Tratto
da
www.lavoce.info
Ora che non si bruciano più macchine a Aubervilliers
e si sono spenti i riflettori sulla ribellione nelle
banlieues, rischiamo di dimenticare in fretta la lezione.
Male perché può succedere anche in Italia.
Da noi la disoccupazione è oggi meno concentrata
tra gli immigrati, ma è socialmente più
costosa perché non abbiamo reti di protezione
sociale e il nostro modello sociale famigliare non copre
i nuovi arrivati. Non abbiamo definito un percorso di
integrazione a pieno titolo nella vita pubblica degli
immigrati, che li porti all’acquisizione della
cittadinanza. Questo offre spazio all’odio etnico.
Minore la partecipazione degli immigrati alla vita pubblica,
più deboli gli incentivi a informarsi anziché
credere a chi cerca in tutti i modi di alimentare l'odio
etnico.
Abbiamo, tuttavia, un vantaggio importante rispetto
alla Francia: un sindacato che non è mai stato
ostile agli immigrati e che conta tra le sue fila ben
350mila immigrati, quasi un lavoratore immigrato dipendente
su due, con un tasso di sindacalizzazione molto più
alto che fra i lavoratori italiani.
Il sindacato italiano può oggi giocare un ruolo
sociale fondamentale nel dare una voce agli immigrati:
per far sentire le loro ragioni, non avranno così
bisogno di incendiare le nostre periferie. Può
al contempo ringiovanirsi (è oggi il sindacato
più vecchio d'Europa) sfuggendo al rischio di
estinzione. Ma non basta proporre corsi di formazione
per gli immigrati. Bisogna riconciliare le loro esigenze
con quelle della base tradizionale del sindacato su
tre temi fondamentali: i) le politiche dell’immigrazione,
ii) la protezione di chi ha carriere discontinue e iii)
la liberalizzazione dei servizi.
La gestione dei flussi
I ribelli delle banlieues sono i figli (e i figli dei
figli) delle grandi ondate migratorie del Dopoguerra
francese. Fino alla metà degli anni Settanta,
la parola d’ordine Oltralpe era fare arrivare
più braccia possibile. Ne arrivarono davvero
tante, facendo crescere la popolazione immigrata di
due milioni nel giro di un ventennio. Per almeno un
paio di generazioni gli immigrati tradizionalmente fanno
più figli dei cittadini dei paesi che li accolgono.
Bene che ci siano più figli (la Francia ha, anche
per questo, il tasso di fertilità più
elevato d’Europa), ma il loro ingresso nella vita
attiva pone problemi di integrazione, soprattutto in
un mercato del lavoro con forti barriere all’ingresso.
Da noi le ondate migratorie sono state più recenti,
ma non meno intense. Negli ultimi vent’anni anche
la nostra "legione straniera" è cresciuta
di due milioni. Chi è arrivato ha sin qui, in
larga parte, trovato lavoro. Ma non sarà necessariamente
il caso dei figli e dei figli dei figli.
È proprio per questo che ci vogliono politiche
dell’immigrazione che impongano gradualità
ai flussi, soprattutto all’immigrazione di lavoro
poco qualificato, quella che può creare più
problemi alla base tradizionale del sindacato e che
è più difficile da integrare nel nostro
paese. Ci vogliono norme applicabili e una vera pianificazione
dei flussi, il contrario di quanto fatto in questa legislatura.
Il sindacato dovrebbe rivendicare un ruolo importante
in questo campo, chiedendo che si faciliti soprattutto
l’ingresso di manodopera qualificata e imponendo
che l’incremento degli ingressi richiesto dai
datori di lavoro si accompagni a controlli sui posti
di lavoro, volti a reprimere l’occupazione irregolare
degli immigrati. Serviranno a scoraggiare l’immigrazione
clandestina.
