Le banlieues,
con le loro rivolte e le macchine in fiamme, ci apparirebbero
diverse se le guardassimo con gli occhi della critica
postcoloniale, e cioè se capissimo che “la
questione coloniale è una questione ancora irrisolta
e terribilmente presente all’interno delle società
multirazziali occidentali contemporanee, e anche se
è in buona parte rimossa dai dibattiti quotidiani,
ogni tanto torna a farsi sentire con forza”. Come
ad esempio nelle rivolte delle banlieues.
Miguel Mellino, autore del libro La critica postcoloniale
(Meltemi 2005), ci racconta di cosa parliamo quando
diciamo studi postcoloniali, ci fa un ritratto di un
ambito di ricerca che non si ferma a una sola disciplina,
ma che attraversa sociologia e critica letteraria, antropologia
e storia, e anzi fa della natura multidisciplinare un
elemento fondante, caratteristico, sin dalle sue radici
che affondano nel pensiero postmoderno, nei cultural
studies, nei movimenti di decolonizzazione e nei
subaltern studies indiani, fino a farsi chiave
di lettura della modernità.
Cos’è la critica postcoloniale?
Nel senso in cui oggi lo intendiamo, i primi usi del
termine postcoloniale appartengono alla critica letteraria,
da qui vengono i padri fondatori del postcolonialismo
come Edward Said, Homi K. Bhabha e Gayatri Chakravorty
Spivak, e sempre alla critica letteraria appartiene
un testo che può essere considerato tra i primi
esempi di critica postcoloniale, The Empire writes
back di Bill Ashcroft, Helen Tiffin e Gareth
Griffiths. Più eclettico invece il background
di un altro dei testi fondativi di questo campo di studi
come White Mythologies. Writing History and the
West di Robert Young. Da qui poi la critica postcoloniale
si è estesa a un ambito multidisciplinare che
riguarda la sociologia e l’antropologia, l’etnologia
e la storia, e tutta una serie di discipline o di approcci
alla realtà che contenevano già in sé
una critica radicale dell’eurocentrismo o del
soggetto eurocentrico.
In altre parole, i postcolonial studies hanno
riesumato – disseppellito potremmo dire con Benjamin
– il colonialismo in quanto fenomeno chiave del
presente, mettendo in evidenza, da una parte, che il
dispiegamento della modernità di cui tutti noi
siamo figli non può essere compreso senza riflettere
e analizzare il colonialismo e, dall’altra, che
lo sviluppo delle scienze sociali, delle discipline
letterarie e umanistiche, ma anche della cultura in
generale non può essere compreso senza una considerazione
delle dinamiche coloniali, del rapporto con l’altro
e del dominio dell’altro non-occidentale, oggi
come ieri. E’ questa, ad esempio, una delle principali
chiavi di lettura di Cultura e imperialismo
di Said: non si può pensare la cultura moderna
(e contemporanea) senza l’imperialismo e, viceversa,
non si può pensare l’imperialismo senza
la cultura moderna. Cultura e imperialismo, dunque,
sono due fenomeni ampiamente intrecciati. In definitiva,
si può dire che il postcolonialismo abbia reintrodotto
un approccio alla storia in quanto storia globale e
non solo dell’Europa o delle classi dominanti:
un decentramento che in parte aveva già compiuto
il marxismo, anche se molto spesso questo debito, all’interno
degli studi postcoloniali, non viene quasi mai riconosciuto.
Si tratta quindi di spostare lo sguardo: non
fermare gli occhi solo sui protagonisti europei (o occidentali)
della storia, ma guardare anche ai dominati, assumendo
così il punto di vista della molteplicità.
Uno degli obiettivi degli studi postcoloniali è
precisamente quello di riproporre la molteplicità
al posto dell’unicità; e dove quest’ultima
viene intesa (come nel pensiero borghese moderno) come
dispiegamento della ragione o della filosofia della
storia occidentale, la proposta della molteplicità
assume una valenza politica. In un certo senso, la sensibilità
per l’altro, il tentativo di ridare voce ai subalterni,
ai perdenti della storia – per dirla ancora con
Benjamin – costituisce uno dei punti centrali
di quello che possiamo chiamare la politica dei postcolonial
studies. Bisogna dire però che la realizzazione
di questo programma è più complicata di
quanto appaia a prima vista e che negli studi postcoloniali
esistono diverse interpretazioni su come possa avvenire
questo recupero dell’altro, su come si “debba
passare a contropelo la storia”. Gayatri Spivak,
ad esempio, afferma che nei documenti, nei testi o negli
archivi storici è impossibile trovare le “tracce”
del subalterno, che proprio in quanto “altro”
e “subalterno” è rimasto un (s)oggetto
silenzioso. E la ragione di questo silenzio non sta
nel fatto che il subalterno non abbia parlato nella
storia, ma dipende dalla natura stessa dell’apparato
ideologico-discorsivo dominante o egemonico, le cui
categorie politiche e i cui criteri di rappresentazione,
intrisi di potere, non fanno che distorcere e neutralizzare
la sua “vera” soggettività. In un
certo senso, questo schema ci può aiutare a capire
quanto è accaduto con i fatti delle banlieues
parigine in questi giorni, un caso in cui il subalterno
ha fatto sentire con forza la sua voce, che il più
delle volte era rimasta imprigionata o assoggettata
entro l’universo, la visione o l’ideologia
di buona parte dell’establishment politico-intellettuale
dominante, per non parlare poi delle deformazioni diffuse
e amplificate dalla “coltre mediatica”.
