Il laicismo,
così come lo si concepiva nell’Ottocento,
è finito. Al capolinea è giunto quel laicismo
che ha permaeato la classe dirigente del nostro Risorgimento
e che ha permesso la costruzione di uno Stato unitario
con capitale a Roma, la città del Papa re. Quel
laicismo che, in Francia, ha segnato con rigida chiarezza
i confini della Repubblica, culminando nella legge del
1905 che ancora sorregge i rapporti fra Stato e Chiesa.
Attenzione però. Se abbiamo acume e sappiamo
vedere le cose nella giusta prospettiva e con la debita
distanza, ci renderemo presto conto che il laicismo
è morto e va ripensato e riscritto non certo
per l’affermazione della corrente teo-conservatrice,
che, seppure agguerrita, è, a giudizio di chi
scrive, nulla più che una delle tante “onde
anomale” che travolgono per un po’ la calma
compostezza del mare aperto della postmodernità
e sono poi destinate a presto scomparire risucchiate
nel nulla. Il laicismo è morto, invece, per motivi
più sostanziali e di lunga durata. Per l’emergere,
in questi anni, di due eventi dirompenti che contrassegneranno
sempre più le nostre vite e le cambieranno radicalmente:
da una parte la globalizzazione, che non è solo
un fatto economico ma più a fondo un processo
che porta a diretto contatto razze, etnie, culture e
soprattutto religioni diverse; dall’altra i progressi
della biologia, che sono alla base di interventi di
ingegneria genetica sempre più invasivi e sempre
più capaci di mettere in discussione gli elementi
di base della vita, compresi i principi dell’individualità
e dell’identità personale.
Queste due insorgenze mostrano a loro volta, nello
stesso tempo ma non contraddittoriamente, da un lato
l’insufficienza del vecchio laicismo, dall’altro
l’impellente necessità del principio laico
nel mondo che si delinea all’orizzonte. Solo con
una forte consapevolezza laica, sia a livello di governance
sia a livello di opinione pubblica, sarà possibile,
infatti, affrontare le nuove emergenze, le trasformazioni
epocali che già stiamo vivendo.
E’ chiaro perciò che, proprio perché
tutto è cambiato, in primo luogo il sistema concettuale
e pratico di riferimento del nostro essere nel mondo,
se si prendono sic et sempliciter le vecchie
declinazioni del laicismo, senza adattarle al nuovo,
si tradisce il principio laico. Per chi rimane fermo
a quelle categorie, il principio laico si converte in
altra cosa, nell’altro da sé. La sfida
che ci attende è invece quella di conservare
il vecchio spirito del laicismo, ma adattandolo al nuovo.
Bisogna combattere e mettere in luce i limiti dei concetti
e delle parole del vecchio laicismo, ma proprio per
essere veramente e integralmente laici.
E’ in quest’ordine di ragionamenti che
si situa, a mio avviso, la distinzione fra laicità
e laicismo. E’ una distinzione recente (fino a
non molto tempo fa i due termini venivano usati essenzialmente
come sinonimi), sollecitata soprattutto (ma non esclusivamente)
da ambienti culturali cattolici. E’ una distinzione
che però va accettata, in quanto è giusta
ed ha un indubbio valore euristico. Ad una condizione,
però: che, al contrario di quanto accade normalmente,
sia esplicitata in modo concettualmente preciso e determinato.
E’ vero, come scrive Pietro Scoppola nel suo contributo
al recentissimo volume Le ragioni dei laici (Laterza,
a cura di Geminello Preterossi), che, generalmente,
“si tende a distinguere fra laicismo che implica
un rifiuto della prospettiva religiosa e laicità
che implica invece distinzione e autonomia reciproca
ma non ostilità”. Ma è pur vero
che, per giungere a una distinzione migliore e più
teoreticamente pregnante, occorre far riferimento al
fatto che la laicità, come ha sottolineato in
più occasioni Valerio Zanone, è un metodo
e non un sistema di pensiero, una procedura e un’
arte (della separazione) e non un’ideologia. Nel
momento in cui la laicità si fa ideologia e si
distingue per un’opposizione sistematica a ogni
influsso della religione sugli uomini, nel momento in
cui ad esempio diventa irreligione o ateismo di Stato,
la laicità diventa per ciò stesso laicismo.
E il laicismo è l’opposto speculare del
teismo: l’uno richiama l’altro.
La vera e integrale laicità spariglia invece
le carte, sceglie un altro tavolo da gioco, si pone
in un altro ordine di azione. In quanto metodo essa
è di per sé fluida: non può, pena
contraddirsi, essere ipostatizzata e solidificarsi.
La laicità è una sensibilità, una
misura, un continuo calibrare fra sfere di appartenenza
diverse. E’ soprattutto consapevolezza estrema
del fatto che, se si vuole veramente rispettare l’altro,
se lo si ritiene veramente portatore di un’autonoma
dignità (ed è questo un insegnamento cristiano),
bisogna, nello spazio pubblico, fermarsi alle verità
penultime e non accedere alle ultime. Detto altrimenti:
occorre separare nettamente l’etica dalla politica,
le convinzioni assolute da quelle pratiche.
E’ relativismo tutto questo? Sì e no.
Sì, se si considerano le cose dal punto di vista
dei “fondamenti” e delle più profonde
convinzioni di ognuno. No, se le si considerano dal
punto di vista pratico. Si può dire, infatti,
che la “superiorità” del modo di
pensare laico, proprio perché si tratta di un
metodo e non di un’ideologia, non è teorica
ma politica: consiste nel fatto, puro e semplice, che,
grazie ad esso, gli uomini non si scannano. E la politica
ha un senso solo e esclusivamente come protezione della
vita: in ciò consiste il suo scopo e la sua ragion
d’essere.
A suo modo l’etica laica è assoluta, intransigente.
E’ tollerante con tutti, ma non chi vuole mettere
a repentaglio questa estrema tolleranza. Con costoro
è inflessibile. L’Occidente, come concetto
ideale più che storico e geopolitico, è
la patria d’elezione del principio laico. Si può
perciò anche ammettere con tranquillità
che esso sia “superiore” al suo contrario.
Ma lo è solo nella misura in cui la nostra civiltà,
contrariamente alle altre, non ha un’identità
fissa, forte, definitiva. Essa ha una caratteristica,
che è un unicum nella storia: accetta
e integra gli altri, non le si oppone. Preservare con
cura questa natura “meticcia” dell’Occidente
è l’impegno quotidiano dell’uomo
laico.
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