La rivolta
nelle periferie francesi ha portato all’attenzione
della cronaca i rapporti tra spazio ed etnicità;
i diversi gruppi etnici non si distribuiscono a caso
all’interno dello spazio urbano ma, al contrario,
da una parte ne risultano in qualche modo condizionati,
e dall’altra, avendo un differente retroterra
culturale, ne fruiscono in modi diversi.
Se la crescita dell’immigrazione straniera in
Italia rivela l’evoluzione verso una piena affermazione
della multietnicità, possiamo osservare come
siano le città a risentire i maggiori effetti
di questo cambiamento demografico. È vero, del
resto, che la storia di ogni grande città è
la storia di apporti consecutivi, di ondate migratorie.
Che, connesso all’esistenza stessa delle città,
al divenire storico degli organismi urbani, è
il fatto che esse – o almeno le maggiori, per
dimensioni e funzioni – siano costituite da strati
differenziati di popolazione che si rinnovano continuamente,
in un processo che può determinare incomprensioni,
conflitti e progressivi aggiustamenti dell’equilibrio
sociale. Ecco perché, in questa ridefinizione
delle identità, la presenza degli immigrati ha
un ruolo fondamentale.
Mentre la città sperimenta un processo costante
di immissione di nuovi apporti e nuove culture, al tempo
stesso si ridefinisce nel suo modo di essere comunità
locale e nella percezione che ha di sé. Essa,
sempre più società e sempre meno comunità
man mano che evolve nelle sue funzioni o che cresce
di dimensioni, continua al tempo stesso ad avere al
suo interno ambiti di comunità (culturale, religiosa,
etnica) localizzata. È duplice, quindi, il processo
evolutivo in corso, e si dirige contemporaneamente sia
verso la localizzazione che verso una crescente mobilità
e pluralizzazione. Pluralizzandosi, inoltre, la città
diventa più complessa e vede delinearsi al suo
interno sottosistemi e reti che molto spesso non riescono
a comunicare tra di loro perché privi di un linguaggio
comune. Da una parte, quindi, una progressiva perdita
dei confini, dall’altra, ancora una volta, un
continuo ridefinirsi degli stessi.
È unanimemente condiviso che l’organizzazione
del territorio – e specialmente di quello urbano
– rifletta i differenti periodi storici e le diverse
esigenze economiche, oltre che le circostanze più
o meno contingenti, ed è da tutti riconosciuta
la stretta interrelazione tra trasformazioni economiche
e trasformazioni demografiche. In alcuni casi i cambiamenti
espansivi, le variazioni dell’assetto urbano sono
avvenuti insieme alla nascita di nuove realtà
produttive, che, fungendo da calamita, hanno attratto
manodopera da zone più o meno lontane; la maggior
parte delle volte, però, le modalità di
intervento si sono ispirate ad una logica dell’emergenza,
in base alla quale venivano predisposte inizialmente
abitazioni di fortuna, cui in certi casi facevano seguito
delle sistemazioni più stabili. Spesso le trasformazioni
urbane sono state molto poco evidenti: si è rimaneggiato
l’esistente, si è modificato l’uso
di quanto era già disponibile; alcuni gruppi
sociali hanno scelto determinati quartieri come proprio
domicilio, certe zone sono divenute esclusivamente residenziali,
altre hanno accentuato il loro carattere commerciale
o di servizio. Altre volte ancora, anche in mancanza
di un esplicito richiamo economico, si sono inserite
nel tessuto urbano nuove presenze, che ne hanno modificato
l’assetto: proprio questo è il caso delle
attuali migrazioni, che, una volta raggiunta una certa
consistenza, hanno iniziato ad incidere sull’assetto
preesistente.
La percentuale di stranieri presenti nel nostro Paese
è ancora relativamente contenuta rispetto agli
altri principali Stati europei; eppure, la crescita
del fenomeno ci ha reso consapevoli del fatto che l’incontro
con questi individui è sempre più parte
della nostra esperienza quotidiana. La presenza di immigrati
non costituisce una caratteristica esclusiva delle città
medio-grandi; al contrario, negli ultimi anni, soprattutto
nell’Italia settentrionale, è cresciuto
sensibilmente il numero degli stranieri in aree prive
di poli urbani di rilevanti dimensioni: basti pensare
alle province di Treviso, Vicenza, Brescia, realtà
minori che hanno raggiunto quantitativi di stranieri
residenti particolarmente rilevanti anche in termini
assoluti. E se in passato le grandi aree industriali
rappresentavano i principali poli di assorbimento dell’immigrazione,
attualmente è in corso un processo di ridefinizione
delle attività produttive e di parallela modificazione
delle modalità insediative degli immigrati. La
presenza straniera si allarga, in questo modo, alle
diverse fasce urbane del Paese, pur restando i fattori
di attrazione differenziati da un punto di vista geografico.
