289 - 25.11.05


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I pasdaran chiedono il conto

Bijan Zarmandili
con Martina Toti


Le dichiarazioni del presidente iraniano Ahmadinejad che sostiene il non diritto a esistere dello Stato di Israele hanno provocato un coro di reazioni in tutto il mondo. Ma cosa si nasconde dietro la ripresa di un vecchio slogan khomeinista? Lo abbiamo chiesto a Bijan Zarmandili, giornalista e scrittore che si occupa di Medioriente e questioni iraniane per il gruppo Espresso-Repubblica, per la rivista di geopolitica Limes e per Rainews24, incontrato in occasione del Saturno Film Festival che quest’anno dedica una giornata al tema del dialogo tra le culture .

Cosa pensa delle recenti esternazioni del presidente iraniano Ahmadinejad?

Senza dubbio sono parole sciagurate che procurano una profonda inquietudine soprattutto al popolo iraniano. Si tratta, comunque, di un vecchio slogan khomeinista poi abbandonato e consegnato ai gruppi più oltranzisti dell’integralismo islamico. Preoccupa il fatto che sia tornato a pronunciarlo un capo di governo. L’Iran non riconosce lo Stato di Israele, tuttavia, almeno negli ultimi sedici anni – ovvero nel corso dei due mandati del presidente Rafsanjani e dei successivi due del presidente Khatami – nessun capo di governo ha esplicitamente parlato della cancellazione di Israele. La politica mediorientale iraniana restava ferma nella decisione di non voler intrattenere rapporti diplomatici con lo Stato israeliano nei cui confronti svolgeva un ruolo non solo critico ma anche ostile; paventarne ora la cancellazione dalla carta geografica evoca fatti, idee e prospettive davvero preoccupanti.

Ma è anche il segnale di una rinnovata attenzione per il Medioriente da parte del governo iraniano.

L’ala del regime iraniano genericamente definita conservatrice ha sempre attribuito molta importanza alle problematiche mediorientali proiettando la propria visione geopolitica verso il Medioriente, a volte anche in polemica con altre forze interne allo stesso regime. Infatti, tradizionalmente – e, in particolar modo, nell’ultima fase della politica iraniana – alcuni accademici e uomini di governo hanno sempre criticato questa posizione poiché l’Iran non è un Paese arabo, non confina e non ha un contenzioso territoriale con Israele mentre, al contrario, i suoi interessi geopolitici e strategici ruotano verso Oriente e verso l’Asia centrale. Ho l’impressione, perciò, che il fatto che il presidente Ahmadinejad ritorni su questo argomento segni non tanto il rinvigorirsi di una visione geo-politica proiettata verso il Medioriente quanto, in realtà, un mutamento nel regime.

In altre parole, stanno cambiando gli equilibri interni. Secondo lei è corretto affermare che la componente religiosa sta perdendo terreno a favore di una radicalizzazione militare?

Nel corso degli ultimi 25 anni, il regime iraniano si è fondato sull’egemonia del clero sciita, se di qualche divisione si poteva parlare, essa era sempre interna alla dialettica degli uomini religiosi sciiti – divisi magari tra riformatori e conservatori, tra sostenitori di una linea pragmatica e fautori di una linea ideologica. Oggi, con Ahmadinejad, sta accadendo qualcosa di nuovo: la generazione di militari e paramilitari cresciuti durante la guerra tra l’Iran e l’Iraq e che, all’epoca avevano vent’anni, è arrivata a chiedere il conto. È una generazione che sente di essere diventata ormai una casta all’interno della società iraniana che è in grado di pretendere un ruolo pari a quello del clero sciita. Attualmente a tenere uniti militari e islamisti è il forte legame con il khomeinismo. Non è detto però che, in prospettiva, non nascano contraddizioni e conflitti riguardo la gestione del potere.

Nei giorni scorsi, infatti, alcuni quotidiani accennavano all’eventualità che le affermazioni di Ahmadinejad su Israele fossero un espediente per nascondere la crisi interna. Le sembra un’analisi corretta? Qual è la situazione, oggi, in Iran?

È assolutamente vero. Dopo la sconfitta di Khatami e del suo gruppo riformatore, il governo di Ahmadinejad avrebbe dovuto omogeneizzare il regime, invece contraddizioni e conflitti si sono spostati a destra dove diverse fazioni si contrappongono soprattutto sulle questioni legate alla gestione del potere e, quindi, ai luoghi, ai posti e agli spazi strategici. Penso, ad esempio, alla politica petrolifera: Ahmadinejad non è riuscito – fino a qualche giorno fa – a imporre un proprio ministro del petrolio e a farlo approvare dal parlamento a maggioranza conservatrice. Penso anche alla questione nucleare su cui il clero e i militari hanno posizioni contrastanti. Queste due questioni aperte si riflettono in numerosi problemi di politica interna ed estera: dalla distribuzione della ricchezza alla disoccupazione, dall’ordine pubblico ai rapporti con il resto del mondo.

I rapporti tra Iran e Occidente, in effetti, sembrano peggiorare di giorno in giorno. Da dove si può ripartire per instaurare un dialogo con l’Iran?

Prospettare il dialogo in questo momento è difficile. Bisognerà attendere che maturino alcune premesse e che si riaprano le possibilità di un nuovo tavolo negoziale. Ho l’impressione che l’attuale leadership iraniana non sia in grado di aprire le negoziazioni perché non sa se le sarà possibile avere nuovi interlocutori, come Mosca e Pechino, oppure se sarà costretta in una posizione di completo isolamento. Finché non verranno sciolti questi nodi, il prossimo futuro resterà un futuro difficile.

Nato a Teheran, Bijan Zarmandili vive a Roma dagli anni ’60. Autore di una serie di biografie tra cui quella dell’ayatollah Khomeini, ha recentemente pubblicato il romanzo La Grande Casa di Monirrieh (Feltrinelli, 2004, pp. 161; 14 €)


 

 

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