290 - 12.12.05


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Dio è inconscio

Slavoj Žižek



 

Questo scritto è l’introduzione al libro, Credere,
di Slavoj Žižek, Meltemi editore, 234 pagg, euro 19,50.

Nella sua Antologia minima dei clichés hollywoodiani (1995) Roger Ebert raccoglie centinaia di stereotipi e scene immancabili. Si va dalla famosa regola del “Carretto della frutta” (durante una tipica scena di inseguimento che si svolge in un paese straniero o in un ambiente etnico, un carretto della frutta viene rovesciato e un fruttivendolo arrabbiato corre per la strada minacciando col pugno l’auto del protagonista che scappa via) ai casi più raffinati della regola del “Grazie, non c’è di che” (quando due personaggi hanno appena finito di confidarsi l’un l’altro, non appena il personaggio A sta per lasciare la stanza, B dice (più o meno) “Bob (o qualunque sia il nome di A)?”, A si ferma, si gira e dice “Sì?” e B allora di rimando “Grazie”) o alla regola della “Borsa della spesa” (tutte le volte che una donna cinica, ma fragile, che non vuole più innamorarsi, viene inseguita da un pretendente che vorrebbe abbattere il muro della sua solitudine, lei va a fare la spesa; le borse a quel punto si rompono sempre e la frutta e la verdura si rovesciano dappertutto, a simbolizzare la confusione in cui si trova la sua vita, e così il corteggiatore può aiutarla a raccogliere non solo le sue arance e le sue mele, ma anche i pezzi della sua vita).
Ecco qui che cosa è veramente il “Grande Altro” di Lacan, la sostanza simbolica delle nostre vite: non semplicemente le norme simboliche esplicite che regolano l’interazione sociale, ma anche l’intricata ragnatela di “implicite” norme non scritte che regolano di fatto le nostre parole e le nostre azioni.

Non meno che la stessa vita sociale, il mondo accademico di oggi, che si auto-definisce “radicale”, è permeato da regole e proibizioni non scritte – sebbene tali regole non siano mai dichiarate esplicitamente, il disobbedirvi può avere conseguenze terribili. Una di queste regole non scritte riguarda l’indiscussa onnipresenza della necessità di “contestualizzare” o di “situare” la propria posizione: il modo più facile per acquisire automaticamente punti in un dibattito è quello di protestare dicendo che la posizione dell’avversario non è correttamente “situata” in un contesto storico – “Parli di donne – quali donne? Non c’è la ‘donna’ in quanto tale, e quindi non è che il tuo generico parlare di donne, nella sua apparente neutralità onnicomprensiva, privilegia certe specifiche figure della femminilità e ne esclude altre?”. Perché una tale storicizzazione radicale è falsa, a dispetto dell’ovvio momento di verità che contiene? Perché la stessa realtà sociale di oggi (il mercato globale tardo capitalista) è dominata da ciò a cui Marx alludeva come potenza dell’“astrazione reale”: la circolazione del Capitale è la forza di una radicale “deterritorializzazione” (per usare il termine di Deleuze) che, proprio nel suo funzionamento reale, ignora attivamente le condizioni specifiche e non può “radicarsi” in esse. Non è più, come nell’ideologia tradizionale, l’universale che rimuove l’elemento della propria parzialità, del proprio privilegiare un contenuto particolare; piuttosto, è proprio il tentativo di localizzare delle radici particolari che nasconde ideologicamente la realtà sociale del dominio dell’“astrazione reale”.