Ammesso che si può parlare di quartiere-ghetto
solo in presenza di determinate condizioni (la costrizione,
la costituzione di una micro-società con una
struttura di diseguaglianza al suo interno, l’omogeneità
rispetto ad almeno un criterio di differenziazione sociale),
possiamo affermare che tali non sono generalmente i
quartieri in cui si sono andati concentrando gli immigrati.
Anche nelle aree periferiche, infatti, e in quelle più
socialmente degradate, le famiglie immigrate rappresentano
comunque la minoranza e persiste una forte eterogeneità
per quanto riguarda la loro provenienza etnica. Le situazioni
variano a seconda dei contesti regionali, dei modi in
cui è avvenuto l’insediamento, dei progetti
e dei modelli migratori. Nell’insieme, però,
possiamo dire che in Italia l’insediamento urbano
degli immigrati evidenzia modelli scarsamente concentrativi
e che nessuna delle conseguenze negative che vengono
attribuite alla concentrazione appare necessaria, automatica.
Ovviamente ciò non vuol dire che l’insediamento
risulti territorialmente indifferenziato o che non vi
siano aree con una più forte presenza di immigrati
o, ancora, aree etnicamente connotate, ma che, rispetto
ad altre grandi città europee, si tratta di fenomeni
ben più contenuti.
A questo punto, sarebbe riduttivo porre la questione
della coabitazione tra gruppi diversi entro i due casi
estremi del conflitto o dell’armonia: come non
esiste un’omogeneità di stili di vita o
di classe fra gli autoctoni, così non esiste
uno stesso modello di integrazione che valga per tutte
le comunità immigrate; molto dipende dal grado
di accettazione dei valori della società di accoglienza,
dalla diversa “anzianità” di residenza,
dalla capacità di mobilitare risorse all’interno
della comunità e di negoziare con le istituzioni
i propri spazi di rappresentanza.
La fluidità e la complessità delle realtà
etniche, il loro carattere situazionale – perché
dipendente dai livelli, dai contesti e dai punti di
vista adottati – renderebbe, secondo alcuni, teoricamente
inconsistente l’idea di Stato multietnico, da
tempo in auge nelle scienze sociali. L’assunzione
di tale concetto avrebbe, infatti, alimentato la convinzione
che, se oggi i Paesi europei stanno diventando multietnici,
precedentemente essi fossero monoetnici. In realtà,
una lettura anche solo superficiale della storia europea
basterebbe a dimostrare il contrario. È vero
allora che i processi di omologazione culturale indotti
dalla modernizzazione tendono ad attenuare le differenze
regionali, ma i flussi migratori degli ultimi decenni
hanno portato all’interno degli Stati dell’Europa
occidentale nuovi, ulteriori elementi di differenziazione
laddove ne erano già presenti altri.
Le società multietniche, in altri termini, non
costituiscono una novità di questi anni; oggi,
però, questo genere di società è
diventato non solo più diffuso, ma anche sempre
più caratterizzato dalla presenza di un crescente
numero di etnie e dalla maggiore consapevolezza di vivere
in un contesto che si configura in questi termini.
Il territorio dell’“altro” è
spesso per l’immigrato il luogo di un’esperienza
contrassegnata da una duplice esclusione: innanzitutto
rispetto ai valori che definiscono il territorio in
quanto tale, e in secondo luogo rispetto alle opportunità
che esso offre. L’immigrato non riesce allora
a pensare il territorio come qualcosa di adeguato alle
sue esigenze, né tanto meno alle sue aspirazioni.
Anzi, il territorio assume le sembianze di un altrove
che lo proietta in una condizione di incertezza e di
estraneità segnata dalla consuetudine al disagio,
da occupazioni precarie, tensioni, paure. Solo con un
sistema di garanzie che gli permetta di riconoscere
il territorio altrui come fonte di nuove opportunità
l’immigrato potrà sentirsi in condizioni
meno precarie e superare la sua iniziale diffidenza,
cominciando a pensare al contatto con l’altrove
come ad un’occasione di apertura all’alterità.
Questo articolo è tratto dall’intervento
tenuto dall’autrice all’incontro “Roma
come Parigi: periferie a rischio?”, organizzato
dalla Società Geografica il 23 novembre 2005.
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