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Il Secolo XIX
L’arresto in Austria dello storico inglese David
Irving ha riaperto la questione del confronto della
Shoah. David Irving è stato fermato l’11
novembre in Stiria dalla polizia stradale in virtù
di un mandato d’arresto lanciato contro di lui
nel novembre 1989. Stava andando a una riunione di una
confraternita di studenti, associazione di estrema destra
e pangermanista. Attualmente è detenuto a Graz.
Già condannato in Gran Bretagna e in Germania,
rischia 20 anni di carcere. In Austria vige una legge
per cui negare l’Olocausto significa fare apologia
di sterminio. Probabilmente molti diranno che è
un provvedimento esagerato, che occorre rispettare le
opinioni di tutti; che le tesi di Irving sono deprecabili,
ma che va difeso il suo diritto di parola. Forse. Ma
prima vorrei soffermarmi sul profilo di ciò che
Irving sostiene.
Nato a Londra nel 1938 dalla fine degli anni ’70
Irving definisce un falso storico quello che denominiamo
Shoah, sterminio, in breve lo sterminio degli ebrei
durante la Seconda guerra mondiale. Nel suo linguaggio,
più precisamente, Auschwitz non sarebbe che una
realtà di carta del tutto inventata, un non-luogo
dove sarebbe avvenuto un non fatto storico (lo sterminio,
appunto). La guerra di Hitler (tradotto in
Italia nel 2001 dalle edizioni Settimo Sigillo, nel
2001) è il testo in cui Irving ha esposto in
forma sistematizzata le sue tesi.
Irving raggiunge la notorietà nel 1963 con il
suo primo volume Apocalisse a Dresda (trad.
it. Mondadori 1992), in cui denuncia i sistematici bombardamenti
alleati del febbraio ’45 contro migliaia di civili
inermi, e con cui ottiene notevoli riconoscimenti da
parte di numerosi storici di livello internazionale.
Due le tematiche di fondo della sua visione storica.
La prima sottopone le dimensioni soprattutto numeriche
della Shoah ad un drastico ridimensionamento, allo scopo
di renderle sostanzialmente commensurabili ad altre
stragi.
La seconda sposta le responsabilità dello scoppio
della Seconda Guerra mondiale dalla Germania nazista
alla Gran Bretagna, facendole gravare in particolar
modo sulle spalle di Churchill, e sulle sue velleità
di conservare la leadership mondiale della Gran Bretagna.
Tuttavia, il punto centrale su cui si poggia la sua
critica alla storiografia sul nazismo, e che a suo parere
scrive una parola definitiva sulla vera natura dell’Olocausto,
è il fatto che non esiste nessuno scritto che
documenti inequivocabilmente un ordine esplicito di
Hitler riguardo alla cosiddetta “soluzione finale”,
e che dunque dimostri l’esistenza di una volontà
e di un programma di sterminio sistematico degli ebrei.
Sostenendo che lo sterminio degli ebrei nei territori
occupati fu una soluzione creata ad hoc nel momento
che tutte le altre possibilità erano sfumate
(mentre l’ipotesi di Hitler sarebbe stata quella
della deportazione di massa sull’isola del Madagascar,
soluzione che avrebbe una volta per tutte impedito agli
ebrei di ‘infastidire’ popoli vicini), Irving
così finisce per ipotizzare la possibilità
di una politica di sterminio decisa da “un gruppo
di fanatici nei territori orientali che avevano interpretato
con rozza brutalità la frase di Hitler ‘gli
ebrei devono scomparire dall’Europa’”.
Come sia stato possibile che il Führer non sapesse
o accettasse ciò che stava accadendo agli ebrei
in tutta l’Europa dell’Est è spiegato
dallo storico inglese laddove definisce Hitler “probabilmente
il più debole capo che la Germania abbia conosciuto
nel ventesimo secolo”, e la Germania stessa “una
dittatura senza dittatore”.
Più volte in questi ultimi dieci anni Irving
ha provato ad affermare la sua ricostruzione. In forma
più eclatante l’ultimo tentativo risale
al marzo 2000, quando lo storico inglese chiamò
in tribunale Deborah Lipstadt e la Penguin Books con
l’accusa di diffamazione. L’occasione era
la pubblicazione del libro della Lipstadt (Denying
the Holocaust, Penguin Boks 1993) e in cui Irving
era qualificato come razzista e “Negatore dell’Olocausto”
che era dedicato al tema del negazionsimo della Shoah
in base alle sue stesse dichiarazioni secondo le quali
Auschwitz non è che “una Disneyland per
turisti” e non ha mai avuto camere a gas in funzione.
