Sul Corriere
della Sera Magdi Allam ha scritto che, quando diede
la sua adesione alla manifestazione del 3 novembre indetta
da Giuliano Ferrara contro le dichiarazioni antiisraeliane
del presidente iraniano Ahmadinejad, c’era solo
un altro musulmano insieme a lui, il “coraggioso
e illuminato” Khalid Chaouki. Ex presidente dei
Giovani musulmani d’Italia, nato a Casablanca
23 anni fa e cresciuto in Emilia-Romagna, Khalid è
già molto noto al pubblico televisivo e se il
cosiddetto “Islam moderato” cercasse dei
volti, il suo potrebbe essere certamente, e a buon diritto,
uno dei più giovani ma dalle idee che sembrano
invece molto matrure. Khalid ci parla della manifestazione
(“Un segnale importante, anche se è stata
strumentalizzata”), della minaccia dell’Iran
e dell’Islam italiano: “Sui media i ‘musulmani
di buon senso’ sono sottorappresentati. Il dibattito
è a un livello bassissimo e si preferisce lo
stereotipo del musulmano radicale”. Sulle violenze
nelle periferie francesi, infine, si è fatto
un’opinione politicamente scorretta, per un musulmano
come lui: “Purtroppo l’Islam radicale in
quelle vicende ha un peso. Attraverso un’autovittimizzazione
strumentalizza quella rabbia, quella emarginazione,
in chiave antioccidentale”.
Khalid, cosa ti ha spinto ad aderire subito
alla manifestazione in favore di Israele?
Noi abbiamo sempre combattuto chi vuole lo scontro
di civiltà e chi vuole inasprire i rapporti tra
i musulmani e il resto del mondo. Per questo ci è
parso che le dichiarazioni di Ahmadinejad volessero
riproporre questo modello di “Islam contro tutti”.
Quando dici “noi” a chi ti riferisci?
A tutti i musulmani di buon senso, che si sono trovati
in disaccordo con gli attacchi del presidente iraniano.
Che bilancio fai della manifestazione? Un buon
segnale per il dibattito italiano?
I punti di partenza erano ottimi. Era importante dare
un segnale di compattezza, di unità tra le formazioni
politiche e le persone di fede religiosa. È chiaro
che poi, purtroppo, eventi di questo tipo possono essere
strumentalizzate in diverse chiavi politiche. Ma il
bilancio, dal mio punto di vista, è positivo,
perché quella manifestazione, per la prima volta,
ha dato ai musulmani la possibilità di dimostrare
che anche loro rispettano Israele e vogliono dialogare
con gli ebrei.
Credi tuttavia che la manifestazione sia stata
strumentalizzata?
Sicuramente sì, non si può nascondere.
Da un lato si è parlato poco del diritto dei
palestinesi ad avere un proprio Stato, che è
un diritto che spetta loro da 50 anni: non averne parlato
abbastanza significa aver fatto apparire di parte quella
manifestazione. Dall’altro non si è riconosciuto
che questo scontro di civiltà è alimentato
non solo da parte musulmana, ma anche da chi fomenta
l’odio attraverso campagne denigranti o guerre
ingiuste. Come la guerra in Iraq, che è il culmine
di un’ideologia che sostiene un certo modello
di civiltà e che invece dimentica che bisogna
rispettare delle specificità, una gradualità
di evoluzione democratica, e soprattutto il dialogo
come unica forma di cambiamento delle cose che non ci
piacciono.
Spesso, però, si ha l’impressione
che voi “musulmani di buon senso” rappresentiate
una minoranza nel mondo islamico.
Su questo concetto sono molto cauto. Il problema è
della rappresentazione mediatica della realtà
islamica italiana. Io sono musulmano praticante, frequento
le moschee e mi sento cittadino italiano. E penso di
rappresentare la volontà di molti musulmani italiani,
che però, per diverse ragioni, non vediamo rappresentati
sulla scena pubblica. Da una parte c’è
la strumentalizzazione di alcune organizzazioni che
si dicono islamiche e di alcuni luoghi, di alcune moschee,
che sono dirette da personaggi che non hanno interesse
ad aprirsi, e che anzi intendono solo mantenere il potere
attraverso un’autoghettizzazione. Dall’altra
c’è una difficoltà di approccio
culturale da parte della società italiana.
Vuoi dire che l’Islam di cui ti senti
parte, rispetto alla realtà, è sottorappresentato
sia nei media sia nei centri culturali islamici?
Sì, c’è l’Islam della società
civile, quello che incontriamo nelle strade e che non
necessariamente è radicale. Che non corrisponde
allo stereotipo dell’Homo islamicus.
Direi che però la responsabilità è
anche nostra, perché dobbiamo trovare nuovi strumenti
di coinvolgimento di queste masse. È un errore
distinguere tra i musulmani delle moschee e quelli che
stanno fuori, i “religiosi” e i laici”.
