Le dichiarazioni
del presidente iraniano Ahmadinejad che sostiene il
non diritto a esistere dello Stato di Israele hanno
provocato un coro di reazioni in tutto il mondo. Ma
cosa si nasconde dietro la ripresa di un vecchio slogan
khomeinista? Lo abbiamo chiesto a Bijan Zarmandili,
giornalista e scrittore che si occupa di Medioriente
e questioni iraniane per il gruppo Espresso-Repubblica,
per la rivista di geopolitica Limes e per Rainews24,
incontrato in occasione del Saturno Film Festival che
quest’anno dedica una giornata al tema del dialogo
tra le culture .
Cosa pensa delle recenti esternazioni del presidente
iraniano Ahmadinejad?
Senza dubbio sono parole sciagurate che procurano una
profonda inquietudine soprattutto al popolo iraniano.
Si tratta, comunque, di un vecchio slogan khomeinista
poi abbandonato e consegnato ai gruppi più oltranzisti
dell’integralismo islamico. Preoccupa il fatto
che sia tornato a pronunciarlo un capo di governo. L’Iran
non riconosce lo Stato di Israele, tuttavia, almeno
negli ultimi sedici anni – ovvero nel corso dei
due mandati del presidente Rafsanjani e dei successivi
due del presidente Khatami – nessun capo di governo
ha esplicitamente parlato della cancellazione di Israele.
La politica mediorientale iraniana restava ferma nella
decisione di non voler intrattenere rapporti diplomatici
con lo Stato israeliano nei cui confronti svolgeva un
ruolo non solo critico ma anche ostile; paventarne ora
la cancellazione dalla carta geografica evoca fatti,
idee e prospettive davvero preoccupanti.
Ma è anche il segnale di una rinnovata
attenzione per il Medioriente da parte del governo iraniano.
L’ala del regime iraniano genericamente definita
conservatrice ha sempre attribuito molta importanza
alle problematiche mediorientali proiettando la propria
visione geopolitica verso il Medioriente, a volte anche
in polemica con altre forze interne allo stesso regime.
Infatti, tradizionalmente – e, in particolar modo,
nell’ultima fase della politica iraniana –
alcuni accademici e uomini di governo hanno sempre criticato
questa posizione poiché l’Iran non è
un Paese arabo, non confina e non ha un contenzioso
territoriale con Israele mentre, al contrario, i suoi
interessi geopolitici e strategici ruotano verso Oriente
e verso l’Asia centrale. Ho l’impressione,
perciò, che il fatto che il presidente Ahmadinejad
ritorni su questo argomento segni non tanto il rinvigorirsi
di una visione geo-politica proiettata verso il Medioriente
quanto, in realtà, un mutamento nel regime.
In altre parole, stanno cambiando gli equilibri
interni. Secondo lei è corretto affermare che
la componente religiosa sta perdendo terreno a favore
di una radicalizzazione militare?
Nel corso degli ultimi 25 anni, il regime iraniano
si è fondato sull’egemonia del clero sciita,
se di qualche divisione si poteva parlare, essa era
sempre interna alla dialettica degli uomini religiosi
sciiti – divisi magari tra riformatori e conservatori,
tra sostenitori di una linea pragmatica e fautori di
una linea ideologica. Oggi, con Ahmadinejad, sta accadendo
qualcosa di nuovo: la generazione di militari e paramilitari
cresciuti durante la guerra tra l’Iran e l’Iraq
e che, all’epoca avevano vent’anni, è
arrivata a chiedere il conto. È una generazione
che sente di essere diventata ormai una casta all’interno
della società iraniana che è in grado
di pretendere un ruolo pari a quello del clero sciita.
Attualmente a tenere uniti militari e islamisti è
il forte legame con il khomeinismo. Non è detto
però che, in prospettiva, non nascano contraddizioni
e conflitti riguardo la gestione del potere.
Nei giorni scorsi, infatti, alcuni quotidiani
accennavano all’eventualità che le affermazioni
di Ahmadinejad su Israele fossero un espediente per
nascondere la crisi interna. Le sembra un’analisi
corretta? Qual è la situazione, oggi, in Iran?
È assolutamente vero. Dopo la sconfitta di Khatami
e del suo gruppo riformatore, il governo di Ahmadinejad
avrebbe dovuto omogeneizzare il regime, invece contraddizioni
e conflitti si sono spostati a destra dove diverse fazioni
si contrappongono soprattutto sulle questioni legate
alla gestione del potere e, quindi, ai luoghi, ai posti
e agli spazi strategici. Penso, ad esempio, alla politica
petrolifera: Ahmadinejad non è riuscito –
fino a qualche giorno fa – a imporre un proprio
ministro del petrolio e a farlo approvare dal parlamento
a maggioranza conservatrice. Penso anche alla questione
nucleare su cui il clero e i militari hanno posizioni
contrastanti. Queste due questioni aperte si riflettono
in numerosi problemi di politica interna ed estera:
dalla distribuzione della ricchezza alla disoccupazione,
dall’ordine pubblico ai rapporti con il resto
del mondo.
I rapporti tra Iran e Occidente, in effetti,
sembrano peggiorare di giorno in giorno. Da dove si
può ripartire per instaurare un dialogo con l’Iran?
Prospettare il dialogo in questo momento è difficile.
Bisognerà attendere che maturino alcune premesse
e che si riaprano le possibilità di un nuovo
tavolo negoziale. Ho l’impressione che l’attuale
leadership iraniana non sia in grado di aprire le negoziazioni
perché non sa se le sarà possibile avere
nuovi interlocutori, come Mosca e Pechino, oppure se
sarà costretta in una posizione di completo isolamento.
Finché non verranno sciolti questi nodi, il prossimo
futuro resterà un futuro difficile.
Nato a Teheran, Bijan Zarmandili vive a Roma dagli
anni ’60. Autore di una serie di biografie tra
cui quella dell’ayatollah Khomeini, ha recentemente
pubblicato il romanzo La Grande Casa di Monirrieh (Feltrinelli,
2004, pp. 161; 14 €)
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