Quale contributo ci danno gli studi postcoloniali
per capire le rivolte delle banlieues?
Se quando diciamo postcoloniale intendiamo non il fatto
che il colonialismo sia finito, ma esattamente il contrario,
cioè uno spazio di lotta sociale, culturale,
politica ed economica caratterizzato dalla persistenza
della condizione coloniale nel rapporto tra l’Occidente
e i suoi altri, tra le zone centrali e quelle periferiche
del mondo, allora credo che le rivolte parigine possano
essere definite anche come “rivolte postcoloniali”,
come episodi che ci fanno capire che il colonialismo
riaffiora, ritorna come condizione rimossa e come un
sintomo che va affrontato. Per certi versi, e la situazione
della Francia lo dimostra chiaramente, si è ancora
alle prese con il processo di decolonizzazione, ma questa
volta la lotta si svolge anche all’interno delle
ex potenze colonialiste o imperialiste.
Il passato coloniale ha un ruolo molto importante nel
presente delle banlieues, non si tratta di un fenomeno
astratto, ma ha a che fare con l’incorporazione
subalterna, e del tutto funzionale alla logica del mercato
capitalistico, alla Francia repubblicana di quello che
nelle colonie veniva chiamato “indigenato”.
Un approccio coloniale alle questioni dell’immigrazione,
della cittadinanza e dell’identità nazionale,
sommato negli ultimi anni allo smantellamento del welfare
e all’ascesa dello stato penale come unico modo
di far fronte all’emarginazione e all’esclusione,
ha prodotto forme di segregazione sociale, spaziale
ed economica sempre più insopportabili tra i
figli ed i nipoti dei “francesi di oltremare”,
anche se, ovviamente, non solo tra di loro. Non dimentichiamo
che alle rivolte sembra che abbiano partecipato anche
giovani francesi “bianchi”, esasperati da
un processo di precarizzazione e di flessibilizzazione
che va avanti da anni e che ha l’esclusione come
unico punto di arrivo.
Alle questioni coloniali, o postcoloniali,
si lega anche una certa concezione del razzismo e le
percezione di questo da parte di immigrati o minoranze
etniche.
Le rivolte nelle banlieues presentano molte analogie
con le rivolte di Watts a Los Angeles negli anni Sessanta,
con quella di Brixton a Londra nel 1981 e con quelle
successive al pestaggio di Rodney King da parte della
polizia statunitense nel 1992. E’ l’esito
inevitabile del razzismo istituzionale e non, delle
violenze e delle vessazioni quotidiane delle forze dell’ordine,
delle innumerevoli discriminazioni subite nella vita
di tutti i giorni. Migranti, figli di migranti, giovani
e giovanissimi nati e cresciuti in Francia ma con la
pelle “scura”, oltre ad alcune frange del
nuovo sottoproletariato urbano “autoctono”,
sono rimasti progressivamente ingabbiati nelle maglie
di un nuova forma di apartheid, in un apartheid appunto
postcoloniale, razziale, sociale ed economico insieme.
Anche nella Francia della cittadinanza repubblicana….
Prima delle rivolte delle banlieues si tendeva spesso,
anche nei settori progressisti della teoria sociale
e politica, a mitizzare il modello francese di cittadinanza,
ma poco o niente si diceva sul fatto che in Francia
gli ideali repubblicani e laici sono molto legati all’identità
nazionale. La questione del velo ne è un esempio
molto chiaro: vietarlo nelle scuole pubbliche è
sembrato un gesto imperialista, teso ad affermare non
tanto l’uguaglianza fra uomo e donna, quanto la
superiorità dell’identità nazionale
francese, laica e repubblicana, nei confronti dell’Islam.
Se poi guardiamo al passato vediamo che, arrivati nei
paesi islamici in epoca coloniale, una delle prime cose
fatte dai francesi è stata quella di vietare
il velo ovunque. Come ben racconta Fanon, il divieto
imposto dai francesi in Algeria durante la lotta anticolonialista,
fece del velo un veicolo di lotta culturale e un importante
strumento di riaffermazione della propria identità
nei confronti degli occupanti coloniali. Quindi, se
noi inquadriamo le rivolte delle banlieues all’interno
di una dialettica storica, possiamo avere indicazioni
interessanti e vediamo riaffiorare la storia del colonialismo
e dell’imperialismo come qualcosa di intrinseco
alla modernità e all’identità occidentale.
