Da giorni
il mondo intero guarda perplesso quello che sta succedendo
in Francia. Dalla periferia parigina un’ondata
di violenza si è diffusa per contagio a tutti
i sobborghi delle città francesi. Saccheggi,
devastazioni, auto bruciate, edifici pubblici dati alle
fiamme. I giovani delle periferie, poveri, disoccupati,
spesso figli dell’immigrazione, sfogano la propria
rabbia verso lo Stato francese senza avanzare alcuna
rivendicazione. Una situazione che ha indotto il primo
ministro Dominique de Villepin, d’accordo col
presidente della Repubblica Jacques Chirac, a decretare
lo stato d’emergenza nelle zone sensibili. Misura,
quest’ultima, conosciuta ai tempi della Guerra
d’Algeria, uno dei momenti peggiori della recente
storia repubblicana.
Questione sociale? Fallimento del modello francese
d’integrazione? Prima della sua partenza per New
York, dove presenterà alla Columbia University
il suo ultimo lavoro, Atlante delle migrazioni,
ne abbiamo parlato con Catherine de Wenden, direttrice
di ricerca al Cnrs e all’Istituto di studi politici
di Parigi, che da vent’anni lavora sui differenti
temi legati all’immigrazione.
Professoressa, nel recente passato altri avvenimenti
erano serviti d’avvertimento, ma la violenza di
questi giorni ha rivelato al mondo, e forse anche ai
francesi, una situazione esplosiva nelle banlieues.
Era prevedibile un’esplosione di tale portata?
Non a questo livello. Ma ci sono vari fattori che hanno
portato a questo punto e che andavano indagati meglio.
Sono trent’anni che si parla del problema dei
sobborghi.
Il primo fattore è il fallimento della cosiddetta
“Politica della città” che è
basata su interventi esclusivamente rivolti agli alloggi,
alla ristrutturazione e al risanamento degli immobili.
In questo modo ci si è dimenticati dell’individuo
e non si sono prese misure necessarie, per esempio,
alla lotta alla discriminazione o per permettere ai
giovani di frequentare altre scuole che non quelle degradate
delle banlieues.
Il secondo fattore da tenere in considerazione per capire
quello che è successo è la tradizionale
mobilitazione in Francia contro la violenza discriminatoria
della polizia. Venticinque anni fa, dopo la morte dovuta
alle forze dell’ordine di un giovane a Lione,
ci fu un forte coinvolgimento nazionale. La mobilitazione
si è poi ripetuta in anni più recenti
dopo fatti simili a Marsiglia, a Tolosa e anche a Parigi.
Un’altra ragione è il fenomeno di “palestinizzazione”
delle banlieues, che i giovani considerano appunto come
loro territori da difendere attraverso la lotta contro
l’occupazione dello Stato.
Gli imam delle banlieues hanno invitato
alla calma e organizzato pattuglie nei quartieri per
cercare di portare la pace. Quanto c’entra la
questione etnico-religiosa e quanto invece quella sociale
negli avvenimenti di queste notti?
La questione sociale è centrale, di gran lunga
la più importante per spiegare quello che succede.
La disoccupazione in certe banlieues arriva fino al
trenta per cento, colpisce in maggioranza i figli, ma
anche i padri e le famiglie in generale. Questo spiega
il degrado degli immobili e del contesto abitativo,
la povertà e l’esistenza della doppia economia
della droga, della criminalità e della violenza.
E’ il fallimento dalla “mixità”
che conduce poi al fatto che nel banlieues abitino moltissimi
stranieri. Negli alloggi sociali nel centro non ci sono
loro.
La questione religiosa, invece, non è affatto
centrale. Gli imam e le associazioni religiose hanno
svolto un ruolo di pacificatori e di mediatori tra lo
Stato e i giovani casseurs.
Ogni Paese ha il suo modello di coesistenza
in relazione alla propria storia. Qual è la specificità
del modello repubblicano d’integrazione?
