’inverso della
logica classica della scissione feticista (“So
che non esiste il Grande Altro, ma ciò nonostante…”):
“Sebbene sappia che Dio esiste, sono pronto a
sfidarlo, a violare le sue proibizioni, ad agire COME
SE Egli NON esistesse!”. A parte la psicoanalisi
(quella freudiana, in opposizione alla deviazione junghiana),
è, forse, solo Heidegger che, in Essere e Tempo,
ha spiegato coerentemente l’idea atea di esistenza
umana, gettata entro un orizzonte finito contingente,
con la morte come sua possibilità definitiva.
Il presente libello si sforza di aggirare questo patetico
orientamento predominante: il suo autore, un vecchio
ateo incondizionato per formazione (persino materialista
dialettico), propone qui il ritorno alla struttura simbolica
che sottostà al cristianesimo.
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