Per Jeremy Rifkin quella degli studenti della Facoltà
di Economia dell'Università di Roma Tre è
una platea ideale: il suo ultimo libro, Il sogno
europeo, è dedicato infatti proprio alla
“Erasmus Generation”, quei giovani europei
tra i venti e i trent'anni, di cultura universitaria,
che per primi hanno avuto l'occasione di vivere l'Europa
come un grande paese. Pronti a condividere con l'altro
la propria cultura, secondo Rifkin sono il vero motore
di quel sogno fatto di capacità e volontà
di integrazione e solidarietà sociale che dà
il titolo al libro. In occasione della lezione magistrale
sui temi dell'economia sociale tenuta per gli studenti
dei Master della Facoltà, Rifkin ha incontrato
anche la stampa. A volte ironico (“siamo in Italia,
non in Finlandia, mi aspetto che voi giornalisti parliate
molto”) a volte enfatico, come quando si tratta
di dare consigli alla Vecchia Europa – ma nel
suo caso l'enfasi è un peccato veniale –
a tratti con piglio quasi profetico, l'autore de L'economia
all'idrogeno e La fine del lavoro ha parlato di
Europa, di rivoluzione energetica e di nuove prospettive
del lavoro: quello che segue è un estratto dell'incontro
con i giornalisti.
Anche in Italia la pressione del caro-petrolio
sta cambiando i parametri di giudizio sugli inviti a
rivolgersi a fonti di energia alternative e rinnovabili.
Pensando ai suoi ricorrenti richiami all'idrogeno, pensa
che quello che sta succedendo possa cambiare complessivamente
gli scenari?
Il surriscaldamento globale, la politica nel Medio Oriente,
la drammatica realtà dei paesi del Terzo Mondo:
sono tutti aspetti riconducibili alla questione petrolifera.
Quando nel 2002 ho scritto L'economia all'idrogeno
mi sono sentito chiamare allarmista: oggi l'Agenzia
Mondiale per l'Energia conferma che, a causa della vicinanza
del raggiungimento del picco – “picco”
è il termine che usano i geologi per indicare
il raggiungimento dello sfruttamento della metà
delle riserve – nei prossimi venticinque anni
il prezzo del petrolio non farà che salire. Anche
gli economisti, tutti concordano e sono coscienti del
fatto che l'intera economia globale sta per subire un
forte rallentamento. Qual è la risposta alla
crisi dell'era del petrolio? La risposta è che
abbiamo bisogno di nuovi regimi energetici. Abbiamo
bisogno di una strategia di uscita dall'economia basata
sul petrolio, con una prima fase di risparmio energetico,
tale da permettere di contenere l'aumento dei prezzi,
accompagnata da una seconda fase di sviluppo per la
produzione e lo storaggio di energie alternative in
tutti i paesi del mondo.
Cosa risponde a chi obietta che percorrere
questa strada significa ricorrere al nucleare, l'unica
tecnologia che possa consentirne una produzione di idrogeno
in grandi quantità?
Quando si parla di idrogeno molti, anche in Europa,
dicono: se ci trovassimo a fronteggiare una grossa crisi
energetica, perché non fare ricorso al nucleare
e al carbone? Lasciatemi dire che passare al nucleare
e al carbone significherebbe un disastro per le generazioni
dei nostri figli. Significherebbe tornare indietro,
non guardare avanti. Faccio degli esempi. Con l'utilizzo
del carbone come alternativa al petrolio non vedremmo
altro che un'impennata delle emissioni di CO2 nell'atmosfera
e sappiamo che le emissioni di CO2 sono tra le principali
cause del surriscaldamento globale. Alcuni dicono: dateci
tempo e soldi e prima o poi troveremo un modo per seppellire
tutte le emissioni pericolose giù nelle viscere
della terra. Mi viene da ridere: ricordo perfettamente
le promesse del nucleare di quando ero ragazzino. Dateci
tempo, dateci soldi. Troveremo il modo di trasportare
tutte le scorie e sotterrarle. Ho più di sessant'anni
e nessuno ha ancora trovato il modo di trasportare le
scorie in sicurezza e non si ha la più pallida
idea di come sotterrarle senza danni irreparabili per
l'ambiente. Anche l'energia nucleare è un errore
e non solo per questioni ecologiche: prima di tutto
non possiamo permettercelo, costerebbe tre mila miliardi
di dollari soltanto rinuclearizzare gli Usa. C'è
poi la questione della sicurezza: gli attacchi dell'11
settembre sono stati rivolti a luoghi simbolici come
il Wtc e il Pentagono, quando vorranno fare sul serio
i terroristi si rivolgeranno alle infrastrutture.
Abbiamo bisogno di rivolgerci a energie rinnovabili:
l'energia eolica, solare, geotermica, le biomasse. Abbiamo
bisogno di un futuro fatto di energie all'idrogeno verdi.
Nel suo ultimo libro, Il sogno europeo,
lei elogia il modello sociale europeo a confronto con
quello americano. Solidarietà, integrazione,
rispetto dei diritti sono i suoi punti di forza. Quello
che è successo nelle scorse settimane in Francia,
a Parigi, sta infrangendo questo sogno?
Il sogno europeo è il primo sogno di un mondo
globale: sarà debole, sarà illusorio,
ma è la prima volta nella storia dell'umanità
che c'è qualcosa del genere. Il sogno di un mondo
globale è il sogno della generazione alla quale
appartengono in giovani universitari di oggi, quella
che io chiamo la “Generazione Erasmus”.
Questa generazione crede seriamente in un mondo multiculturale
basato sul rispetto reciproco e sul pluralismo. La cultura
è un dono da condividere: per centinaia di anni
è stata una posizione da difendere. Credono nell'inclusività,
nel fatto che nessuno debba essere lasciato a se stesso
in mano al mercato, che debba esistere una rete sociale
di protezione, credono nella solidarietà ed essa
è parte integrante del modello sociale europeo.