Naturalmente, però, i fatti delle banlieues
ci parlano anche di altre cose. In primo luogo, hanno
mostrato chiaramente in che modo la destra cerchi di
inquadrare alcuni conflitti sociali particolari all’interno
del cosiddetto scontro delle civiltà, ovvero
di “etnicizzarli”, per portare avanti il
proprio programma politico, fondato in buona parte sull’esasperazione
dell’ansia sicuritaria, sulla condanna delle società
multirazziali, sulla riduzione dei migranti a mera forza
lavoro coatta e su un pregiudizio anti-islamico piuttosto
aggressivo. In secondo luogo, ci dicono qualcosa anche
sull’Europa nascente, l’Europa di Schengen
e dei CPT, che, improntata alla logica di un diritto
postcoloniale non farà che moltiplicare le banlieue
del continente.
Qual è la radice culturale da cui nasce
la critica postcoloniale?
Non possiamo rintracciare una radice unica negli studi
postcoloniali, però possiamo soffermarci su alcuni
aspetti fondamentali che ne hanno fornito le basi. Lo
sviluppo del pensiero postmoderno nella teoria sociale
è certamente una di queste radici; un’altra
riguarda il processo di decolonizzazione finito con
le indipendenze formali negli anni Sessanta: da questo
punto di vista un’importante risorsa della teoria
postcoloniale è sicuramente costituita dalla
critica all’imperialismo e all’eurocentrismo
portata avanti dai movimenti di liberazione nazionale
nonché dall’anticolonialismo allora definito
come “terzomondista”. Non meno importante
come risorsa è senza dubbio l’eredità
del radicalismo nero afroamericano e caraibico e del
movimento per i diritti civili. Un’altra radice
ancora è da ricercare nel dibattito, soprattutto
britannico, intorno agli studi culturali, nell’ambito
dei quali si è sviluppato un approccio particolare
alle questioni dell’etnicità e del razzismo.
Penso qui soprattutto al lavoro del Centre For Contemporary
Cultural Studies di Birmingham, in modo particolare
agli studi di Stuart Hall e di Paul Gilroy. Un altro
importante snodo nella configurazione degli studi postcoloniali
possiamo trovarlo nella scuola dei Subaltern Studies
indiani, i cui esponenti più noti sono Ranajit
Guha, Dipesh Chakrabarty e la stessa Gayatri Spivak,
che fece parte in passato di questa scuola. Ma non c’è
genealogia degli studi postcoloniali che non prenda
Orientalismo di Edward Said come uno dei principali
punti di riferimento dell’intero campo di studi,
nonostante Said non gradisse affatto il decostruzionismo
dominante all’interno di buona parte degli studi
postcoloniali.
Pensiero postmoderno e cultural studies,
dinamiche di decolonizzazione e subaltern studies.
Il panorama che si prospetta è molto vario sia
dal punto di vista storico che da quello geografico.
In effetti, le radici degli studi postcoloniali, come
abbiamo detto, sono diverse, ibride e transnazionali.
E bisogna anche dire che è difficile definire
gli studi postcoloniali sulla traccia di un unico approccio:
rappresentano un insieme di posizioni comunque eterogenee
o variegate. Anche all’interno del pensiero postmoderno
possiamo individuare approcci e posizioni diverse; possiamo
fare, ad esempio, una divisione tra un postmodernismo
che potremmo chiamare banale e che tende a essere abbastanza
conciliante con la logica del mercato, poco radicale
nella critica del capitalismo, e che pone un antagonismo
puramente estetico. Dall’altra parte esiste invece
un pensiero postmoderno che ha un suo radicalismo politico
e teorico e che in buona parte è confluito negli
studi postcoloniali. Mi riferisco qui all’opera
di autori come Barthes, Foucault, Lyotard, Derrida e
Deleuze, vale a dire a prospettive epistemologiche che
contenevano in sé una forte critica del soggetto
e della logica di dominio euro-occidentali. Questo radicalismo
insito nel poststrutturalismo ha favorito moltissimo
lo sviluppo degli studi postcoloniali. Ma non sempre
si è tradotto in posizioni altrettanto radicali
o politicizzate. In ogni caso, bisogna constatare che
negli ultimi anni si è assistito ad una politicizzazione
crescente all’interno degli studi postcoloniali.
Ciò che è successo nel mondo negli ultimi
6 o 7 anni, le guerra in Yugoslavia, l’occupazione
o la ricolonizzazione dell’Iraq e dell’Afghanistan,
le rivolte di Seattle e di Genova e la costituzione
di un movimento mondiale di resistenza alla globalizzazione
neoliberista ha dato una scossa non indifferente ad
un campo di studi dove la spoliticizzazione letteraria
e gli accademicismi più perversi non avevano
certo un ruolo minoritario. In questo senso, il futuro
degli studi postcoloniali non potrà che dipendere
dalle posizioni che vi emergeranno in rapporto ai conflitti
del mondo di oggi.
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