Non dobbiamo cadere in questo tranello. La realtà
islamica è molto più complessa, e dobbiamo
trovare altri canoni di rappresentazione. L’essere
cittadini è un requisito più importante
della frequenza con cui si va in moschea o dell’appartenenza
a determinate organizzazioni.
Torniamo all’Iran. Come cittadino musulmano
e europeo, quale ruolo pensi che potrebbe avere l’Ue
nella crisi iraniana?
Un ruolo centrale. Il compito principale deve essere
quello di tendere una mano al popolo iraniano, che è
quello che ci interessa di più in questo momento.
Si deve far capire al popolo iraniano che nessuno è
contro l’Iran, nessuno è contro l’Islam,
e c’è la necessità di aprire un
dialogo e di confrontarsi con determinate regole. Questo
manca oggi, e l’Ue ha la possibilità di
instaurare questo dialogo dal punto di vista culturale,
interreligioso, e coinvolgendo soprattutto i giovani.
Questa è la sfida dell’Europa, e ci permetterebbe
anche di differenziarci da un approccio fondato invece
sulla minaccia.
Il rapporto tra Europa e mondo islamico rimane
però sempre complicato. Credi che negli scontri
alla periferia di Parigi c’entri anche l’elemento
religioso?
Io sono forse uno dei pochi a sostenere che, purtroppo,
in quella vicenda l’elemento religioso indirettamente
ha un suo peso. Perché, una volta scoppiata la
rivolta, la religione diventa elemento di sostegno a
quelle rivendicazioni, in qualche modo contribuisce
a far maturare una differenziazione rispetto alle società
autoctone, un’autovittimizzazione, la visione
di un complotto occidentale, e purtroppo le sinagoghe
date al fuoco sono, a questo proposito, un segnale di
allarme. Conosco molto bene la società francese,
e per troppo tempo si è fatto finta di niente.
In alcune realtà in cui lo spaccio di droga convive
con l’Islam radicale, questa rabbia, questa emarginazione
può essere certamente strumentalizzata da gruppi
radicali in chiave violenta e antioccidentale.
Pensi che la stessa situazione possa riprodursi
anche in Italia?
In Italia credo che sia troppo presto. Molti fanno
la corsa a chi lo dice per primo, e primo stavolta è
arrivato Prodi… In Italia già in passato
ci sono stati degli episodi, come diverse azioni di
vandalismo e microcriminalità a Torino. Occorre
prevenire questa tendenza che rischia di essere non
solo francese, ma europea. Le periferie italiane sono
effettivamente dimenticate, e le realtà di provincia
sono sottovalutate. Bisogna agire nella prevenzione
e nel riconoscimento immediato dei diritti, ma all’interno
di una logica di responsabilizzazione dei nuovi cittadini.
In Francia si è parlato a lungo di assistenza,
e poco di dovere, di impegno, di possibilità
di avere successo in una società liberale e aperta
a tutti.
Parli di doveri e diritti per i musulmani.
Quali sono i diritti su cui, in Italia, si deve ancora
lavorare?
Abbiamo una legislazione disastrosa sull’immigrazione.
Per tanti anni si è associata l’immigrazione
all’emergenza, ed è forse ora di considerarla
una realtà, di cui parlare non solo in chiave
polemica ma anche con dati alla mano. E i dati Istat
dicono che il 31,4% della popolazione carceraria è
straniera, che il tasso di insuccesso scolastico raggiunge
in certe realtà il 15%. Il che significa che
si deve ancora lavorare molto sulle pari opportunità,
sull’informazione e soprattutto sulle politiche
della cittadinanza e sull’educazione civile, ricordando
che l’integrazione non significa assimilazione
o disconoscimento delle appartenenze. Lo Stato e le
istituzioni devono avere in mente un modello chiaro,
e il dibattito in Italia è ancora a un livello
bassissimo. Siamo ancora nelle logiche della campagna
elettorale, e spero che un giorno non dovremo svegliarci
con una situazione come quella delle banlieue
parigine.
Come giudichi il livello dell’integrazione
dei musulmani in Italia?
Gli individui lavorano e vivono felicemente nella società
italiana. Nei rapporti tra Stato e minoranze religiose
c’è ancora molto da fare. Negli ultimi
anni anche su questo tema c’è stato molto
silenzio. La Consulta del ministro Pisanu, ahimè,
nonostante un decreto del governo non ha ancora visto
la luce. Siamo di fronte al solito costume italiano:
tante promesse, nessuna azione.
Un’azione, purtroppo, è stata
quella dell’esenzione dell’Ici per gli immobili
della Chiesa cattolica. Un chiaro segnale, in negativo,
per l’Islam.
Rientra in logiche interne di propaganda. Il tema dell’Islam
in Europa va affrontato con grande serietà e
non bastano i gala e le cene con gli ambasciatori. Serve
un confronto diretto con gli interessati, un dibattito
pubblico che cerchi una risposta immediata. Altrimenti
il prezzo di una mancata integrazione rischia di essere
carissimo per tutta la società italiana.
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