In Europa credete che i diritti della persona, i diritti
sociali siano altrettanto importanti dei diritti economici,
la proprietà e i diritti civili: i giovani europei
credono che si debba lavorare per vivere e non vivere
per lavorare, credono nell'equilibrio e la visione europea
è quella di uno sviluppo sostenibile. Naturalmente
non sono un ingenuo, anche in Europa ci sono problemi
da fronteggiare: tutto quello che voglio dire è
che questa nuova generazione ci permette per la prima
volta di poter sperare davvero in un mondo diverso.
Quello che sta accadendo in Francia è molto grave,
ancora più grave del no alla costituzione europea.
È un dejavu di quello che è successo
in america negli anni 60. È di questo che dovete
preoccuparvi. Martin Luther King disse: “ho un
sogno, che un giorno giovani bianchi e neri vivano insieme”.
In quegli anni cominciammo a sperimentare programmi
per permettere che i giovani afroamericani potessero
vivere anche loro il sogno americano. Discriminazione
positiva nel lavoro, nella scuola. Abbiamo fatto molto,
ma non abbiamo fatto abbastanza e soprattutto non lo
abbiamo fatto abbastanza in fretta. Con la morte di
Martin Luther King e l'inasprirsi dei conflitti e delle
rivolte spontanee dei giovani afroamericani ci fermammo,
mollammo i nostri progetti di riforma sociale. Il mio
messaggio per la Francia è di imparare dall'esperienza
americana e dai suoi errori: l'inizio della fine del
sogno americano è stato proprio l'incapacità
di integrare la popolazione afroamericana nel suo sogno.
La buona notizia è che questi giovani mussulmani
vogliono ancora essere francesi. Cosa dicono? Dicono:
“ io ho la cittadinanza francese ma non sono trattato
come gli altri francesi”. Vogliono ancora essere
parte del sogno europeo. Bisognerà preoccuparsi
davvero il giorno in cui non esprimeranno più
questa volontà.
Lei è autore di un libro dal titolo
La fine del lavoro: all'interno di un sistema
economico globalizzato, quali saranno le figure professionali
emergenti nel futuro? Quali, dunque, le prospettive
dal punto di vista lavorativo per le giovani generazioni?
L'ultima grande rivoluzione nel mondo del lavoro c'è
stata 200 anni fa: la fine della schiavitù. Le
nuove tecnologie intelligenti del XXI secolo porteranno
alla fine dell'era del lavoro di massa. Le tecnologie
possono essere molto più efficienti ed economiche
dei lavoratori. Anche in Cina, il più economico
dei lavoratori non è altrettanto economico della
macchina destinata a sostituirlo. Quando mi si chiede
del futuro del lavoro, quello che vedo è la fine
del lavoro salariato di massa e la nascita di piccole
unità di lavoro specializzato. Dobbiamo ripensare
quello che ne sarà degli esseri umani su questo
pianeta. Il prossimo è destinato ad essere il
secolo del terzo settore, delle ong, del no profit:
il terzo settore, infatti, è quello più
immune all'avanzata della robotizzazione. Per tre generazioni
siamo stati bravissimi a giocare con le politiche fiscali
per stimolare l'economia e il mercato del lavoro. Ora,
le compagnie sono globali, non hanno bisogno di aiuti.
Quello che dobbiamo fare è sederci intorno a
un tavolo e cominciare a pensare a una politica fiscale
che favorisca la crescita del capitale sociale, che
stimoli il settore del no profit e che permetta di creare
nuove possibilità di lavoro nel terzo settore.
Dobbiamo spingerci verso una terza rivoluzione industriale
e creare nuovi servizi e con essi nuovi lavori. Educhiamo
i giovani e investiamo non solo in professionalità
che riguardano il mercato ma anche la società
civile, stabiliamo politiche fiscali che stimolino la
crescita del capitale sociale e tutti quei lavori ad
esso connessi.
Come cambieranno le relazioni sociali tra i
diversi attori del panorama economico e lavorativo?
C'è un grande dibattito, non solo in Europa:
quale sarà il modello migliore per assicurarsi
prosperità e sviluppo? Vogliamo il modello sociale
europeo o il modello americano, basato sul mercato e
i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti? Un dibattito
condotto su queste prospettive non farà altro
che polarizzare le comunità: “socialisti”
contro “capitalisti”. Dobbiamo guardare
seriamente a entrambi modelli e chiederci: quali sono
i loro punti di forza? Quali le loro debolezze? E usare
la forza di uno contro le debolezze dell'altro. La forza
del modello europeo è la solidarietà:
nessuno è abbandonato a se stesso. La debolezza
è in una sorta di paternalismo che lo affligge:
molti pensano “c'è lo stato che mi protegge,
il mio datore di lavoro mi i partiti che mi proteggono,
la società che mi protegge”. In questo
modo si rischia di perdere il senso dell'iniziativa
individuale e la capacità di assumersi dei rischi.
Il modello americano è una macchina costruita
sull'individuo e sugli interessi individuali: si basa
sull'iniziativa individuale e sulla capacità
di assumersi rischi. E i difetti? Il difetto più
grande è l'incapacità di ridistribuire
la ricchezza. Il mio consiglio per l'Europa è
questo: creare modi per stimolare la creatività
e l'iniziativa individuale, insegnare ai giovani ad
assumersi i rischi ma senza che venga meno la rete di
solidarietà sociale che vi è propria.
Cercate di creare una società che abbia un solo
corpo ma due teste, sforzandovi di coniugare gli aspetti
positivi di entrambi i modelli e usarli insieme.
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