Il modello repubblicano francese proclama l’uguaglianza
dei diritti dei cittadini, ma questi avvenimenti mettono
in discussione l’effettività di questo
proclama. Il discorso dell’universalità
della cittadinanza è, in un certo qual modo,
fallito nel momento in cui ha avuto un’enorme
difficoltà a vedere la discriminazione. Abbiamo
vissuto nel mito dell’omogeneità della
cittadinanza senza vedere la realtà di questi
giovani francesi che sono sì francesi, ma francesi
diversi.
Questa strumentazione inadeguata discende dal fatto
che abbiamo pensato che l’immigrazione fosse un
fatto congiunturale e non strutturale. Per questo sin
dal ’74 si è deciso di praticare una politica
del ritorno degli immigrati nei loro paesi; si è
pensato, anche favoriti dalla presenza del Fronte nazionale,
che era questo che gli immigrati volessero.
La stampa internazionale, soprattutto quella
anglosassone, ha commentato le violenze dei giovani
della banlieue come lo scacco del modello francese d’integrazione,
che nega le identità imponendo il velo nelle
scuole. Le cose stanno così o i principi repubblicani
sono ancora in grado di raccogliere la sfida dell’immigrazione?
Credo che i principi repubblicani riescano a trovare
una soluzione per i problemi legati all’immigrazione.
Infatti, se è vero che per alcuni immigrati l’applicazione
delle politiche francesi non funziona, è pur
vero che per altri invece funziona e come. Esiste una
parte d’immigrazione, che non si vede a occhio
nudo ma che viene fuori bene dalla ricerca sul campo,
che è integrata e cresce socialmente, da operai
diventano classe media. Spesso dipende dalle comunità
d’origine. I maghrebini, ad esempio, spesso fanno
parte della classe media, frequentano le università,
etc.
Dopo gli avvenimenti francesi e gli attentati
di Londra, le bombe che sono state piazzate da inglesi
figli d’immigrati, sembra che ancora nessun modello
funzioni. Alain Touraine ha proposto di aprire la rigidità
francese ad elementi di comunitarismo. Se il modello
anglosassone produce comunità etniche, quello
francese produce comunità economico-sociali degradate.
I modelli generalmente non sono puri e molto dipende
dalla loro interazione con le diverse comunità.
I maghrebini in Francia vivono lo spazio pubblico, mentre
in Inghilterra ci sono comunità che vivono senza
Stato, completamente autonome. Per contro là
ci sono loro rappresentati in Parlamento, mentre qui
in Francia no. I turchi che sono comunitaristi in Germania
lo sono anche qui da noi. L’integrazione va seguita
quotidianamente, segue dinamiche complesse che dipendono
da molteplici variabili oltre che dal modello operante.
Intanto, per fronteggiare l’emergenza,
De Villepin ha scelto la strada della fermezza e ha
decretato lo stato d’urgenza. Una tale iniziativa
era stata presa solo nel 1955 nel pieno della guerra
d’Algeria. Quella storia coloniale è ancora
viva in Francia se una stessa misura deve essere usata
per i padri e poi per i figli e i nipoti?
Direi di sì, il colonialismo non è una
questione risolta se il riflesso condizionato è
sempre quello dell’emergenza.
I paesi del Europa meridionale, Italia e Spagna,
alle prese con problematiche legate all’immigrazione
clandestina, le “carrette del mare”, chiedono
da tempo una politica unitaria a livello europeo per
gestire un fenomeno che sta diventando dirompente. Quale
deve essere la risposta europea?
Direi che la politica europea sull’immigrazione
sia stata un fallimento. La diversità storica
e geografica di ogni paese dell’Ue crea una disuguaglianza
di interessi, mentre il sistema europeo presuppone un’omogeneità
delle politiche. Ai Paesi del Nord interessa meno la
gestione dei flussi dell’immigrazione clandestina
perché sono lontani e intrattengono con l’immigrazione
problemi di ordine differente.
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