Protezione nel mercato
In Francia, il tasso di disoccupazione fra gli immigrati
è del 25 per cento, tre volte più alto
che fra i cittadini francesi ed è stato documentato
che la disoccupazione fra i giovani porta a un aumento
della criminalità. Da noi, italiani e immigrati
hanno pressoché lo stesso tasso di disoccupazione.
Non tanto perché il nostro mercato del lavoro
funzioni meglio, quanto perché l’immigrazione
è un fenomeno recente. La prima generazione di
immigrati si insedia dove c’è un impiego
e, in un mercato del lavoro come il nostro, per metà
senza lavoratori e per l’altra senza lavori, in
cui gli italiani hanno da tempo rinunciato a spostarsi
in massa per cercare un’occupazione, è
relativamente facile per chi viene da fuori andare nel
"posto giusto". Il 90 per cento dei nostri
immigrati risiede nel Centro-Nord. Ma i loro figli rischiano
di non trovarsi più, come i genitori, "al
posto giusto nel momento giusto". E, al contrario
dei giovani disoccupati meridionali che possono contare
sulla protezione informale delle loro famiglie estese,
saranno disoccupati al Nord, dove tutto, a partire dalla
casa, costa di più, e non avranno una rete informale
di sostegno. Se le riforme parziali hanno facilitato
l’ingresso nel mercato del lavoro (non sempre
per gli immigrati, che non possono essere assunti nell’ambito
di molte nuove figure contrattuali), è più
difficile accedere a contratti a tempo indeterminato.
Per chi ha frequenti cambiamenti di lavoro e opera in
piccole imprese – come accade a molti immigrati
– non ci sono ammortizzatori sociali.
Una battaglia dalla parte degli immigrati, e degli italiani
che lavorano nelle piccole imprese, è quella
volta a estendere il grado di copertura dei nostri sussidi
di disoccupazione e rendere i contratti a tempo determinato
una specie di periodo probatorio esteso, al termine
del quale accedere a un contratto di lavoro permanente,
la cui interruzione ha un costo (elevato, ma certo)
per le imprese. Vuol dire tutelare i diritti di tutti
nel mercato anziché contro il mercato. Vuol dire
anche non segregare le fasce più deboli, tra
cui gli immigrati, in una condizione cronica di precarietà
nel lavoro.
I lavoratori autonomi
Un sindacato che intenda aiutare gli immigrati senza
aumentare ulteriormente le pressioni competitive sul
lavoro dipendente, dovrebbe anche battersi per creare
più opportunità tra le fila del lavoro
autonomo.
La liberalizzazione delle professioni incentiva una
immigrazione più qualificata e, al contempo,
offre maggiori opportunità di mobilità
sociale agli immigrati qualificati che sono già
nel nostro paese. La riduzione delle barriere all’entrata
nel commercio al dettaglio o dall’aumento del
numero di licenze per i taxi possono creare anche opportunità
di lavoro per gli immigrati con qualifiche più
basse.
Secondo le stime dell’Ocse, c’è uno
spazio per aumentare la dimensione dei nostri mercati
dei servizi del 20-30 per cento. Le liberalizzazioni
dei servizi riducono anche i costi per le imprese che
li utilizzano, offrendoci un ulteriore dividendo occupazionale,
in termini di lavori nel settore di esportazione.
C’è un fronte vastissimo oggi in Italia
che si oppone alla liberalizzazione dei servizi. Ne
fanno parte i consulenti del lavoro, gli avvocati, i
notai e, più in generale, le libere professioni.
Ci sono poi i lavoratori autonomi dei settori sin qui
posti al riparo dalla concorrenza degli altri paesi
dell’Unione, che comprensibilmente guardano con
qualche apprensione all’arrivo dell’"idraulico
polacco". Non è un fronte di cui deve far
parte il sindacato. Se vuole permettere una più
rapida e socialmente meno costosa integrazione degli
immigrati nel nostro paese e, al contempo, proteggere
i lavoratori autonomi più poveri, bene che si
batta per liberalizzare i servizi e introdurre anche
da noi una rete di protezione sociale di ultima istanza.
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