In quell’occasione per otto settimane le tesi
di Irving, ritenuto uno dei massimi esperti di Adolf
Hitler, sono state al centro di furiose udienze che
hanno ruotato attorno ad un'unica, esplosiva questione:
i nazisti tentarono davvero lo sterminio di tutti gli
ebrei? Che ruolo ebbe il Führer? Ad Auschwitz erano
o no in funzione camere a gas per la sistematica eliminazione
dei reclusi?
Irving in quell’occasione difese il suo approccio
“revisionista” e attaccò il libro
della Lipstadt. Nel processo all'Alta Corte durato dall'11
gennaio alla prima metà di marzo Irving –
che non ha ingaggiato un avvocato e si è difeso
da solo – ha accusato la collega e la Penguin
Books di diffamazione chiedendo un risarcimento. Quell'epiteto
di “rinnegatore” – si è lamentato
lo storico, che una volta ha provocatoriamente proposto
la fondazione di un'associazione di “superstiti
di Auschwitz, superstiti dell'Olocausto e altri bugiardi”
– gli sarebbe costato l'emarginazione dalla comunità
internazionale degli storici e la mancata diffusione
delle sue opere in tutto il mondo.
Negli stessi giorni del 2000 la questione Irving tornò
– in concomitanza del processo londinese –
a far discutere gli storici in Italia. Hobsbawm, per
esempio, in occasione della sua lectio magistralis
all’Università degli Studi di Torino (era
la fine di marzo 2000), sostenne che dare spazio a Irving
costituiva uno stimolo alla discussione. Dello stesso
parere lo storico Franco Cardini.
Ma il problema non è dare la patente di storico
a Irving. La scrittura della storia è un mestiere
che si può fare bene o meno, in forma efficace,
convincente, o demagogica.
Il problema è il “fascino” della
controstoria come rovesciamento ipotetico dei fatti.
La scrittura di Irving è il sintomo di una dimensione
culturale dell’Europa che non riesce a fare i
conti con la sua stessa storia, come se la storia fosse
spiegabile se si ammettono ipotesi audaci.
La contemporaneità, epoca dell’alfabetizzazione
di massa, del feticismo della carta stampata produce
eventi anche in assenza di documenti scritti. La paura,
che non è un documento ma un sentimento, è
per esempio un motore operativo potente della storia.
Nell’Europa degli anni ’30 la paura è
la dimensione che lo storico revisionista tedesco Ernst
Nolte usa molto per spiegare lo sterminio nell’est-Europa
e l’antisemitismo dei tedeschi come effetto della
posizione politica degli ebrei nel movimento comunista
internazionale. Sulla base della capacità mobilitante
della paura, Nolte costruisce il complesso del suo ragionamento
revisionista e alla fine giustificazionista della Shoah.
Un sentimento che non è un documento, è
una fonte che nessun storico seriamente attrezzato si
sentirebbe di negare, ma che sicuramente leggerebbe
in maniera molto diversa, sommandola ad altri documenti
e fonti con cui incrociarla e verificarla.
Non sono i documenti scritti che fanno la storia, sono
gli uomini con le loro ossessioni, con le loro emozioni
e con le loro convinzioni. Dietro l’accusa di
interdetto da parte di Irving torna invece, senza spiegarsi,
la retorica della potenza occulta, argomentazione propria
del complottismo, una retorica che ha molto a che fare
con l’agire persecuzionista di chi prima racconta
di essere minacciato e poi giustifica lo sterminio come
replica a uno scampato pericolo. Alla fine nella rivolta
di Irving rimane dunque lo stesso meccanismo che un
secolo fa mise in corso la locomotiva delle intolleranze.
Quella locomotiva e quei treni hanno percorso in molte
direzioni l’Europa continentale, verso i campi
della morte nel cuore dell’Europa e verso i territori
artici della Russia stalinista. E questa convinzione
a suo modo costituisce un documento. Che non lascia
intravedere niente di buono.
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