Un’altra di queste regole è, nell’ultimo decennio, l’aver elevato Hannah Arendt ad autorità intoccabile, a “oggetto di transfert”. Fino a vent’anni fa i radicali di sinistra la rifiutavano in quanto autrice dell’idea di “totalitarismo”, l’arma chiave dell’Occidente nello scontro ideologico della guerra fredda: se, in una riunione di Cultural Studies negli anni Settanta, a qualcuno fosse stato chiesto in tono innocente “La tua linea argomentativa non è simile a quella di Arendt?”, sarebbe stato un segno sicuro che quel qualcuno era in grossi guai. Oggi, invece, ci si aspetta che la si tratti con rispetto – persino gli accademici il cui orientamento di fondo potrebbe spingerli contro Arendt (psicoanalisti come Julia Kristeva, a causa del rifiuto della Arendt per la teoria psicoanalitica; seguaci della Scuola di Francoforte come Richard Bernstein, a causa dell’eccessiva animosità della Arendt nei confronti di Adorno), perseguono l’impossibile obiettivo di riconciliarla con i propri fondamenti teoretici. Questa elevazione di Hannah Arendt è forse il più chiaro indice della disfatta teoretica della sinistra, cioè di come la sinistra abbia accettato le coordinate di fondo della democrazia liberale (“democrazia” contro “totalitarismo”, ecc.) e ora cerchi di ridefinire la propria (op)posizione entro questo spazio. La prima cosa da fare è perciò violare coraggiosamente questi tabù liberali: CHI SE NE FREGA se si viene accusati di essere “anti-democratici”, “totalitaristi”…

Un’altra regola non scritta riguarda il credo religioso: si deve simulare di non credere, cioè un’aperta ammissione pubblica del proprio credo religioso è sentita quasi come qualcosa di vergognoso ed esibizionistico. Sembriamo tutti nella posizione del Faust di Goethe che fornisce prontamente una serie di contro-domande evasive quando Margherita, dopo che hanno consumato il loro amore, gli chiede “Qual è la tua posizione nei confronti della religione?”: si deve veramente avere fede? Chi può dire: credo in Dio? ecc., ecc. (Faust, I, vv. 3415 sgg.). Il lato nascosto di questa resistenza è che nessuno sfugge davvero al credere – un fatto che merita di essere sottolineato soprattutto oggi, nella nostra epoca che si presume atea. Sarebbe a dire, nella nostra secolare cultura post-tradizionale ufficialmente atea ed edonistica, in cui nessuno è pronto a confessare pubblicamente la propria fede, la struttura soggiacente del credere è tanto più pervasiva – noi tutti, segretamente, crediamo. La posizione di Lacan è qui chiara e univoca: “Dio è inconscio”, cioè è naturale per l’essere umano cedere alla tentazione di credere. Proprio questo predominio del credere, il fatto che la necessità di credere sia consustanziale alla soggettività umana, è ciò che rende problematico il classico argomento evocato dai credenti per disarmare i loro oppositori: solo coloro che credono possono comprendere cosa significa credere, dunque gli atei non sono in grado a priori di argomentare contro di noi… Ciò che è falso in questo ragionamento è la sua premessa: l’ateismo non è il livello zero che chiunque può comprendere, dal momento che significa semplicemente la mancanza di (fede in) Dio – probabilmente, niente è più difficile che sostenere questa posizione, essere un vero materialista. In quanto la struttura del credere è quella del feticista Spaltung und Verleugnung1 (“So che non esiste il Grande Altro, ma ciò nonostante [...] credo segretamente in Lui”), solo lo psicanalista che si fa carico dell’inesistenza del Grande Altro è un vero ateo. Persino gli stalinisti erano dei credenti, in quanto hanno sempre evocato il Giudizio finale della Storia che determinerà il “significato oggettivo” delle loro azioni. Anche un trasgressore radicale come de Sade non era un ateo coerente; la logica segreta della sua trasgressione è un atto di sfida rivolto a Dio, cioè l’inverso della logica classica della scissione feticista (“So che non esiste il Grande Altro, ma ciò nonostante…”): “Sebbene sappia che Dio esiste, sono pronto a sfidarlo, a violare le sue proibizioni, ad agire COME SE Egli NON esistesse!”. A parte la psicoanalisi (quella freudiana, in opposizione alla deviazione junghiana), è, forse, solo Heidegger che, in Essere e Tempo, ha spiegato coerentemente l’idea atea di esistenza umana, gettata entro un orizzonte finito contingente, con la morte come sua possibilità definitiva.

Il presente libello si sforza di aggirare questo patetico orientamento predominante: il suo autore, un vecchio ateo incondizionato per formazione (persino materialista dialettico), propone qui il ritorno alla struttura simbolica che sottostà al cristianesimo.


 

 

 

 

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